GOTHAM SIRO
A nord si parla del nuovo stadio, a sud comandano spaccio e abusivismo. Oltre il muro invisibile che divide due anime dello stesso quartiere

di Simone Cesarei e Samuele Damilano

In via Zamagna 4, quartiere San Siro, periferia ovest di Milano, frecce nere sull’asfalto indicano dove comprare una dose. I muri delle case popolari cadono a pezzi. Una ha la facciata scura, bruciata. Un incendio dello scorso agosto ha lasciato i residenti senza acqua e luce per settimane, ma ancora oggi i servizi non funzionano. C’è un ragazzo alto, tatuaggi in testa e lungo le braccia. È omosessuale. Lui e il suo compagno sono stati picchiati già tre volte, e ora quando deve uscire a fare la spesa ha paura. Il 23 novembre Pierfrancesco Maran e Marco Granelli, assessori comunali con delega alla Casa e alla Sicurezza, hanno visto con i propri occhi sofferenze e degrado. Volevano avvicinarsi ai residenti, dargli conforto tra le braccia dello Stato, ma hanno incontrato solo rabbia. Una signora, voce di tanti, gli ha urlato contro, ha gridato che il sindaco, dopo tante promesse, li ha abbandonati. Intanto, sulla via, un’Audi Coupé seguiva i loro passi. I due in macchina avevano una telecamera in mano. Sono le vedette, spacciatori che controllano il loro territorio, che alle istituzioni rispondono filmando, per far vedere di non aver paura, per dimostrare che lì, in via Zamagna, comandano loro. 

Una freccia per una dose, nel cortile di una popolare in via Zamagna

Da quel cortile si intravede un palazzo. È color porpora, moderno, lo chiamano il “kebab”, per la sua forma arrotondata. Ancora qualche metro più a nord, e le case diventano belle, colorate, lussuose. Negli ultimi 12 mesi il prezzo medio di una casa su via degli Odescalchi era di 591 mila euro, su via Mar Jonio, a meno di un chilometro di distanza, di 71 mila.
Piazza Segesta segna un confine. Qui il bar Adelaide offre gallettes, crêpes e piatti di pasta ai ragazzi francesi del “Lycée Stendhal”. Jeans a zampa, cappotti, pellicce e sneakers alla moda. Sono i figli della San Siro ricca. Ma nel bar entra anche Imad, 71 anni egiziano, esiliato dal suo paese. La sera prima sulle scale del suo palazzo degli spacciatori non volevano farlo passare. «Se si avvicinano ancora gli spacco la testa». Un muro invisibile che divide due anime dello stesso quartiere. A sud c’è il quadrilatero, povero e popolare, a nord lo stadio Meazza, l’ippodromo, il silenzio di una zona residenziale. A 100 metri dai palazzi Aler, da incendi, spaccio e abusivismo spuntano case rosse, a più piani, che sfumano nei colori dell’autunno.

Qui il foliage regala un paesaggio che cattura l’occhio e profuma di benessere. Quel silenzio si fa sempre più rumoroso tanto più si avvicina a disagio e povertà. Li annulla, li rende impercettibili, anche ai residenti: «Sentiamo le storie che arrivano da sud. Si parla di gente accoltellata, ma qui io sono tranquillo». Matteo, trasferitosi da poco per stare più vicino al lavoro, passeggia con il cane in via degli Odescalchi, sul vialetto di una casa che assomiglia tanto a quelle inglesi, fiori alle finestre e prato perfetto. Giardinieri, addetti alle pulizie e portieri, invece di custodi a lottare con occupazioni e vandalismo. In via Ottoboni, dove i muri dei palazzi sono ricoperti da edera e gigli, i giovani passeggiano e fanno jogging. Nello stesso momento davanti alla torre di piazza Selinunte, ultima rovina di un’ex centrale termica, alcuni zingari hanno steso teli per terra e stanno vendendo di tutto. Scarpe, occhiali, pentole, bambole di plastica. Sono tanti, ridono tra loro e si guardano intorno, di fronte a quello che un tempo era il mercato comunale.

