DIFFERENZIATA NUCLEARE

l'Italia non sa più dove mettere
le sue scorie radioattive

di Riccardo Lichene e Andrea Prandini

Nel cuore della centrale nucleare di Trino Vercellese regna il silenzio. Ha smesso di battere nel 1987, quando l’Italia ancora sotto choc per il disastro di Chernobyl ha firmato il suo divorzio dall’energia atomica. L’imponenza della cavità incute un certo rispetto: qui i nostri scienziati erano riusciti a imbrigliare la forza degli atomi per produrre energia. A disturbare il riposo di questo gigante dormiente sono i copriscarpe in plastica di chi scende a studiarlo. È obbligatorio indossarli, perché dopo 33 anni di inattività c’è ancora pericolo di contaminazione. Così come sono pericolose tutte le altre scorie radioattive che abbiamo prodotto prima del referendum abrogativo di quell’anno. Dalla Sicilia alla Lombardia, in Italia abbiamo 30mila metri cubi di materiale nucleare conservato in depositi temporanei, non pensati per essere definitivi. Col tempo il rischio è quello di non sapere più dove mettere questi rifiuti e assistere al logoramento delle strutture di contenimento al punto da causare danni irreparabili all’ambiente e alle persone. Bruxelles ci ha ammonito. Aspetta un piano di smaltimento dal 23 agosto del 2015, ma non ha mai ottenuto risposta. Nel 2017 la Corte di Giustizia Europea ci ha condannato. Ora, oltre al danno dell’inadempienza, rischiamo pure una dura sanzione economica.

Rosso Giallo Verde

“La prima e più importante distinzione da fare è quella sulla pericolosità dei rifiuti, un valore strettamente legato alla loro provenienza” spiega il professor Antonio Cammi. Al Politecnico di Milano tiene il corso di Gestione degli impianti nucleari e di Meccanica dei reattori sperimentali. “I più pericolosi sono le barre di combustibile delle nostre ex centrali nucleari. Ne avevamo quattro e al tempo erano l’avanguardia della produzione di energia elettrica: Trino Vercellese (VC), Caorso (PC), Garigliano (FR) e Latina”, racconta. Alcune hanno segnato il record del mondo di efficienza, altre il record di potenza emessa, ma dopo il referendum dell’87 è iniziata l’opera di decommissioning: lo smantellamento.

“Il primo punto nel programma dei demolitori era rimuovere le barre di uranio che rendevano possibile la produzione di energia. Questo combustibile è estremamente radioattivo, per cui è stato mandato in un centro di riprocessamento a La Hague, in Francia, e all’impianto di Sellafield in Inghilterra”, continua il professore. Lì il nostro combustibile è stato trattato per separare quello ancora utilizzabile da quello esausto: il primo è stato inviato nelle centrali inglesi e francesi, il secondo dovrebbe tornare in Italia ma non può farlo. “Non sapremmo dove metterlo ed è qui che entra in gioco il problema più grande della gestione dei rifiuti nucleari italiani: non abbiamo un deposito nazionale”, conclude Cammi.

La direttiva europea 2011/70/Euratom del 19 luglio 2011 impone a ogni stato membro di avere un proprio deposito per lo stoccaggio di rifiuti radioattivi, un obbligo che vale anche per gli stati che non hanno mai avuto una centrale nucleare. Tutte i Paesi producono rifiuti radioattivi nelle più diverse forme: industriali (parafulmini, rilevatori di fumo), ma soprattutto ospedalieri, provenienti da esami diagnostici come la Tac o da trattamenti antitumorali come la radioterapia. L’Italia, dovendo smantellare non solo le proprie centrali ma anche tutti quegli impianti che raffinavano il combustibile e lo preparavano per l’uso, produce e produrrà diverse tonnellate di scorie a media radioattività: i “calcinacci” delle demolizioni del suo passato atomico. Le barre di combustibile invece rimarranno in Italia solo in via temporanea. La loro destinazione finale sarà un deposito geologico, nel fianco di una montagna o in una miniera di sale lontane da falde acquifere e zone sismiche, da individuare a livello europeo.

