Un sogno chiamato San Siro

La prima esclusione dai Mondiali di calcio in 60 anni ha scioccato l’Italia,
ma non ha spento la speranza di milioni di bambini: calcare i campi di Serie A.
Servono grandi sacrifici, solo 1 su 3000 ce la fa. E gli altri?

Dic 20, 2017

 

di Francesco Caligaris e Giovanni Marrucci

Ci sono bambini che da grandi sognano di fare l’astronauta. Chi invece di fare il medico. Ci sono bambini che sognano di guidare i camion. Chi invece di pilotare gli aerei. Ci sono bambini poi, che sognano di fare i calciatori, come Messi e Ronaldo, Totti e Del Piero. Che sognano di diventare idoli, di fare gol davanti a 90mila spettatori. Di giocare i Mondiali con la maglia della nazionale. Di vincerli, calcando i campi leggendari del mondo: il Bernabeu, Wembley, il Maracanà, San Siro.

Uno su tremila ce la fa. E gli altri?

Diventare un calciatore professionista è un sogno comune a milioni di bambini, che però non si realizza quasi mai. Provarci è legittimo, ma i numeri parlano chiaro: su 1.062.294 atleti tesserati per la Figc (Federazione italiana giuoco calcio) nella stagione 2015/16, solo 375 italiani giocavano in serie A. E c’è un altro dato che spiega immediatamente quanto sia piccolo e stretto lo spazio di quelli «che ce la fanno»: in quella stessa stagione, su 583.340 partite ufficiali della Figc solo 3.387 si giocavano nei campionati professionistici. L’uno per cento. La maggior parte, il 65 per cento, si sono disputate (e si disputano) nei campionati giovanili, inseguendo il sogno di trasformare in lavoro la passione che accomuna un giovane italiano su cinque tra quelli di età compresa tra 5 e 16 anni.

«Non tutti devono arrivare per forza, ma è difficile accettarlo»
Pierluigi Frosio

L’inizio è uguale per tutti. Si comincia in prima elementare. C’è chi gioca all’oratorio, chi già in una scuola calcio. Quella dell’Inter costa 590 euro, ma in altri posti ne bastano poco più di 100. La Lombardia è la regione con più tesserati Figc (sono oltre 117 mila nella stagione in corso) e il comitato di Milano è il primo in Italia con 16.624 calciatori del settore giovanile scolastico: la categoria più numerosa sono i pulcini (nati nel 2007-2008, 4.366) e ci sono anche 266 ragazze, tra cui 3 bambine dei piccoli amici 2011-2012. Milano vanta 12 scuole calcio “élite”, valorizzate ulteriormente dalla Figc secondo vari requisiti di qualità come la collaborazione con uno psicologo o l’integrazione tra atleti normodotati e diversamente abili. Un modello per l’Italia, soprattutto in questi anni in cui il calcio nostrano sembra essere rimasto indietro rispetto agli altri campionati europei in quanto a qualità di fuoriclasse sfornati. Non a caso, dopo 60 anni dall’ultima disgrazia nazionale, non giocheremo i mondiali. Colpa – anche – di una generazione di calciatori non all’altezza della passione che c’è per questo sport.

Società professionistiche come Milan e Inter provano a scovare i futuri Maldini e Facchetti già in giovanissima età, 7-8 anni. Simone Fautario era una giovane promessa. Oggi ha 30 anni, gioca nell Fano in serie C e nel 2007 ha vinto – da capitano – lo scudetto Primavera con l’Inter. Era in squadra con Mario Balotelli e Leonardo Bonucci. «Ho fatto due provini ma ero già un po’ più grande della media, avevo 12 anni – ricorda – Il primo andò male, la seconda volta mi presero. I provini si facevano ogni giovedì, una partita 11 contro 11 con tutti ragazzi sconosciuti», racconta.

Serve fortuna, insomma, ma servono anche testa e un ambiente familiare sano. Bisogna saper reggere le pressioni dall’esterno e i genitori svolgono un ruolo fondamentale, sottolineano in coro i direttori sportivi delle principali realtà giovanili di Milano. «Il percorso è lunghissimo – dice Giancarlo Corbetta, ds dell’Alcione – la famiglia deve aiutare e capire i ragazzi. Già ci sono pressioni dentro, se ti crei pressioni anche a casa poi scoppi». Troppo spesso sono i genitori a diventare l’ostacolo principale per i giovani calciatori. «È cambiata la società e con essa il calcio – aggiunge Domenico Lattante dell’Ausonia – Oggi si cercano fama e successo con il minor sforzo possibile. Il sogno di diventare un calciatore si è trasformato nel sogno di fare tanti soldi. E i padri vedono nei figli che a 10 anni giocano nell’Inter o nel Milan il modo per risolvere i propri problemi economici».

«Ho visto tanti forti perdersi e altri meno forti, ma con più fame, arrivare»
Maurizio Ganz

Riccardo Forte - Attaccante della Primavera del Milan (foto LaPresse)

Riccardo Forte

Da fuori non sembra, ma i sacrifici sono all’ordine del giorno. E non si tratta solo del banale «non puoi andare in discoteca con gli amici perché il giorno dopo hai la partita»: le rinunce riguardano anche la scuola e, soprattutto, la famiglia. Simone Fautario non ha il diploma: ha lasciato al terzo anno delle superiori. Maurizio Ganz, 608 presenze ufficiali e 204 gol in carriera, ex attaccante di Inter e Milan, è nato e cresciuto in Friuli Venezia Giulia e a 14 anni è andato a vivere da solo a Genova per giocare nella Sampdoria. Oggi i ragazzi “fuorisede” del settore giovanile del Milan, dagli under 15 alla Primavera, vivono di fronte a San Siro. Ogni mattina vedono il loro sogno fuori dalla finestra. Nel convitto ci sono 32 giocatori, di cui 19 della Primavera. I tutor e gli educatori della società fanno a turno per coprire con la loro presenza tutte e 24 le ore della giornata.