«Io quel confine non l’ho mai superato». Antonio, tuta aderente e fiato corto, corre davanti ai murales dell’ex ippodromo del trotto. «Lo vedi quell’attico lì? Ci abitava Mauro Icardi». Tra le case dei calciatori di Milan e Inter, di dj e cantanti, ha deciso di investire il gigante immobiliare Hines con un nuovo centro residenziale, metà a canone concordato. Uno spazio polifunzionale, dove vorrebbero costruire il campo da paddle più grande d’Italia. Lo studio architettonico Marzorati ha vinto il bando di Reinventing cities da 7 milioni di euro e costruirà un centro termale di lusso al posto delle ex scuderie Montel. Ma il protagonista resta sempre lui, quello stadio che per molti identifica un intero quartiere, un’intera città. «Abbiamo già uno stadio che per la Uefa risulta idoneo, collaudato e pronto per le Olimpiadi invernali 2026», lamenta Giammarco Brenelli, avvocato e membro del Comitato Sì Meazza, nato, spiega, per fornire un’informazione alternativa a quella della giunta Sala, che sullo stadio avrebbe deciso senza passare dal Consiglio comunale. «Si tratta di un’operazione finanziaria più ampia, a favore delle società cinesi e americane che sono a capo di Inter e Milan, Suning ed Elliot. Società che fanno i propri interessi. Non quelli dei tifosi, né tantomeno degli abitanti della parte popolare».

OLTRE IL CONFINE

«La vedi questa cicatrice?». Maria, vestito nero e voce spezzata, si indica la fronte con gli occhi lucidi. «Un uomo mi ha aggredita. Aveva occupato una casa nel mio condominio e non voleva pagare l’elettricità. Quando mi sono lamentata, ho rimediato otto punti in testa». La storia di Maria non è l’unica in quartiere. Secondo i dati della Prefettura, su seimila alloggi popolari, si contano oltre 800 occupazioni abusive. È uno dei problemi endemici al quadrante popolare, dove la gente ha paura di partire per il weekend, perché non sa se riuscirà a rientrare.

«Qualche anno fa avevo una trattoria proprio lì», Francesco, un anziano calabrese che ha vissuto le trasformazioni di San Siro in prima persona, indica una strada che si perde nel grigiore di una mattinata d’autunno milanese. «C’era un cliente che abitava poco lontano, e che ogni giorno veniva a pranzo. Siamo diventati amici. Quando si è ammalato, dall’ospedale mi ha chiesto di andare a casa sua e prendere tutto quello che volevo, perché non aveva una famiglia a cui lasciare la sua pur modesta eredità. Dopo la sua morte ho aspettato una settimana, per rispetto, ma non sono mai riuscito a entrare. L’avevano occupata». C’è un racket vero e proprio, portato avanti dalla malavita locale: tremila euro in cambio di un tetto sulla testa. Lo schema è semplice, il risultato garantito. «Mica solo i criminali però, ci sono anche i centri sociali che aiutano» sussurra un residente che vuole rimanere anonimo. 

Al Comitato di quartiere di via Mar Jonio 7 la questione è all’ordine del giorno. Ogni mercoledì mattina, in un ex circolo Anpi, cittadini interessati si ritrovano per provare a cambiare le cose. Alessandro è un ex dirigente Aler ormai in pensione, che per anni ha fatto i conti con l’abusivismo delle popolari. «Tanto tempo fa mi occupavo di buttare fuori la gente che occupava. Tossici sì, ma anche molte famiglie che non sapevano dove andare. Dietro però c’è gente pericolosa». E quel pericolo lui l’ha visto da vicino. «Una volta è arrivata una macchina. Ha caricato un mio collega, lo hanno rapito, e gli hanno sparato in bocca». Valeria ha una madre innamorata del suo appartamento in via mar Jonio. Così innamorata che quando lo stabile ha preso fuoco, dal tetto è cominciato a colare liquido tossico nero e la pioggia ha cominciato a entrare dai punti luce, non voleva andarsene.

Nello stesso cortile, un signore, viso scavato e fasciatura sul braccio, fuma con la mano tremante. Non cicca, la sigaretta diventa una colonna di cenere, che cade sul pile nero e sgualcito, ma lui non ci fa caso. Ha lo sguardo perso e vuoto e non sembra curarsi tanto di quello che gli accade intorno, perimetro fumoso, indefinito e futile di un’esistenza per cui non ha più le forze di lottare. La sera il signore, insieme a un altro amico, affitta il suo appartamento a prostitute straniere in cambio di una dose di eroina. L’amico aveva un cane e la sua ultima notte, all’ultima overdose fatale, lo ha lasciato ad abbaiare solo.

