ANIMALI DA CIRCO

«Per me sono come delle sorelle, anzi forse delle zie perché ormai hanno una certa età. Siamo cresciuti insieme e ore mi occupo di loro 24 ore su 24», racconta Josep Gärtner, giovane domatore, mentre Rami cerca di attirare la sua attenzione con la proboscide. 

È libera fuori dal tendone che rappresenta la sua casa, gironzola incuriosita e tranquilla mentre josef spiega che cosa significa essere un domatore di elefanti. Sembra quasi un’attrice famosa che rimane dietro le quinte mentre il regista racconta, in poche parole, quello che succederà durante lo spettacolo che andrà in scena. 

Sua sorella Mantra rimane dentro il tendone: «Lei è una mangiona. Nella vita non desidera fare altro, forse solo dormire. Deve seguire una dieta tutta sua per non esagerare con il cibo» continua Josef con l’aria di un genitore che, dopo tanta pazienza, alla fine si arrende al capriccio di un figlio. 

Trenta minuti prima dello spettacolo Josef smette di dare loro del cibo per evitare che siano troppo piene durante lo spettacolo e che quindi non seguano i comandi. 

Rami e Mantra sono delle artiste, Si, ma devono essere un po’ invogliate ad esibirsi. E che cosa esiste di meglio di un po’ di cibo per convincerle? Questo è il metodo per farsi ascoltare dai domatori, un premio in cibo dopo aver eseguito un comando.

 Prima dello spettacolo ovviamente vengono anche lavate e preparate a dovere. Un vero e proprio camerino in cui le artiste si preparano per lo show. «Solitamente hanno sabbia e fieno sulle spalle, se lo tirano addosso per gli insetti o per il caldo, quindi le puliamo».

Una volta finito il loro numero arriva l’ora di cena, verso le 20:00 Josef e altre persone del circo che aiutano nella gestione degli animali portano altra acqua e altro fieno. Fieno da mangiare e da usare come letto su cui sdraiarsi per farsi una bella dormita dopo gli sforzi della giornata.

Un elefante in media dorme 2-3 ore su 24, Rami e Mantra non dormono mai insieme ma a turno. Una fa la guardia all’altra, e dato che è Rami il capobranco inizia sempre per prima a sorvegliare. Rami è la più piccola, si passa un paio di anni con Mantra, ma è lei che si occupa di tutto. «Quando c’è un problema, non va il riscaldamento o manca dell’acqua, è Rami ad avvertirci» spiega Josef «Urla e noi arriviamo cercando di capire cosa non va».

 

Rami e Mantra con Robby Gärtner, zio di Josef.
A soli sei anni si cimenta in un’esibizione come domatore delle due elefantesse.
«Impavido e armato solo di un sorriso malizioso, Robby si siede sull’elefantessa ed esegue l’atto di dressage», così recita la didascalia accanto alla foto pubblicata nell’articolo ritorvato nel museo del circo di Vienna.

È Robby Gärtner a tramandare al resto della sua famiglia la passione per il circo e gli animali. A tre anni era già nell’arena con gli elefanti e così fù per suo padre e suo nonno prima di lui. 

Ancora oggi la famiglia si esibisce e mantiene alto in nome dei Gärtner. Il 5 Gennaio 2024 hanno ricevuto un premio dall’illustre famiglia circense italiana Canestrelli Togni. I giovani Gärtner si sono distinti in diverse discipline circensi e questo riconoscimento, dato dai Togni, ha celebrato la solida e storica amicizia tra le due famiglie. Il premio si è tradotto in un grande momento di festa sotto il tendone del Circo Lidia Togni. 

 

Il rapporto tra queste due famiglie circensi è un rapporto di stima, un riconoscimento di professionalità. Josef racconta di aver imparato molto da Livio Togni, domatore soprannominato dai media il “Re degli animali”. A un certo punto interrompe l’intervista per cercare un video di Togni su youtube, un video in cui risponde a delle critiche fatte da alcuni animalisti. «Per me lui è un modello da seguire e vorrei esprimermi come lui» dice Josef «È sempre riuscito in maniera esemplare a rispondere ai giornalisti e a spiegare quello che pensiamo noi circensi».

