Disconnettiamoci Il ritorno dei Dumbphone

In un mondo sempre più connesso sta nascendo una nuova tendenza: dire no agli smartphone

 

 

 

di Matilde Peretto e Alessandro Miglio 

Non si può parlare di una nuova moda. Al massimo dell’inizio di qualcosa che potrà cambiare il modo di approcciarsi alla tecnologia, soprattutto da parte dei giovani.

Durante l’anno, sempre più ragazzi appartenenti alla Generazione Z (nati tra il 1996 e il 2012) hanno abbandonato lo smartphone per passare al dumbphone, parola che descrive i vecchi cellulari con lo schermo piccolo e i tasti. Una specie di ritorno al Nokia 3310, ma in una forma più moderna. Questi dumbphone (o dumbphones per rispettare il plurale inglese) o feature-phones, sono i telefonini “di una volta”, con le sole capacità di chiamare e inviare messaggi, servendosi anche di Internet.

Un vero e proprio revival degli anni 2000 che sta facendo breccia nel mercato: secondo un’analisi contenuta nel report “Millenials Advocate Digital Detox”, negli Usa il mercato dei dumbphone raggiungerà i 2,8 milioni di unità venduta nel 2023, pari a circa il 3% dell’intero settore mobile. Il segmento degli smartphone, invece, perderà nel corso dell’anno il 6% delle vendite. Un analista intervistato dall’emittente americana CNBC, ha spiegato (come riportato nel quotidiano La Repubblica) che nei prossimi anni «in America del Nord il mercato dei dumbphone salirà del 5% sulla base delle preoccupazioni legate alla salute mentale». Anche in Italia la nuova tendenza comincia a prendere piede e qualcuno che utilizza i dumbphone c’è.

 

 

Sta succedendo anche qualcos’altro, che prescinde dalle logiche di mercato. I giovani si stanno rendendo conto di quanto la loro vita sia iper-connessa e quanto siano dipendenti da social e Internet. In un’inchiesta di ANSA Lifestyle dal titolo “Ci incantiamo” emerge come i ragazzi percepiscono l’utilizzo dei social come una perdita di tempo e reagiscano con la disinstallazione delle applicazioni più usate per evitare di fare scrool per ore su Instagram o Tiktok. I dati sono preoccupanti: in Italia, i ragazzi ricevono il cellulare intorno ai 9/10 anni, crescono avendolo vicino e finiscono per passare in media sei ore al giorno con gli occhi attaccati allo schermo.

Se da un lato ci sono persone che sentono di non voler più perdere tempo, dall’altro molte non si fanno troppe domande. Per queste il telefono e i social rappresentano uno svago piacevole, un modo per staccare dalla realtà e immergersi nel mondo virtuale che Internet offre. Per altre ancora, i social diventano un lavoro. Le influencer o gli influencer passano anche più di sei ore al giorno attaccati al telefono, ma non sentono l’esigenza di disconnettersi perché essere connessi è il loro lavoro.

Ma quando l’iper-connessione diventa un problema? Secondo dati Eu.R.E.S. del 2021 (la rete di cooperazione europea dei servizi per l’impiego), l’82% dei giovani italiani è a rischio dipendenza da smartphone. Disturbi come la nomofobia, cioè la paura di non essere connessi, possono provocare disagi che necessitano di cure mirate. Non basta iniziare ad utilizzare un dumbphone per disconnettersi e stare meglio, a volte servono sostegni più forti, per farci diventare persone più forti e più consapevoli del mondo iper-connesso e digitalizzato in cui viviamo.

 

 

Chi utilizza i dumbphone?

I motivi che spingono alcune persone ad abbandonare lo smartphone e iniziare a utilizzare i dumbphone sono personali. C’è chi, come Luca Di Marcoberardino, studente di giurisprudenza abruzzese di 26 anni, ha usato un vecchio telefono apribile e con i tasti per un periodo della sua vita perché sentiva di buttare il suo tempo e aveva bisogno di concentrarsi di più sui suoi studi. Chi, come Leo Mainoldi, liceale milanese di 16 anni, ha deciso di utilizzare un dumbphone perché passava troppo tempo sui social e non gli andava di spendere soldi per uno smartphone nuovo. Altri che, invece, hanno iniziato perché hanno visto la moda lanciata dai ragazzi della GenZ americana e hanno voluto semplicemente provare. Chi, ancora, vorrebbe staccarsi completamente dal suo cellulare di ultima generazione ma non può per motivi lavorativi, personali, di comodità e ogni sera sogna di avere sul comodino un Nokia 3310 al posto di un Iphone15. In generale, un vecchio cellulare può rappresentare una problematica nello svolgimento di attività quotidiane, ma secondo Luca e Leo, i due ragazzi sopracitati che abbiamo intervistato, può anche avere moltissimi vantaggi.