 

INTEGRAZIONE MANCATA

Secondo i dati di Off Campus, presidio sul territorio del Politecnico di Milano, gli abitanti di origine straniera sono circa il 50% della popolazione, con oltre 85 nazionalità rappresentate. Un dato in aumento negli ultimi anni, e destinato a crescere ancora. Il terreno è fragile, l’equilibrio sociale appeso a un filo. Alla scuola di via Paravia ci sono solamente ragazzi stranieri, gli italiani hanno deciso di non mandarci più i loro figli. Sulla stessa strada da una parrocchia arriva un chiassoso vocio di ragazzi, i più tra i 12 e i 14 anni. Corrono con le biciclette, giocano a calcio, basket e pallavolo. «Vivono per strada perché i genitori sono assenti, o li hanno persi. Cerchiamo di dargli spazi educativi, laboratori, momenti di studio». Don Fabio è il responsabile dell’oratorio che ospita 56 ragazzi, di cui solo cinque italiani, e offre tutti i mesi supporto alimentare a oltre 170 famiglie. Le disuguaglianze si snodano su due livelli: da una parte non c’è alcun contatto con i residenti della parte nord, che tutt’al più presenziano alla messa, ma senza partecipare quasi mai alle attività. Dall’altra frizioni scoppiano tra le diverse etnie anche all’interno della stessa parte popolare. È una guerra tra poveri, in cui spesso a finirci in mezzo sono i bambini. 

«Vige la giustizia di strada. Mi dai una sberla? Te la do anch’io. Mi fai un torto? Te la faccio pagare». Michele è un educatore col sogno del giornalismo nel cassetto, lavora in parrocchia dallo scorso settembre, ma è come se ci fosse da sempre. «L’obiettivo principale», racconta, «è sradicare la convinzione che il successo nella vita equivalga alla prevaricazione dell’altro». Un compito non facile, se si conosce la storia dei ragazzi. Alcuni, nemmeno adolescenti, parlano di cocaina come fossero esperti. Quando a uno di loro hanno spostato la lattina di Coca Cola, ha chiamato il cugino per picchiarli. Un ragazzo, capelli lunghi, carnagione scura e accento milanese, che sfreccia avanti e indietro su una mountain bike, nella sua vita ha già assistito a tre suicidi. Un altro, dodici anni e passamontagna sul volto, sbraita davanti al cancello. Vuole giocare con i suoi compagni, ma qualche giorno prima si è divertito a saltare sulle macchine parcheggiate in piazza, e ora Michele non lo fa entrare. Se ne va piangendo. «Io scommetterei su questi ragazzi. Hanno tutti un grande potenziale». Pochi minuti e torna il ragazzo con il passamontagna. Il cancello però resta chiuso, perché l’educazione, qui, passa anche da queste cose.

 

Il quartiere di San Siro visto dall’alto. Cliccando sui tasti interattivi gli snodi principali della zona

Allontanandosi dalla parrocchia, quando a illuminare il quadrilatero sono rimasti solo lampioni intermittenti, dei giovani attraversano la strada con una cassa a tutto volume: «San Siro, Gotham City senza Batman». È Neima Ezza che canta rabbioso. Lui che solamente qualche anno prima era nella stessa parrocchia dove ora molti bambini lo ergono a idolo. Il rapper è uno dei membri della Seven7oo, crew che dalle popolari di Zamagna è arrivata a essere uno dei nuovi riferimenti nella scena italiana. Ragazzi cresciuti in case Aler, immigrati di seconda generazione che hanno conosciuto la strada, e ne hanno pagato anche le conseguenze. Tra gli altri Rondo da Sosa, la voce più di successo, con un Daspo da Milano sulle spalle per rissa e Sacky, un passato in carcere per rapina, il reato più diffuso a San Siro. «È un ragazzo timido, che ora pensa alla sua musica, ma resta affezionato al quartiere, come tutti loro. Li trovi a portare la spesa agli anziani, sentono un forte senso di comunità. Alcuni vengono da riferimenti educativi sani, altri meno, ma la malavita l’hanno respirata in quartiere. Sono cresciuti in una giungla di illegalità, e ora sono preoccupati». Don Claudio Burgio ha conosciuto Sacky al carcere minorile Beccaria, dove svolge il ruolo di cappellano. Presidente e fondatore della comunità “Kayròs”, accoglie minori dagli istituti penitenziari per rieducarli attraverso servizi sociali. Nel 2021, dalla zona sette, ne sono arrivati oltre 70. «Il risentimento, la rabbia sprigionata dai testi della Seven è reale. Ma loro, come crew, si sono presi la responsabilità di esserci per la loro gente». Anche nelle sedi di quelle istituzioni che per tanti anni hanno visto come nemici, e da cui si sono sentiti abbandonati. Ad aprile scorso l’incontro con il sindaco Giuseppe Sala, organizzato da Don Burgio, dove Rondo e Sacky hanno raccontato il proprio quartiere, chiedendo spazi di aggregazione per i giovani. Così che chi cresce per quelle strade non debba rifugiarsi nella giungla.