A oggi, il sistema di gestione di tutti i rifiuti sopra menzionati (eccetto il combustibile nelle centrali estere per cui continuiamo a pagare un affitto multimilionario) è lo stoccaggio in piccoli e medi depositi gestiti da aziende private (come la Campoverde, con sede a Milano) o dalla Sogin, la società statale addetta al decommissioning e alla costruzione del deposito nazionale. Come dice Fabio Chiaravalli, direttore della divisione Deposito Nazionale della Sogin, “I depositi non sono tutti uguali. Nei siti temporanei i rifiuti radioattivi vengono stoccati, nel deposito nazionale verranno smaltiti”. Il fatto che ancora non si sappia nemmeno quale sia il sito destinato al deposito, però, è un problema esclusivamente della politica.

Un deposito per ghermirli e nell'oscurità incatenarli

“L’Italia ha tanti depositi temporanei, ma ha bisogno di un deposito di smaltimento, cioè un luogo dove le scorie vengano messe, custodite e mai più levate” continua Colosi. Quando la Cnapi (Carta nazionale aree potenzialmente idonee) sarà pubblicata, si spera che tra le comunità che in tutta Italia rispettano i 28 criteri di sicurezza ce ne sia una che voglia aggiudicarsi “i 1500 posti di lavoro in palio per quanto riguarda il cantiere e i 50 tecnici e ricercatori che lavoreranno al deposito in attività” come ha detto Federico Colosi (Direttore relazioni esterne) sedendo al fianco di Chiaravalli nella sede della Sogin. Insieme agli onori c’è poi l’onere di custodire, rispettando i protocolli internazionali di sicurezza, tutti i rifiuti nucleari d’Italia.

Nella maggioranza dei barili si troveranno le uniche tracce rimaste del decommissioning delle centrali e degli impianti dell’esperienza nucleare italiana, mentre sugli ex-siti non rimarrà neanche un pilone. Purtroppo, però, la Cnapi giace dal 2015 nei cassetti dei ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente. Nessuno dei tre Governi che si sono susseguiti ha avuto il coraggio di avviare la discussione pubblica sul tema. Risultato: il deposito nazionale rimane un progetto teorico e l’Italia è piena di piccoli siti di stoccaggio studiati per essere temporanei. Adesso sono sicuri, ma non sono progettati per durare tutti i 350 anni necessari affinché i rifiuti decadano e diventino radioattivi quanto una banana.

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I rifiuti nucleari saranno isolati dall’esterno grazie a quattro barriere combinate. Il primo è il manufatto, cioè un barile in cui le ‘pizze’ di rifiuti vengono impilate e poi ricoperte di uno speciale cemento che scherma le radiazioni. I barili sono poi portati al deposito nazionale, dove braccia meccaniche controllate a distanza li inseriscono nei moduli, scatole schermate che vengono chiuse con un coperchio e riempite dello stesso cemento speciale già messo nei barili. Le scatole vengono infine messe nelle celle, grandi contenitori in cemento armato capaci di contenere oltre 200 moduli. Raggiunta la capienza massima, la cella viene sigillata col cemento armato e impermeabilizzata. Quando tutte le 90 celle del deposito saranno piene, tutta la struttura sarà ricoperta di uno spesso strato multimateriale che la isolerà da ogni agente esterno e la renderà quasi invisibile sul territorio. Sono previste apposite gallerie sotterranee per continuare a vigilare sullo stato del deposito ed essere certi dell’isolamento dal suolo circostante.
Mentre il deposito italiano è bloccato dalla politica, nel Joint Research Centre di Ispra, sul lago Maggiore, l’Unione europea ha costruito il secondo deposito più grande della federazione. In quel pezzetto di terra, che non è più Italia ma solo suolo europeo, saranno conservate le scorie prodotte dal centro di ricerca europeo di Ispra, erede del primo reattore nucleare italiano.