Chi usa i dumbphone non si incasella in categorie di persone: Leo è un ragazzetto che ascolta la trap come tutti i suoi coetanei, ma allo stesso tempo è un soggetto non convenzionale. In modo autonomo ha deciso di abbandonare lo smartphone perché sentiva di perdere tempo, senza farsi influenzare dai suoi amici che, invece, come ci ha raccontato, non riuscirebbero a farne a meno. Luca ha iniziato 6 anni ad utilizzare un dumbphone, in un periodo in cui nessuno ne parlava. Lo ha usato per anni e ora, per motivi personali, ha deciso di tornare allo smartphone, non escludendo di abbandonarlo nuovamente. Sono due casi diversi e per certi aspetti opposti che fanno capire come il bisogno di disconnettersi dalla rete interessi tutte le persone.

 

 

Leo Maindoli esordisce dicendo: «Noi in realtà lo chiamiamo trap-phone, non so perché, forse per la trap-house», un genere musicale che si è sviluppato negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta e che ingloba anche la musica trap del panorama musicale italiano.

Leo è un ragazzo di 16 anni che studia in un liceo classico milanese. Utilizza un dumbphone che gli permette di mandare messaggi e telefonate, ma ha anche accesso a internet perché «non si può vivere senza Whatsapp». È uno dei pochi in Italia che ha deciso di usarlo e che continua a farlo. Non è un adolescente convenzionale: è molto sciolto, parla a voce bassa ma in un modo confidente, senza paura di sbagliare o dire cazzate. È vestito di nero e ha un cappellino che gli copre un po’ il viso. Nessun elemento del suo abbigliamento lascia trapelare un segno distintivo. A vederlo sembra un classico ragazzo della periferia milanese settato sul mondo iper-connesso che lo circonda. Invece, no. Ha deciso di provare a usare un vecchio cellulare perché sentiva di «perdere le giornate stando troppo sui social». A scuola sicuramente non viene distratto perché «non c’è niente da guardare in un trap-phone». Non spende troppi soldi perché il prezzo di questi cellulare si aggira intorno ai 100 euro. E poi «sono grandi e non mi va di girare con una padella in tasca».

Leo non trova molti svantaggi in un dumbphone, anche se racconta che alcune cose gli risultano difficili da fare, come comprare i biglietti del treno e farli vedere al controllore. Lui lo usa e non pensa di smettere, almeno fino alla fine dell’anno, poi si vedrà. Lo definisce un esperimento «figo», che tutti dovrebbero provare.

 

 

Luca Di Marcoberardino, studente di giurisprudenza di 26 anni con sede a Modena, ha iniziato a usare un dumbphone nel 2017 per evitare distrazioni durante lo studio. Ci ha raccontato di aver preso questa decisione «per due ragioni: la prima per salvaguardare il cosiddetto tempo della vita. Ero condizionato dalla lettura di testi platonici, che suggerivano di appropriarsene. Mi tormentava la risposta che avrei dato in punto di morte sul tempo speso con occupazioni non di primaria importanza. Il secondo motivo è legato alla conservazione di un tempo contingente, quello necessario per lo studio e la lettura, che mi veniva saccheggiato dall’utilizzo costante di Internet».

Nel 2019 ha scelto di tornare allo smartphone per uscire da uno stato di solitudine e avere contatti più frequenti con gli amici e la fidanzata Gaia Acerbo, studentessa di 23 anni. La loro relazione, come ci hanno raccontato, è stata messa a dura prova dalla scelta di Luca di usare un dumbphone: lei lo ha supportato, ma accusava la sua mancanza nel momento in cui stavano vivendo una relazione a distanza e non riuscivano a video-chiamarsi o a comunicare in maniera diversa dai messaggi e dalle telefonate. Oggi vivono insieme a Modena e non sentono il bisogno di comunicare con il cellulare, infatti, Luca non esclude di poter tornare a utilizzare il dumbphone in un futuro prossimo.