 

 

LA CRESCITA NON È UGUALE PER TUTTI

Sala, raccontano fonti interne al Comune, sbatte i pugni sul tavolo ogni volta che sente storie del genere. Il sindaco si innervosisce quando si rende conto che la crescita di Milano è verticale, che la gentrificazione è difficile da controllare, e una parte della popolazione rimane indietro. La zona sette è laboratorio potenziale di quello che è già successo a Isola, City Life e NoLo, dove servizi, nuovi immobili e aumento dei prezzi d’affitto hanno trasformato i quartieri da popolari in esclusivi. Ora i viali alberati e le villette a schiera di San Siro nord aspettano un’altra occasione di espansione, a partire dal nuovo stadio. «Il risultato sarà un incremento della disuguaglianza», afferma Paolo Natale, docente di sociologia alla Statale di Milano, che con i suoi studenti ha condotto una ricerca sul campo nelle due aree separate dal muro invisibile di piazza Segesta. A San Siro nord il livello di soddisfazione per la qualità della vita è superiore all’80 per cento; nella zona Selinunte, a meno di un chilometro di distanza, si riduce di quasi 30 punti, uno dei tassi più bassi dell’intera città. «La condizione di vita di alcune zone povere sembra interessare a poche persone. Una parte del quartiere è considerata di Serie B, e subirà un ulteriore cambiamento senza esserne stata coinvolta». «La sfida più importante qui è coinvolgere i residenti», gli fa eco Federico Bottelli, già consigliere del Municipio VII e ora presidente della Commissione casa nel Consiglio comunale di Milano, che proprio della rappresentanza del territorio fa il mantra principale del suo mandato. Al bar Adelaide non passano due minuti senza che qualcuno lo saluti. È lui il punto di riferimento istituzionale del Comitato di quartiere, sempre presente alle loro riunioni. Ed è sempre lui a dover garantire che i 30 milioni di oneri di urbanizzazione derivanti dalla costruzione del nuovo stadio non vengano sprecati. 

 

Un murales davanti allo stadio Meazza

«L’interesse pubblico si può tradurre in nuove fognature, impianti elettrici, centri sportivi, luoghi di aggregazione, verde. È un’occasione, ma tutto dipende come decidiamo di spendere quei soldi. Serve una pianificazione strategica che parta anche dal basso, perché oltre ai soldi di Milan e Inter arriveranno altri fondi». Si tratta di 21 milioni di finanziamenti Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) e Pinqua (Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare) con cui rimettere a posto un ex asilo, abbandonato da oltre 30 anni, e una struttura Aler da trasformare in nuovi posti letto. Comunque non abbastanza. «Quanti sono 30 milioni su un miliardo di investimento per lo stadio? Per il quartiere servirebbero 100 milioni, soldi che Regione Lombardia non ha alcuna intenzione di stanziare». Perché il problema sta anche qui, ed è tutto politico. In una giunta regionale di destra che dovrebbe intervenire in un Comune di sinistra, per poi regalargli il merito. Sconveniente, mormorano a Palazzo Marino. Il risultato è un continuo sovrapporsi di aree di competenza che dovrebbero convergere su un unico obiettivo, e che invece finiscono in scontro. «Il Comune non può riqualificare le case Aler perché di proprietà della Regione, la Regione non interviene nella sicurezza delle stesse perché di competenza del Prefetto» spiega Bottelli. «Non c’è una cabina di regia, quello che è certo è che ora saranno costretti a sedersi tutti allo stesso tavolo». Ad un obiettivo comune sta lavorando Marco Granelli, che ha firmato un protocollo sicurezza proprio con Aler e Prefettura per favorire gli sgomberi e combattere l’illegalità. «Non riusciremo a risolvere tutto subito, magari però dal 10% di case sgomberate riusciremo ad arrivare a 80». Ma mentre l’assessore parla, dalla Coupé continuano a filmare.