La Centrale Silente

Camice, guanti, cuffia e caschetto all’entrata. All’uscita l’attrezzatura viene passata al contatore geiger. Le protezioni vengono gettate via e le persone passano attraverso uno scanner. Neanche un granello di polvere può uscire dal deposito.. E nemmeno l’aria: “La pressione è tenuta bassa apposta così che aprendo una porta ci sia un risucchio di aria esterna” racconta il dottor Davide Galli, responsabile disattivazione della centrale di Trino. Lui ha visto il cuore della centrale quando ancora batteva e racconta entusiasta di come abbiano mantenuto il record di efficienza mondiale per più di 30 anni: 18 mesi di attività ininterrotta senza il minimo intoppo. Quando il vento artificiale della camera depressurizzata si ferma, si entra finalmente nell’edificio del vessel, il ‘pentolone’ che contiene il reattore nucleare, la parte più difficile da decomissionare. Al suo interno ci sono strutture cosiddette contaminate e strutture attivate. Le prime sono quelle venute a contatto negli anni di attività con materiale radioattivo, anche singoli atomi, mentre le seconde sono quelle vicine al nucleo, modificate dalle radiazioni al punto da cominciare a emetterne.

Circa l’1% di tutta la centrale di Trino Vercellese, pari a 2mila tonnellate, diventerà un rifiuto nucleare da mettere in futuro nel deposito nazionale. Una piccola parte è già stata demolita e ora è in sicurezza nel deposito temporaneo della centrale. Quanto smantellato è stato ridotto in ‘pizze’ di vario materiale, sigillate e impilate in barili che bloccano il passaggio delle radiazioni. Questi barili vengono poi riempiti di cemento perché non ci siano spazi vuoti tra una pizza e l’altra e impilati in strutture antisismiche in acciaio. Per quelle più pericolose e radioattive si immaginano già soluzioni fantascientifiche.

Il professor Galli si inorgoglisce quando racconta che “se prima era un’eccellenza nella produzione energetica nucleare, ora l’Italia è l’avanguardia del decommissioning”. Il reattore (privo di barre di combustibile) sarà smantellato interamente sott’acqua. Le resine che filtravano l’acqua del reattore, essendo organiche, rischiano di decomporsi o produrre cenere: per loro, dice Galli, “sperimenteremo per la prima volta l’idea di bruciarle sott’acqua. L’acqua sarà arricchita di ossigeno per permettere la combustione e i liquidi utilizzati saranno poi filtrati o, se impossibile, diventeranno un rifiuto da smaltire al deposito nazionale” conclude con un velo di malinconia.

Uomini Radioattivi

La medicina nucleare fa questo: “I pazienti ingeriscono o si fanno iniettare sostanze nucleari liquide e diventano fonte di radiazioni essi stessi, a scopo di diagnosi o terapia” racconta il dottor Andrea Bruno, primario di medicina nucleare dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. “Isotopi deboli come il tecnezio 99 o il fluoro 18” gli fa eco Stefano De Crescenzo, fisico radioprotezionista, “servono per le gammagrafie, una sorta di fotografia del corpo con gli organi in esame evidenziati dalle radiazioni. Lo iodio 131 invece, molto più forte e pericoloso, serve per uccidere con la radioattività le cellule tumorali”. Durante la terapia il paziente emette così tanta energia che deve stare in isolamento in una stanza piombata e comunicare coi familiari solo via telefono.