 

 

L’introduzione del telefono cellulare ha rivoluzionato le nostre vite permettendoci di entrare più facilmente in contatto con le persone e accedere in qualsiasi momento a Internet. Da bene riservato a pochi è diventato uno strumento fondamentale e imprescindibile. Secondo il report di We Are Social 2023, il 97,5% della popolazione italiana tra i 16 e i 64 anni possiede uno smartphone. Molte di queste persone hanno più di un telefono: in Italia, ci sono più di 78 milioni di sim attive su meno di 60 milioni di abitanti.

Ma quando è iniziato tutto?

Era il 3 aprile 1973 e con un DynaTac della Motorola venne fatta la prima chiamata da un cellulare. Dieci anni più tardi è stato messo in commercio il primo modello: il DynaTac 8000X. Da allora le innovazioni tecnologiche sono state incredibili e il cellulare è diventato il nostro mezzo di comunicazione principale. Il primo cellulare touchscreen (e quindi il primo smartphone della storia) è uscito nel 1999 e si chiamava Ericsson R380. Otto anni dopo Apple ha introdotto l’IPhone, rivoluzionando l’industria della telefonia mobile che oggi vale miliardi di dollari.

 

 

Dati: la situazione globale

Nel mondo ci sono più di 8 miliardi di persone. Tra queste, secondo il Digital Report 2023, il 68% possiede almeno un cellulare connesso alla rete. Indigeni dell’Amazzonia compresi: nelle foreste sud americane, infatti, vivono persone che non conoscono altre forme di società oltre la loro e non sanno cosa succede nel resto del mondo, eppure possiedono il cellulare e usano Internet. Non per scrollare la home di Instagram, ma per tenere informati gli altri indigeni su come procede la loro lotta per difendere l’ambiente in cui vivono e le proprie tradizioni.

5,16 miliardi di persone sono utenti di Internet, mentre 4,76 miliardi utilizzano i social media. Questo numero è aumentato di 3 miliardi nell’ultimo decennio e la piattaforma più usata è Facebook con, anche qui, quasi 3 miliardi di utenti mensili, corrispondenti al 37% della popolazione mondiale. Seguono Youtube e Whatsapp tra i social più utilizzati.

L’umanità rimane connessa alla rete per una media di 6 ore e 37 minuti al giorno. I motivi per cui le persone utilizzano Internet sono diversi: secondo uno studio di GWI (GlobalWebIndex, società di ricerca pubblica inglese) al primo posto c’è la ricerca di informazioni, poi il mantenimento di contatti con amici e famigliari, ma anche rimanere aggiornati su attualità e notizie. I social aiutano a fare ognuna di queste cose ed è per questo che, nel mondo, le persone rimangono connesse ai social per una media di 2 ore 31 minuti al giorno (dato in costante aumento).

Molto spesso, non viene utilizzata una sola piattaforma, ma diverse. L’India è il Paese in cui gli abitanti usano più social, in media 8,7 a persona. In Italia il numero scende a 5,9.

 

 

Cosa succede in Italia

In Italia le persone sono molte meno, ma le percentuali rimangono alte: 58 milioni di abitanti, di cui il 75% possiede almeno un cellulare connesso. Più di 50 milioni di persone hanno usato Internet nel 2023, pari all’86,1% della popolazione, mentre il 13,9% è rimasto offline dall’inizio dell’anno. Dal 2022 al 2023, infatti, c’è stata una diminuzione dell’0,3% di utenti Internet, fatto particolare ma irrisorio con questa percentuale.

43 milioni di italiani utilizzano almeno un social media. Sempre secondo il Digital Report 2023 condotto in Italia, i social preferiti dai 18 anni in poi, in ordine, sono: Youtube, Instagram, Facebook, TikTok, Linkedin, Pinterest, X (l’ex Twitter) e Snapchat. In base al periodo e ai trend, queste piattaforme sono più o meno utilizzate. Secondo il report, Youtube, TikTok e X stanno aumentando il loro numero di utenti, mentre le altre piattaforme stanno riscontrando un calo nelle iscrizioni.

