Guardie e ladri, Achille Serra racconta Renato Vallanzasca

di Giulia Giacobini e Giovanna Pavesi

«Achille, sei sempre tu davanti alla nostra porta». Ripete quelle parole quasi riproducendo lo stesso tono, seduto sul divano nel soggiorno di casa sua. È circondato da una libreria piena di ricordi. E di fotografie. Le ultime, quelle delle nipotine. Della sua vita passata non ha dimenticato nulla, neanche un frammento. Gli inseguimenti, le tattiche, gli indirizzi, gli appostamenti, i collaboratori, le telefonate, i volti e i banditi. Milano lo accolse alla fine degli anni Sessanta, appena terminati gli studi all’università. Da Roma approdò in una città cupa e affascinante, violenta e attraente. Ricca, disperata e malavitosa. Achille Serra, qui, ci arrivò da poliziotto, poi da giovane dirigente della squadra mobile e capo della sezione sequestri della Questura. Erano gli anni delle rapine a mano armata, della prima criminalità organizzata, delle Calibro 38, dei locali notturni gestiti dalla mafia, dei sequestri di persona, dell’eversione e del terrorismo. Gli anni di Francis Turatello, di Angelo Epaminonda, di Luciano Liggio, dei fratelli fidanzati. E di Renato Vallanzasca.

Quella frase gliela disse proprio Vallanzasca, più di quarant’anni fa. «Achille», come lo chiamava, fu il primo ad arrestarlo, nel febbraio del 1972. Prima ancora che qualcuno lo consacrasse a supereroe del male. Insieme a un gruppo di «banditi di strada», Vallanzasca aveva assaltato il portavalori che trasportava gli incassi dell’Esselunga di via Monterosa. Non aveva ancora 22 anni. Quell’arresto gli costò quattro anni di prigione. Dalla quale evase, facendosi ricoverare all’Ospedale Bassi di Dergano per un’epatite che si era provocato da solo. Riuscì a corrompere il piantone che lo teneva d’occhio in ospedale offrendogli tre milioni di lire. Una cifra importante, all’epoca. Scappò e l’agente non vide mai quei soldi.

A lungo, Serra e Vallanzasca furono lo sbirro e il bandito. La guardia e il ladro. Zenigata e Lupin. Due coetanei, le cui vite si sono incrociate diverse volte. Oggi sono due uomini di mezza età. Alle spalle di entrambi esistenze lunghe e faticose. L’una passata a essere un uomo di Stato. L’altra consumata dietro le sbarre dei penitenziari e schiacciata da un mito che esiste ancora.

Accadeva di tutto. A ogni ora del giorno. In piazza Duomo come in periferia. Sparatorie, regolamenti di conti, lotte tra bande criminali. A decifrare i codici della malavita erano in pochi. Il maresciallo Ferdinando Oscuri fu uno di quelli. Per ogni evento delittuoso, sapeva fornire un’interpretazione. Un pilastro per Achille Serra.«Il primo giorno che lo vidi mi disse: “Dottore, stasera alle 20, quattro banditi, con il passamontagna, scavalcheranno un muro di cinta di una via di San Siro ed entreranno nella villa di un filatelico. Lo imbavaglieranno e porteranno via tutti i francobolli”. Andò esattamente così». Confidenze, piccole informazioni e rivelazioni: Oscuri, nei tanti anni di carriera, si era costruito una straordinaria rete di «confidenti». Si trattava, nella maggior parte dei casi, dei custodi degli stabili. «Una manna per noi», continua Serra. I portinai conoscevano ogni movimento nei palazzi e, prima di chiunque altro, sapevano se nei loro corridoi passassero criminali o sconosciuti.

Eppure, di quella banda di ragazzi che aveva assaltato il portavalori dell’Esselunga, all’inizio, nessuno riusciva a comprendere nulla. Nemmeno il maresciallo Oscuri. «Nessuno di noi pensava che quattro sbarbati pressoché incensurati potessero aver messo in piedi un’organizzazione di questo genere, che ogni sabato entrava in un supermercato diverso con i mitra sparando in aria», spiega Serra. Fino a quando un confidente rivelò a Oscuri le abitudini di quel gruppo di ragazzi. Le serate passate al bar, il divertimento, le donne e le voci spavalde di chi rivelava di aver messo a segno una rapina in un negozio. «Oscuri non ci credette troppo ma, come al solito, portò la notizia». E non sbagliò nemmeno in quel caso.

