Euforia da Bitcoin

La moneta digitale tocca i 2000 euro. Ma come funziona? E a cosa serve?

Euforia da Bitcoin

di | Mag 31, 2017

«Due Papa John, grazie». «Ok, fanno 10mila bitcoin». 22 maggio 2010, Laszlo Hanyecz ha appena comprato le due pizze più care di sempre. Ma il programmatore statunitense non poteva saperlo.
Non poteva immaginare che la somma virtuale spesa con tanta leggerezza sette anni fa oggi varrebbe più di 20 milioni di dollari.

Sì perché, se nel 2011 per comprare un bitcoin bastava un nichelino, oggi servono più di 2000 verdoni. Un incremento esponenziale che sta suscitando l’interesse di banche, investitori e istituzioni. Ma quanto ne sanno gli italiani di questa “moneta” digitale? Ho provato a chiederlo ad amici e parenti. Pochi ne hanno sentito parlare – perlopiù in negativo come sistema per riciclare denaro sporco o fare acquisti nel deep web, la rete non indicizzata dai motori di ricerca – i più ne ignorano l’esistenza. E, fino a poco tempo fa, chi scrive si trovava nella stessa condizione. Poi, un giorno, un amico mi ha detto: «A ottobre ho comprato venti euro di bitcoin, poi li ho scambiati per ethereum, oggi ho 900 ripple che valgono 280 euro». Incuriosito, ho fatto alcune ricerche: dietro i bitcoin e le altre monete digitali c’è un mondo. E presto, probabilmente, tutti ne faremo parte, in un modo o nell’altro.

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Il mistero di Satoshi
Il 31 ottobre 2008 in una mailing list dedicata alla crittografia, metzdowd.com, appare uno strano messaggio: «Ho studiato un sistema di denaro elettronico nuovo, totalmente peer to peer, privo di garanti». Firmato: Satoshi Nakamoto. Segue link a un articolo scientifico scritto dallo stesso mittente. Nel titolo appare per la prima volta la parola “Bitcoin”. Tre mesi e 31mila righe di codice dopo, nasce la moneta digitale che potrebbe cambiare per sempre il commercio online, e non solo. È lo stesso Nakamoto a creare il primo blocco della blockchain, la catena che registra e archivia tutti gli scambi effettuati tramite bitcoin. L’algoritmo ricompensa questo contributo con 50 monete digitali di nuovo conio. Lo stesso giorno, il 3 gennaio 2009, Satoshi ne cede 10 al programmatore Hal Finney, compiendo la prima transazione nella storia dei bitcoin. Oggi, sono più di 200 milioni, tutte consultabili sul registro pubblico. Ma un mistero rimane: chi è Satoshi Nakamoto? Nell’aprile 2011 ha comunicato alla rete di «volersi dedicare ad altro». Da allora di lui non si ha più notizia. C’è chi dice che dietro lo pseudonimo si celi un collettivo di “smanettoni”. Alcune inchieste giornalistiche hanno provato a smascherarlo: dal professore australiano al giapponese appassionato di trenini, i tentativi si sono sempre risolti in un nulla di fatto. Di certo, l’inafferrabile Nakamoto possiede una fortuna: secondo le stime, circa un milione di bitcoin, il 6% del circolante, che ai valori attuali corrisponde a 2 miliardi di euro.
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Una moneta senza padrone
Dal ritiro di Satoshi dalla scena pubblica il suo patrimonio non si è più spostato. Nakamoto, chiunque egli fosse, potrebbe essere morto. E con lui sarebbe scomparsa anche la sua fortuna. «A ogni detentore di bitcoin è assegnata una password elaborata, la chiave privata», spiega Giacomo Vella, ricercatore del tavolo di lavoro Blockchain & distributed ledger del Politecnico di Milano, «solo chi la conosce può spendere le monete digitali. Se viene persa o dimenticata, non c’è modo di recuperare i bitcoin ad essa associati». A ogni detentore, poi, spetta una chiave pubblica, il documento di identità. Se A paga B con 10 bitcoin, nella blockchain verrà registrato uno scambio fra la chiave pubblica di A e quella di B. A, però, potrebbe spendere gli stessi 10 bitcoin un’altra volta prima che B li “incassi”, ossia prima che vengano iscritti a suo nome nel registro. «È il problema del double-spending, che affligge tutte le monete digitali: una banconota non può uscire due volte dallo stesso portafogli, un bitcoin sì», aggiunge Vella. Di solito, sono le banche a risolverlo; nel mondo dei bitcoin la soluzione è la pubblicità della blockchain. Il primo scambio in ordine di tempo comparirà nel registro come valido, mentre il secondo verrà rifiutato dal software come fosse inesistente. Perché il sistema funzioni, però, bisogna che qualcuno lo aggiorni costantemente. E qui entrano in gioco i miners, i minatori. Ogni 10 minuti circa un nuovo blocco di transazioni si aggiunge, divenendo l’ultimo anello di una catena al cui altro estremo compare la donazione di Satoshi a Finney. Al miner che iscrive il blocco spetta una ricompensa in bitcoin di nuovo conio, la pepita del minatore digitale.
L’industria estrattiva cinese
A ottenere il diritto a iscrivere il blocco, e la ricompensa in bitcoin, è il primo computer a risolvere un problema matematico molto complesso. La soluzione è casuale, ma più la macchina è potente, più alta è la probabilità di trovarla in tempo. «È un po’ come nella lotteria: tutti possono aggiudicarsi il premio, ma se compri più biglietti, le tue chances aumentano», dice Vella. Perciò, i minatori hanno deciso di unire le forze dei loro computer creando gruppi estrattivi: le mining pool. In queste miniere di bitcoin si consuma molta energia elettrica. Ecco perché si concentrano in aree dove la corrente costa poco: secondo un recente studio di Cambridge, il 58% delle mining pool si trova in Cina. In Italia non ne esistono, ma online, pagando una quota associativa, è possibile partecipare ai profitti stranieri. Si calcola che ogni 24 ore il guadagno complessivo dei minatori ammonti a più di 5 milioni di dollari. Ma si deve stare attenti, dietro alle promesse di alcune mining pool si nasconde uno schema Ponzi: i soldi degli investitori di oggi vengono usati per pagare dividendi a quelli di ieri, ma la società non svolge alcuna attività produttiva.
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Soldi dal futuro
Ma a cosa serve davvero bitcoin? È solo uno strumento speculativo? Secondo alcuni critici, dato che la quantità massima è fissata dall’algoritmo a 21 milioni – oggi, siamo a 16 – il bitcoin può al più servire come bene rifugio. Un po’ come l’oro, solo digitale: il primo bene digitale scarso. Negli ultimi anni, però, molti negozi, fisici e online, hanno iniziato ad accettarlo in pagamento. A Rovereto, in Trentino, Marco Amadori ha fondato Inbitcoin, società di che offre servizi di gestione per la moneta virtuale. «Qui abbiamo creato la bitcoin valley», spiega, «i nostri sviluppatori sono stipendiati e mangiano con i bitcoin». E, in effetti, sono 20 gli esercizi commerciali che li accettano: bar, ristoranti, edicole, ottici, perfino la scuola guida. «Rovereto è il prototipo di una cittadina italiana fra cinque anni: alcune cameriere hanno addirittura acconsentito a ricevere il loro salario in bitcoin», aggiunge Amadori. Per ora, ammette, «per un commerciante italiano il vantaggio è solo mediatico. Una fumetteria di Pordenone decide di farsi pagare in bitcoin: sono arrivati tre articoli di giornale e la troupe del Tg3».
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Non è tutto oro
«Ho iniziato ad accettare bitcoin tre anni fa su consiglio di un amico: da allora ho ricevuto una decina di pagamenti, per l’equivalente di circa 300 euro», dice Deng Lunwei, titolare di Nonsolopizza. Milano è la città dove la moneta digitale sta suscitando più interesse. Sono 43 i luoghi dove il bitcoin è moneta corrente: architetti, avvocati, parrucchieri, corsi di yoga… C’è addirittura un bancomat, dove si possono cambiare euro in bitcoin e viceversa. Ma tutti, o quasi, raccontano di un’esperienza poco soddisfacente: alcuni, alla fine, hanno rinunciato, nonostante i costi di gestione siano pressoché nulli. E anche start-up – che all’estero hanno riscosso un discreto successo – da noi stentano a decollare. È il caso di Abra, creatura della Silicon Valley che promette di rendere meno costose le rimesse degli immigrati. Presente in 54 Paesi, da marzo è disponibile anche in Italia. Marco Monaco è il primo teller di Abra a Milano. «Chi vuole mandare denaro, ad esempio, nelle Filippine, può comprare da me bitcoin e inviarli al nostro corrispondente a Manila», spiega, «il teller filippino poi provvederà a convertirli nella valuta locale, mettendoli a disposizione dei familiari del mittente». In sostanza, un money transfer, ma più conveniente: «la commissione è intorno al 2% e tutto si gestisce attraverso un’app, eliminando altri intermediari». Eppure, in due mesi da teller, Monaco confessa di aver fatto «zero transazioni». Il problema, a suo parere, «è che il bitcoin è un bene scarso: chi in tasca ha una banconota e una moneta d’oro, spende solo la prima, sperando che la seconda si apprezzi col tempo».
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Rivoluzione e restaurazione