Social o non social, la media temporale di utilizzo del cellulare nei giovani italiani è di 6 ore al giorno. Questa cifra, ricavata dai dati Eu.R.E.S. 2021 (tra i più recenti disponibili), non è la più preoccupante: il 25,4% dei ragazzi supera le 8 ore di utilizzo del dispositivo cellulare e lo usano di più le ragazze che i ragazzi. Secondo un’indagine di Rescue Time citata nel rapporto Save the childrenAtlante dell’infanzia (a rischio) in Italia 2023“, le persone controllano 58 volte al giorno il loro dispositivo. Non solo, il 68% dei giovani riceve il cellulare a 11 anni e inizia subito ad utilizzare i social anche se l’età legale di un qualsiasi profilo social è di 13 anni.

 

 

Chi lavora con i social

Non tutti hanno scelto di abbandonare lo smartphone: c’è chi con questo strumento ci lavora e chi sogna di farlo.

Lisa Licini è una ragazza di 27 anni, che si presenta da subito vivace e sorridente. Indossa vestiti molto colorati, che ne descrivono il carattere mite e socievole. Insegna inglese e può essere definita un’influencer avendo più di 200mila followers e pubblicando quotidianamente contenuti su Instagram e Tik Tok. Nei suoi video spiega le differenze tra le parole in italiano e in inglese, aiutando le persone nell’apprendimento delle lingue. I social le hanno permesso di iniziare a collaborare con diverse aziende come per esempio la Treccani e l’hanno spinta a dare anche delle ripetizioni private.

«Ho insegnato inglese per anni e dopo aver parlato con una mia amica ho aperto questo profilo», racconta Lisa, «passo tanto tempo a decidere cosa postare, anche se i social non rappresentano la mia unica attività lavorativa. Rispetto all’inizio sono sicuramente più organizzata, ma la ricerca delle idee, la registrazione e il montaggio mi tengono occupata per diverse ore».

Con il tempo Lisa è riuscita a trovare un equilibrio tra il lavoro e la vita personale: «Inizialmente il mio rapporto con i social non era positivo. Se vedevo una notifica rispondevo anche alle 3 di notte. Passavo talmente tanto tempo sulla pagina che ignoravo il mio profilo personale. Non sapevo niente di quello che facevano i miei amici e questo l’ho avvertito soprattutto perché abitavo all’estero. Piano piano però sono riuscita a rendere il tutto più sano».

Il cellulare lo ha sempre a portata di mano e lo controlla spesso. Nella sua esperienza si è resa conto di esserne in un certo modo dipendente. Ovviamente lei non utilizzerebbe mai un dumbphone anche se ha sentito più volte l’esigenza di disconnettersi ed è per questo che si è messa dei paletti: alcune notifiche le ha disattivate, ha messo i blocchi alle applicazioni social (impostando un timer che ti avvisa quando stai superando il tempo prestabilito di utilizzo dell’app).

 

 

Le dipendenze tecnologiche

«Una dipendenza può essere sia un minimo di 40 ore settimanali passate sui social, sia un ritiro sociale o una fobia sociale, ma anche un ragazzo che si compra le Nike attraverso Internet perché in negozio non ci sa andare».

Ognuna di queste è una dipendenza tecnologica. Il dottore Riccardo Marco Scognamiglio, psicologo clinico che da 35 anni indaga i fenomeni psicosomatici che riguardano le dipendenze tecnologiche e fa parte dell’Istituto di psicosomatica integrata e dell’Associazione Di.Te (associazione nazionale dipendenze tecnologiche), non sa dare una definizione puntuale di dipendenza tecnologica perché non c’è: «Siamo tutti dipendenti dalla tecnologia e dai dispositivi che utilizziamo perché oggi facciamo parte di un mondo iper-digitalizzato, tutto il mondo è connesso».

Tramite Di.Te., il dottore organizza incontri con genitori e insegnanti con la missione di fare divulgazione e formazione sulle dipendenze tecnologiche che non interessano solo gli adolescenti ma tutti, anche i bambini nei primi mesi di vita. Tra i disturbi più frequenti ci sono il vamping, lo sleep-texting e la nomofobia.