Quel gruppetto di giovani spacconi divenne, nel giro di poco tempo, la Banda della Comasina. Una struttura criminale ben organizzata, anche se piccola all’inizio, che con il passare del tempo contava sempre più adepti. A comporre la banda, in principio, furono cinque giovani. Al vertice, Renato Vallanzasca, riconosciuto da tutti i componenti come il capo. Poi Mario Carluccio, Rossano Cochis, Antonio Colia (detto “il Pinella”), Angela Corradi e Claudio Gatti. Alcuni giornali li indicarono come «la Banda dei drogati», sempre pronti ad alzare il livello di violenza.

«Il gruppo si ampliò fino ad arrivare a una ventina di membri. Penso a Vito Pesce, che si faceva le punture di eroina sotto ai piedi perché non aveva più posto. Penso a Claudio Gatti, a Merlo, a Rossi, a Monopoli. Penso anche al vice di Vallanzasca, Colia. Molti di loro, oggi, sono morti. Furono arrestati praticamente tutti ma ci dettero del filo da torcere». L’ultimo ad andarsene, in ordine di tempo, è stato proprio Antonio Colia. È morto nel 2014 in un incidente stradale, in sella alla sua moto. Proprio lui: l’autista, “il mago delle fughe ai cento all’ora”. È sepolto nel cimitero di Bruzzano, al primo piano della galleria Levante. Una vita spericolata, finita in un piazzale dell’hinterland a più di 60 anni.

«Ricordo che Colia, dopo il sequestro di una giovane donna a Milano, naturalmente insieme alla Banda, fu individuato da noi in un appartamento di via Lassalle. Con sé aveva pistole, mitra e altre armi. Io avevo tanti uomini, tutti con il giubbotto antiproiettile. Arrivammo al piano e lui, che con me aveva un rapporto di estrema fiducia e di rispetto reciproco, mi disse: “Achille, se tu mandi via tutti i tuoi uomini dal pianerottolo e rimani da solo parliamo”. Parlammo a lungo, come era capitato tante volte con altri. Tenne fede al patto, che entrambi rispettammo con lealtà. Mi aprì la porta con una bottiglia di Crystal e due bicchieri. E si arrese». Una questione di lealtà e di rispetto, appunto, tra il delinquente e lo sbirro: «È incomprensibile e spesso la gente non può capire. Ma io ho risolto i casi armato solo di dialogo. Niente armi, niente violenza. E ho sempre scelto di dormire tranquillo con la mia coscienza».

Qualche settimana dopo la sparatoria di Piazza Vetra, nel dicembre dello stesso anno, Vallanzasca alzò la posta in gioco. Sfidando Francis Turatello e assaltando una delle sue bische. Iniziò una guerra fra bande, che si concluse solo con l’arresto del boss della Comasina. «Erano diversi: Vallanzasca era un criminale di strada, molto coraggioso. E Turatello una mente sopraffina, che gestiva il gioco d’azzardo», ricorda Serra. «Quando le due bande si incontravano per strada, fosse piazza Duomo o la periferia, iniziava un conflitto a fuoco. La gente non usciva più: in pochi frequentavano teatri, cinema o ristoranti. Il grande amore che Vallanzasca nutriva per la sua città, Milano, gli si ritorceva contro. Le persone non sopportavano più questo stato di cose».