Tutto ciò che la sostanza liquida contamina e tutte le deiezioni dei pazienti durante la permanenza in reparto sono rifiuti radioattivi. “I materiali solidi come siringhe, carta o cotone vengono gettati in contenitori sanitari messi poi in un deposito riservato, mentre i liquami hanno un sistema idraulico a parte che li convoglia in vasche sotterranee”. Il dottor De Crescenzo non nasconde mai la sua confidenza non solo per l’istituzione che rappresenta ma anche verso i protocolli che tutte le strutture sanitarie italiane devono seguire: i più severi d’Europa. Una volta messi i rifiuti in isolamento, protetti da pareti che non fanno passare radiazioni, si aspetta. La radioattività di qualsiasi sostanza prima o poi si riduce fino a essere impercettibile, cambiano solo i tempi di attesa. Per le sostanze usate in ospedale si va da un paio di giorni a qualche settimana. Quando i fisici nucleari incaricati verificano che la radioattività sia sotto i limiti di legge, si possono trattare come qualsiasi altro rifiuto: inviati all’inceneritore quelli solidi, scaricati nelle fogne quelli liquidi.

Particelle Express

Solo in sei centri in tutto il mondo i tumori vengono sconfitti con l’adroterapia. Una di queste avanguardie della medicina nucleare si trova in Italia, a Pavia. Il Cnao – Centro Nazionale Adroterapia Oncologica – è una struttura dove si possono affrontare metastasi incurabili dalla radioterapia tradizionale. “La massa cancerosa viene bombardata da adroni, particelle atomiche molto energetiche, che arrivano ai tessuti malati senza causare danni alle parti sane che attraversano, per poi esplodere dove serve”. A parlare è Marco Pullia fisico responsabile dell’acceleratore di particelle di Pavia: “In questo modo si possono distruggere tumori molto resistenti con danni minimi al resto del corpo”. Mentre parla a una classe di liceali, metà sono rapiti da uno scienziato che parla come mangia, metà non vedono l’ora di uscire.

Gli adroni sono prodotti dal gioiello futuristico del Cnao: il sincrotrone, il risultato di una collaborazione europea e tecnologia in gran parte italiana. “Si tratta di un acceleratore di particelle di 80 metri arrotolato a forma di ciambella. Al suo interno gli atomi, protoni e ioni di carbonio, vengono accelerati a decine di migliaia di chilometri al secondo per mezzo di potenti campi magnetici” continua Pullia. Raggiunta la velocità desiderata vengono deviati nei condotti che portano alle sale di trattamento, dove vengono “sparati” con precisione contro il tumore. Finita la lezione, il fisico inizia la visita guidata. Dopo un labirinto di corridoi si arriva in una sala enorme: un anello di magneti, camere a vuoto, tubi di azoto liquido e matrici di ioni carbonio, dà il benvenuto agli studenti. Ogni componente è di un colore diverso, un arcobaleno di ingegneria che riesce a stregare anche gli studenti più annoiati. La classe ora pende dalle labbra di Pullia e Instagram è già pieno di acceleratori di particelle.

La sala di controllo

I supermagneti del sincrotrone

Precisione millimetrica

Le maschere per il trattamento

L’Italia non ha smesso di essere un Paese nucleare nel 1987. Non produce più elettricità sfruttando gli atomi, ma questa tecnologia fa parte della vita di tutti i paesi industrializzati. È utilizzata nella ricerca, nella medicina, nell’industria. Sostanze radioattive pericolose come lo iodio 131 ogni giorno distruggono tumori e salvano vite negli ospedali della penisola. Anche la prevenzione antincendio passa per la radioattività dell’americio nei rilevatori di fumo. Non bisogna rinunciarvi, ma gestire i materiali radioattivi nel modo corretto. L’Italia ha una delle legislazioni più rigorose e un’esperienza unica al mondo nello smantellamento degli impianti. Ciò che le manca è la consapevolezza nei cittadini di quanto il nucleare sia necessario in un Paese moderno e di quanto sia sicuro e controllato lo smaltimento delle scorie. La paura invece spinge la politica a scelte dannose, come aver fermato l’iter del deposito nucleare nazionale. È un progetto fondamentale per terminare il decommissioning del ciclo elettronucleare e gestire in tutta sicurezza i rifiuti radioattivi industriali e ospedalieri.