«Una dipendenza tecnologica si cura studiando e capendo il fenomeno. Noi facciamo una formazione a tappeto e siamo chiamati dappertutto a spiegare e a portare consapevolezza». In un mondo come il nostro, il cellulare non è il nemico ma è l’educazione a mancare. Il dottore ci racconta come le giovani madri facciano interagire il neonato sin dai primi mesi di vita con lo schermo del cellulare: «Il telefonino è un grande sedativo, è la cannabis del neonato. Le favole non sono più raccontate dal genitore, ma da Youtube. Questo è un fatto gravissimo». La prima cosa che un neonato impara a conoscere non è il viso della madre, ma la luce blu di uno schermo.

 

 

Il bambino diventa dipendente dalla tecnologia perché è la prima cosa che impara. Il ragazzo diventa dipendente dalla tecnologia perché si interfaccia costantemente con dispositivi che gli forniscono tutti i dati necessari tanto da renderlo incapace di pensare o stare attento. Gli adolescenti si suicidano perché l’algoritmo gli dice di farlo, come Molly Russell, una ragazzina che si è tolta la vita a 14 anni convinta dalle cose che vedeva sui social.

Oggi siamo tutti dipendenti, sia chi è nato con cellulare in mano, sia chi non lo ha conosciuto prima dei 30 anni. Perché succede questo?

«Alle spalle c’è una mancanza. Se nei nuovi nati la mancanza è il sorriso della madre sostituito con il viso di un video, per tutte le generazioni prima c’è un vuoto educativo. Lo stesso vuoto causato da genitori distanti (i nostri bisnonni, per esempio, che mettevano al mondo figli per poi non badare troppo a loro) o da genitori divorziati. Inoltre, non c’è più una rete intermedia di pari che sostiene il passaggio dall’alto al basso, il senior che insegna al junior, il genitore che insegna al figlio, sempre regolata da un’orizzontalità partecipativa. C’erano i genitori ma anche la comunità. Oggi i bambini sono ritirati, manca l’altro intermedio. Mia madre faceva la sarta e lavorava tutto il giorno eppure io sono sempre cresciuto con gli altri, bambini o adulti che fossero. Ecco oggi questo è finito, i ragazzi non hanno più una zona intermedia. Va recuperata e i ragazzi non devono stare sui social ma devono andare a giocare con gli altri», conclude Scognamiglio.

 

 

Anche Serenella Salomoni, psicologa e psichiatra, spiega come passare troppo tempo online impedisce di coltivare delle relazioni reali: «È importante far crescere i ragazzi con l’idea di relazionarsi» e strumenti come il cellulare «non fanno altro che allontanarli dai rapporti interpersonali. Li fanno vivere fuori dalla realtà quindi non riescono a entrare in contatto con l’altro. Andare a letto con il cellulare o il pc poi altera i ritmi del sonno, non consentendo di riposare». La dipendenza dai social o dal telefono non va sottovalutata, ma affrontata con l’aiuto di un esperto: «La cosa che più mi impressiona è il rapporto simbiotico dei giovani con il cellulare. Lo usano sempre, anche quando sono in compagnia. Se ci si accorge di avere un problema bisogna rivolgersi a uno specialista. Soprattutto con i più giovani si può lavorare e trovare delle soluzioni. Più si aspetta e più diventa difficile».

Usare correttamente il telefono è possibile: «Non dobbiamo farci comandare dal cellulare, ma siamo noi a doverlo gestire», continua Salomoni, «e dobbiamo insegnare ai nostri figli che le cose belle sono nella vita reale. Durante il giorno ci sono tante attività da fare al posto di utilizzare il telefono e la sera si potrebbe spegnere. Siamo dipendenti se non possiamo e non riusciamo a farne a meno».

 

La storia di Molly Russell

 

Molly Russell si è tolta la vita a 14 anni nella sua casa a Londra nel 2017. La ragazza soffriva di depressione e manifestava comportamenti autolesionistici, ma ad indurla al suicidio è stato altro. Durante le indagini, è emerso che nei suoi ultimi mesi di vita Molly aveva visto oltre 2000 contenuti online che avevano a che fare con il tema della morte e del suicidio. Questi input venivano soprattutto da Instagram ed erano talmente presenti e “insistenti” che l’hanno spinta ad assecondarli, togliendosi la vita. Nel 2022 Elizabeth Lagone, responsabile del settore salute e benessere di Meta, l’azienda che possiede Instagram, ha ammesso che in alcuni casi erano state violate le regole della piattaforma e che alcuni contenuti non sarebbero dovuto essere disponibili.