La comunità dei bitcoiner è divisa. C’è chi vede nel bitcoin un’invenzione che cambierà l’economia e, chissà, forse anche la politica. Una rivoluzione ispirata dall’oscuro “Manifesto crittoanarchico” del 1992: «Proprio come la stampa indebolì il potere delle corporazioni, così anche i metodi crittografici cambieranno per sempre la natura delle imprese e dell’interferenza statale nel commercio». C’è chi, più modestamente, crede che quella di Nakamoto sia una tecnologia geniale, ma perfettibile. Tutti, però, concordano su un fatto: c’è tanta disinformazione. «Si legge spesso che i bitcoin favoriscono riciclaggio e affari illeciti», dice Amadori, «al contrario, poiché ogni transazione lascia una traccia indelebile sul registro pubblico, il criminale che usa bitcoin è uno sprovveduto, fa un favore alla polizia». In ogni caso, anche se spesso le mazzette vengono pagate in contanti, nessuno ha mai definito l’euro una moneta criminale. L’interesse di banche e istituzioni finanziarie, poi, dimostra che c’è qualcosa di più. Nel 2016 quasi 2 miliardi di dollari sono stati investiti nella ricerca sulla blockchain, l’algoritmo alla base di bitcoin. È questa, probabilmente, l’intuizione più geniale di Nakamoto. E le sue applicazioni promettono di cambiare davvero il mondo. Eccone alcune: controllare la gestione dei fondi pubblici, tracciare la filiera produttiva di una merce, dare esecuzione a un contratto, certificare data e autore di un video. Il tutto senza l’intervento di terze parti e senza possibilità di modifiche truffaldine. La blockchain è come la biblioteca di Alessandria, con la differenza che nessuno può bruciarla.