I pachidermi hanno un’importanza fondamentale nella vita di Flavio Togni; il primo contatto risale al 1966 quando, all’età di sei anni, cavalca la sua prima elefantessa, Dehli. Nel 1975 invece avviene il vero debutto in pista. Mentre la famiglia è in tournée con il Circo Billy Smart a Tortona, Flavio presenta un numero di otto elefanti indiani addestrati precedentemente dallo zio Bruno. E proprio con questi animali conquista il Principe Ranieri di Monaco che lo invita a partecipare al Festival di Montecarlo l’anno successivo, dove proprio grazie all’esibizione di tredici esemplari asiatici vince il primo Clown d’Argento della sua carriera. Gli elefanti sono gli animali con cui ha realizzato più performance e con cui ha ottenuto più successi. 

Sua maestà l’elefante è l’animale più spettacolare e rappresentativo del circo. Secondo Togni sono infatti animali che accettano facilmente la convivenza con l’uomo e gli insegnamenti da questi impartiti, perché hanno un notevole grado d’intelligenza, e poiché in natura sono abituati a vivere in gruppi, non hanno difficoltà ad accettare un capobranco, rappresentato in questo caso o dal domatore oppure da un altro pachiderma, come Rami.

 

«L’ammaestramento dell’elefante inoltre è spesso oggetto di molte critiche, per lo più dettate da un atteggiamento emotivo e poco razionale, perché vedendo queste bestie così grosse si pensa erroneamente che debbano fare chissà quali sforzi per assumere certe posizioni. Ma se così fosse, sarebbe impossibile costringerli con la forza: l’elefante non accetta mai di essere maltrattato e soprattutto si vendica sempre”.

 

Mentre Josef spiega come sarebbe impossibile maltrattare gli animali e in contemporanea farsi ascoltare durante le esibizioni la sua voce cambia, assomiglia ad una cantilena registrata. Forse per le troppe volte in cui ha dovuto spiegare questo concetto agli animalisti o ha dovuto rispondere alle proteste fuori dal tendone del circo. Non sembra recepire delle vere critiche ma più che altro delle accuse insensate, nate da luoghi comuni e cattiva informazione, alle quali l’unica risposta che continua a dare è: «che vengano con noi a vivere un giorno e vedranno quanto amiamo i nostri animali». 

Josef e la sua famiglia, attualmente si esibiscono per il Circo Greca Orfei. Lavorano con gli animali anche in Slovacchia dove gestiscono un zoo, lo Zoo Park di Poprad. Un posto legato al mondo del circo e che offre attività ed esperienze con gli animali esotici che ospitano: elefanti, canguri, zebre, foche e tanti altri. Non sono gli unici circensi a gestire in parallelo all’attività itinerante quella fissa dello zoo, del bioparco o del safari. È molto comune, soprattutto perché sono realtà in stretto contatto per scambio, compravendita e gestione degli animali. 

2. Il sogno di Olga

«Olga è tornata», ha urlato la regista Marina Spada quando alle selezioni della scuola civica di Milano si è trovata davanti Olga Kozaresca, che subito le ha fatto pensare a quella Olga, pure ucraina, protagonista del suo film Come ombra. Non si trattava della stessa persona ovviamente, ma Spada non sbagliava, perché anche Olga Kozaresca nella sua vita è spesso “tornata”: è venuta a Roma in vacanza e pochi mesi dopo è tornata per viverci, ha iniziato a esportare in Ucraina nel mondo beauty e poi è tornata nel settore aprendo una boutique estetica unica nel suo genere in zona Montenapoleone. Ha portato in Ucraina un brand di make up italiani per il cinema e poi è tornata nella galassia del cinema con le sue coproduzioni. Solo nella sua città natale Olga non è mai più ritornata, quella Zaporoji da cui se ne è andata giovanissima, a 6 anni, per trasferirsi con la famiglia a Pryp”jat’, nella zona di Chernobyl, dove a quel tempo c’era abbondanza di posti di lavoro.