Nello stesso anno, il 13 dicembre 1976, Vallanzasca mise a segno il sequestro di Emanuela Trapani, figlia di un noto imprenditore. La giovane, rilasciata circa 40 giorni dopo, fu tenuta nascosta in un appartamento di via Alessi, nella zona di Porta Genova. Per i rapimenti, Renato Vallanzasca aveva escogitato un proprio metodo: per rintracciare i nomi dei candidati più facoltosi si fingeva un ufficiale della Guardia di Finanza e chiedeva all’archivista dell’ufficio tributi di Milano la lista degli uomini più ricchi della città. Che, puntualmente, gli veniva data. A parte quello di Emanuela Trapani, i suoi sequestri duravano, di solito, pochi giorni. E avevano delle regole precise: al rapito venivano «somministrate» 76 ore di festini a base di belle donne, cocaina e buon cibo. Nessuno, però, ha mai contato i suoi rapimenti.

Il 6 febbraio 1977 un conflitto a fuoco tra la polizia stradale e Vallanzasca, a Dalmine, uccise i due agenti, Renato Barborini e Luigi D’Andrea. Lì morì anche Antonio Furiato, l’unico componente della Banda che lo accompagnò in quella circostanza. Vallanzasca tentò la fuga verso Sud, ferito dai colpi di arma da fuoco. Lo arrestarono i Carabinieri in via Venusio, a Roma, il 15 febbraio 1977, cinque anni dopo il primo fermo a Milano. Con sé aveva un mitra, due pistole e quattro bombe a mano.

Bello, spregiudicato e coraggioso. Attorno all’immagine del bandito milanese negli anni si è costruita una specie di leggenda. Un Dorian Gray del crimine che, nonostante l’età, non invecchia mai. E rimane fermo al tanto detestato soprannome “bel René”. «Il profilo di Renato Vallanzasca corrispondeva a quello di un ragazzo di una certa intelligenza, che sapeva intrattenersi con le persone. Ma è stato anche un criminale che, a sangue freddo, ha sparato a due poliziotti sull’autostrada per Bergamo (Dalmine, ndr) e li ha uccisi entrambi. Ha ammazzato, certo. Ma posso dire che la violenza di quei momenti, anche se era tanta, non è mai stata gratuita. Quelli come Vallanzasca e Turatello avevano un “codice”, che oggi tra i criminali non esiste più».

Serra non vuole essere frainteso e specifica il senso delle sue parole: «Né io né i miei uomini abbiamo mai avuto paura di loro. Ma non per un fatto di vanteria, ma perché non si usava violenza per la violenza. Siccome da parte nostra non c’è mai stato un atteggiamento aggressivo non avevo paura. Una volta sola capitò un fatto spiacevole, con uno dei componenti di passaggio della sua banda. Quello fu un vero delinquente. Si chiamava Cristiano e in via Padova aveva sequestrato un immobiliarista. Come sempre andai lì, con il dottor Colucci. Davanti alla porta di questo appartamento cominciai a parlare. Una volta liberato, il sequestrato ci disse che Cristiano aveva caricato il mitra e aveva sparato. Ma per fortuna il meccanismo si era inceppato, altrimenti saremmo morti. Quello fu l’unico caso».

Tutte le volte che Achille Serra è riuscito a trovare Renato Vallanzasca è stato grazie alle confidenze e ai pedinamenti «delle sue innumerevoli e bellissime donne»: «Seguendo le ragazze, gli amici, chiedendo agli informatori e mettendo sotto controllo il telefono riuscivamo a tenere d’occhio i movimenti. Questo è il lavoro che fa un investigatore. E a chi mi chiede che cosa si prova a essere stato il primo ad averlo preso rispondo che non si prova nulla. Solo la soddisfazione di poter restituire un orologio Rolex d’oro di ingente valore come feci nel ‘72. E basta».

Della Banda della Comasina, oggi, a Milano non è rimasto più nulla. Nessuna eredità criminale e un modo completamente diverso di mettere a segno colpi e rapine. «Tutti i componenti furono arrestati. Molti se ne sono andati. Nessuno ha mai seguito il suo modello. Perché, negli anni, con l’immigrazione, la malavita si è un po’ mischiata. Oggi è tutto diverso: i reati sono diversi così come i criminali», specifica Serra, da osservatore ormai in pensione. «Se potessi incontrare Renato oggi probabilmente gli chiederei chi gliel’ha fatto fare. Trent’anni di carcere. Ma chi te l’ha fatto fare».