«Avevo 14 anni quando è successa la catastrofe: siamo stati evacuati da Chernobyl a Kyev. Trasferirmi in una città più grande mi ha reso più curiosa e mi ha aiutato a non legarmi a un posto fisso». Già, perché da allora la vita di Olga non ha smesso di cambiare, ogni volta una nuova città e una nuova sfida: quando non arrivavano loro era lei a cercarle. A cominciare dal trasferimento in Italia, dove arriva per caso, grazie a un viaggio estivo a 23 anni che subito si prolunga per quattro mesi: «Un amico di amici mi invitò a Roma, era la mia prima volta in Europa. Non sapevo ancora che ci sarei venuta a vivere, ma feci comunque i documenti per poter tornare: ottenere i visti da zero sarebbe stato molto difficile». Tornata in Ucraina Olga comincia a pensare a cosa fare da grande e si rende conto che Roma può essere un buon luogo dove vivere. La situazione economica del suo Paese di origine e della sua famiglia sono difficili e anche se in Italia parte da zero, le sembra che qui possano esserci per lei maggiori opportunità di lavoro.

Proprio a Roma nel giro di pochi anni, oltre a conoscere il suo primo marito, Olga scopre Cinecittà, una linea di make-up professionale per produttori di cinema che comincia a esportare in Ucraina. È il suo primo progetto imprenditoriale e interseca il beauty e il cinema: due binari destinati a ripresentarsi continuamente negli anni successivi. «Volevo dare al mio Paese d’origine qualcosa che là non c’era. Acquistai anche un grande stock di collant di seta di Christian Dior, in moltissimi pezzi, coinvolgendo tutti i miei amici nella vendita», racconta divertita ricordando i suoi esperimenti imprenditoriali.

Il primo trasferimento a 6 anni, poi a 14, a 26, e infine nel 2002 quello da Roma a Milano, che le ha fatto scoprire una città ancora diversa: «Mi sembrava fatta su misura per me. Per caso, partecipando a una fiera, ho conosciuto un editore che diventerà mio secondo marito e padre del terzo figlio. Con lui ho cominciato a lavorare nell’editoria, sempre occupandomi di Russia e Ucraina».

Ma tutto questo ancora non basta a Olga. «A 35 anni mi arriva la crisi, avevo provato diverse attività ma ero insoddisfatta. Volevo più responsabilità, quindi creai un piccolo format video dedicato al beauty. In poco tempo scopro che questo è un vero e proprio mestiere e improvvisare è impossibile». La soluzione è la scuola di cinema, a Milano c’è la Civica: «Dentro di me speravo che non mi ammettessero, avevo tre bambini piccoli e mi sembrava impossibile conciliare le due cose. Invece entrai». Qui Olga si appassiona al cinema: entrata per poter creare piccoli format video personali scopre il mondo delle coproduzioni. È del 2016 il primo film in coproduzione, girato a Genova. Poi un progetto di coproduzione in Albania e uno in cantiere per un film di Yuri Arabov e Aleksandr Sokurov.

«Prima partivo dall’idea di portare in Ucraina qualcosa che là mancasse. Usavo me stessa come filtro per capire istintivamente se qualcosa poteva interessare nel mio Paese di origine. Poi a un certo punto ho scoperto che esisteva anche là qualcosa che poteva essere importato in Italia. Era già successo in parte con il cinema coprodotto e l’anno scorso me l’ha confermato Brow Bar, una catena di negozi monoservizio dedicati alle sopracciglia aperta da un’amica in Ucraina. In Italia non esisteva nulla di simile». Aprire un Brow Bar anche nel nostro Paese era una sfida, farlo a Milano, in zona Montenapoleone un azzardo pericoloso. Servizio di lusso, accoglienza, caffè, tè e spumante, quattro postazioni con sei ragazze truccatrici e due che si alternano nel ruolo di direttrici di negozio. Trattamenti a partire da 45 euro per clienti che vengono da tutta Italia. «Siamo aperti da un anno e abbiamo già tre proposte di apertura in Italia e in Svizzera. La burocrazia e le leggi non ci aiutano, ma abbiamo già superato molte difficoltà».

3. Il sogno di Shiro

Per tutti è Shiro, che in giapponese significa “bianco”, come il colore della divisa che indossa ogni giorno e come lasciò il compito alle scuole medie, senza neanche aver scritto il suo nome: «Perché è bianco?», aveva chiesto il professore guardando proprio lui. La pagina era vuota perché Minoru Hirazawa era stanchissimo: la sua famiglia era molto povera e per aiutarla Shiro durante il giorno lavorava in una fabbrica di componenti tecnologiche della sua città e la sera frequentava la scuola. Il suo destino cambiò grazie alla prestigiosa scuola di cucina di Osaka e alla missione che gli affidò il suo leggendario maestro, Sizuo Tsuji: portare il sushi in Italia.

A 26 anni, nel 1972, Shiro si trasferisce a Roma e qui lavora come cuoco al Tokyo di piazza di Spagna, il primo ristorante giapponese del Paese. Interrompe il lavoro per qualche anno per andare a studiare in una scuola di cucina in Francia e nel 1977 torna in Italia, ma questa volta a Milano, dove apre un minimarket giapponese. Lo chiama Poporoya, cioè Casa (“ya”) del Popolo. Nel 1984 il grande passo: aprire il primo sushi bar italiano. C’erano già due ristoranti giapponesi in città, ma Shiro decide di inaugurare un locale in pieno stile nipponico: bancone, pochi tavolini, coda per sedersi, un pranzo veloce e alzarsi per lasciare il posto al cliente successivo.

Le difficoltà all’inizio sono molte, a partire dalla materia prima: il riso italiano va bene per il risotto, non per il sushi, il pesce fresco non è sempre adatto e la salsa di soia si importa in container troppo grandi, che creano deposito sul fondo. Anche il banco frigo ha caratteristiche particolari e non se ne trovano in Italia: il signor Amino del ristorante Tokyo lo aveva importato dal Giappone e lo stesso è costretto a fare lui. Una volta trovata la materia prima migliore, il problema sono i clienti: molti tra i giapponesi di passaggio in città, ma nessun italiano. Shiro ha ancora vivida nella mente la scena dei primi clienti italiani: l’uomo si era seduto da solo, raggiunto poco dopo dalla moglie che lo aveva trascinato via di peso urlando. In quegli anni era diffusa la psicosi in seguito ad alcune morti a causa di avvelenamento da pesce spada e nessuno si fidava ad assaggiare pesce crudo.

Oggi Shiro è presidente dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi, che rilascia una certificazione di autenticità a tutti gli associati, a cui è richiesto di avere almeno un cuoco che si è formato in Giappone o presso un maestro che a sua volta si è formato in terra nipponica. Solo una decina dei più di trecento ristoranti giapponesi di Milano rispetta questi parametri.

Shiro ha contribuito a diffondere il sushi nelle catene della grande distribuzione facendo da consulente a un’importante catena di supermercati per vendere il sushi nei banchi frigo. In tutto ha aperto cinque ristoranti giapponesi: ogni nuova apertura era una soddisfazione ma anche nuove sfortune e nuovi problemi burocratici ed economici. In via Piccini un’esplosione dopo l’installazione del nuovo sistema cittadino di tubature a gas distrusse il locale. In piazzale delle Bande Nere una volta depositata la caparra scoprì i moltissimi debiti accumulati dai precedenti proprietari del locale. Lo hanno sempre aiutato la moglie, i figli e gli amici e colleghi italiani che gli davano e continuano a dargli una mano per districarsi tra burocrazia e permessi. Col passare del tempo Shiro ha deciso di vendere tre locali e concentrarsi sui primi due: il sushi bar Poporoya, dove continua a lavorare, e il ristorante giapponese di fronte.

I clienti vengono per il sushi ma anche per lui, che da dietro il bancone grida «Come sta?», «Tutto bene?» e fa lunghi discorsi in un italiano stentato che solo i frequentatori abituali si sono allenati a decifrare. Per imparare l’italiano c’è tempo, dice mostrando il sussidiario elementare di lingua italiana e spiegando che quando sarà in pensione si metterà a studiarlo. Ma a giudicare dall’energia e dall’entusiasmo con cui a 73 anni si racconta, il sussidiario dovrà aspettare ancora molto tempo nell’armadietto sopra il bancone, prima di venire aperto.

4. Il sogno di Ashanka

«Il momento in cui la mia vita è cambiata? Quando sono arrivato in Italia. Questo è il Paese delle Meraviglie. Avete una storia millenaria, strade pulite e uno dei migliori sistemi sanitari del mondo».

È domenica mattina: il salotto di Ashanka Sen, ricoperto di tappeti, si riempie di note. Lui, seduto a gambe incrociate con i piedi scalzi, insegna a suonare il sitar, un enorme strumento a corde della tradizione indiana, ai suoi studenti. Ci vuole tanta pazienza, ma non perde mai il sorriso. «Il segreto è tutto qua» dice agli allievi, indicando la testa. Nell’aria c’è profumo di incenso. Su una mensola, una miniatura in carta del Taj Mahal: l’ha fatta lui, a mano, per la moglie quando si sono sposati.

Sembra Nuova Delhi ma siamo a Cimiano, quartiere nordorientale di Milano. Sono quasi tutti italiani i sitaristi in erba allevati da Ashanka, maestro di musica nel weekend, senior analyst di un importantissimo gruppo di credito europeo nel resto della settimana. Musicista come la madre, ingegnere come il padre, ha trovato in Italia il posto ideale per esprimersi al meglio in entrambi i settori, godendo di uno stile di vita che lui ritiene unico: «Mi sono innamorato subito di questo Paese. Prima di ricevere la prima offerta di lavoro qui a Milano, nel 1995, ho studiato a Mumbai e vissuto brevemente a Londra e a Singapore. C’è troppa confusione lì. Voi sì che sapete godervi la vita». Come dire, l’India gli ha insegnato l’arte della meditazione, ma è in Italia che la sua pace interiore si riflette nell’ambiente circostante: «Se si vuole crescere solo economicamente, ci sono nazioni che offrono più opportunità. Ma per crescere come persona, non ci sono Paesi migliori del vostro».

Nel suo caso, anche le opportunità di lavoro non sono mai mancate. Laureato in ingegneria all’Indian Institute of Technology di Mumbai, in Italia ha sempre lavorato nel settore informatico di grandi gruppi. La fiducia da parte dei suoi colleghi è sempre stata totale. Il passaporto, infatti, invece di ostacolarlo, lo avvantaggia, grazie a un pregiudizio positivo che riguarda la gente della sua terra: «Quando le persone capiscono che sono indiano danno per scontate le mie competenze informatiche». E a sentir lui, anche fuori dall’ufficio le cose non cambiano: «Se non fossi dovuto andare in questura a rinnovare il permesso di soggiorno, non mi sarei mai nemmeno reso conto di essere straniero».

Ashanka ha anche partecipato a una delle istituzioni canore del nostro Paese, lo Zecchino D’Oro. La canzone che si è classificata al secondo posto nel 2001, Piove, piove, è stata scritta e composta da lui. Quando è arrivato in Europa, aveva già 15 anni di esperienza musicale alle spalle. Col suo sitar ha girato il vecchio continente, facendo concerti – da solista o in gruppo – in tutta Italia, ma anche in Svizzera, Francia e Spagna. Attualmente è uno dei componenti del trio Oikos, con il percussionista Sebiano Failla e il chitarrista Mario De Leo, che canta in dialetto pugliese. E poi ci sono le lezioni di sitar, impartite ogni domenica mattina a un gruppo di volenterosi allievi di tutte le età, in maggioranza italiani. Le frequentano chitarristi alla ricerca di nuovi stimoli e appassionati di yoga e cultura indiana. «In passato una ragazza, dopo aver imparato a suonare il sitar con me, è partita per l’India e non è più tornata in Italia».

Il signor Sen, invece, non pensa minimamente di tornare a vivere in India. Sposato con una donna del suo Paese e padre di un bambino che frequenta la British School a Lambrate e parla già quattro lingue, in Italia si sente a casa. Da indiano, però, qualche consiglio agli italiani si sente di darlo: «Siate più orgogliosi di essere italiani. Non abbandonate le vostre radici. Solo conoscendo davvero la propria cultura si possono apprezzare le altre».