I ragazzi frequentano scuole diverse in base al loro percorso di studio e sono seguiti nei compiti. Una o due volte al mese tornano a casa, ma spesso nei fine settimana ricevono la visita dei genitori. Sanno che per arrivare nel calcio professionistico non bastano i gol, la tecnica e i piedi buoni. Come da bambini, se non di più, a un passo dalla prima squadra fortuna e mentalità diventano fattori chiave. Se la prima non è governabile, la seconda rischia di fare la differenza. «Quelli che arrivano sono molto inquadrati – spiegano i tutor del Milan – tirano dritto verso un unico obiettivo, difficilmente si lasciano distrarre dalle tentazioni che ci sono fuori». È la stessa ricetta che ha portato Maurizio Ganz a vincere uno scudetto, proprio con i rossoneri, nella stagione 1998-1999: «Se non vuoi fare sacrifici è meglio smettere. Non dico di dover pensare 24 ore su 24 al calcio, ma per fare il professionista almeno 23. Il divertimento ci sta, ma in secondo piano».

Chi non ce la fa – la maggioranza, per mille motivi – soffre. Sfumato il sogno, è destinato ad abbandonare il calcio. La fine di una routine, il risveglio da una bolla e la paura di affrontare il mondo “vero”, spesso perché privi di un’adeguata preparazione. Uno studio del 2015 della Teesside University ha dimostrato che il 55% dei ragazzi inglesi scartati dalle “academy” soffrono di problemi psicologici nei primi 21 giorni dall’addio. Qualcuno si è anche suicidato, come ha raccontato il Guardian a inizio ottobre. In Italia non sono mai emersi casi del genere, ma Agostino Malavasi, presidente del Cimiano, conferma: «Quando vieni scartato ti senti un fallito: o smetti subito di giocare o torni in società più piccole, ma mai in quella da cui sei partito, con la prospettiva di smettere comunque dopo qualche anno. Essere scartati dal Milan o dall’Inter è una batosta caratteriale e professionale sia per i figli sia per i genitori. E succede sempre prima, a 10-11 anni, presto per capire se un calciatore diventerà forte o no. Un ‘no’ non dev’essere visto come una sconfitta, può essere che uno non sia ancora pronto». Per questo – continua Alberto Campelli dell’Ausonia – «andare in una società professionistica per qualche anno deve essere visto come una fortuna, una bella opportunità che non capita a tutti, non come una sorta di lavoro già a 8 anni».

«Spero che i miei figli non siano capaci di giocare a calcio»
Simone Fautario

E poi c’è il salto: dalle giovanili alla prima squadra. In pochi ci arrivano e ancora meno resistono. Pierluigi Frosio ha giocato sette stagioni in serie A negli anni Settanta, ha allenato l’Atalanta nel 1990/91 e dal 2007 è il responsabile dell’attività agonistica dell’Aldini. «Il settore giovanile non è giocare a calcio – dice – Giocare a calcio è lottare per i tre punti, trovare gente di 30 anni in serie C che ti picchia per guadagnare 100 euro in più». Per un Ganz arrivato in serie A, ci sono altri 2.999 ragazzi che hanno smesso oppure girano l’Italia delle serie inferiori per stipendi che non garantiscono una stabilità economica una volta smesso di giocare a calcio a 35-40 anni.

Il fondo di fine carriera dell’Aic (Associazione italiana calciatori), nel 2014/15, stimava in 4 mila euro lordi lo stipendio medio mensile di un calciatore di serie C. In A la media è di 100mila, in B di 14mila. «Ma sono davvero pochi quelli che vivono di rendita», assicura Fautario. Anche perché, qualche volta, capita che i soldi dovuti neanche arrivano.

È il suo caso: una presenza in Coppa Italia nell’Inter dei grandi contro la Sampdoria a San Siro, un’altra a Messina, poi tanti prestiti in giro per l’Italia nonostante fosse il capitano della Primavera campione nazionale. Il 31 gennaio 2017 il difensore passa dal Pisa al Modena, il 15 luglio viene messo fuori rosa per problemi con la dirigenza e intanto, come tutti i suoi compagni, non riceve lo stipendio da giugno. Il 6 novembre il Modena viene radiato. Con due figli e una moglie da mantenere, Fautario non può restare a casa «a godersi la bella vita del calciatore»: poche settimane dopo trova un ingaggio al Fano, nelle Marche, a 380 chilometri da casa, Gaggiano, un Comune poco fuori Milano attraversato dal Naviglio Grande. «Per quanto ho dato al calcio, ho ricevuto zero – commenta – Sono stato bocciato due volte e ho mollato la scuola quando ho firmato il mio primo contratto da professionista. Oggi se ci ripenso mi fa male. Spero che i miei figli non siano capaci di giocare a calcio».

Quelli come Fautario sono molti di più dei milionari della serie A, ma fanno molto meno rumore. E poi ci sono quelli come Stefano Pastrello. A 16 anni passa dal Padova al Milan, lontano dalla famiglia veneta. Il 24 maggio 2003, a 19, gioca mezz’ora in serie A nell’ultima giornata di campionato: Piacenza-Milan 4-2, a quattro giorni dalla finale di Champions League vinta dai rossoneri contro la Juventus. È una specie di regalo che l’allenatore Carlo Ancelotti fa a lui e ad altri cinque compagni di Primavera, anche per preservare i titolari in vista della sfida di Manchester. Una presenza, e poi basta. Il Milan lo vende al Verona, in serie B. Firma un lungo contratto, ma gira in prestito tutta l’Italia: va in Puglia (Martina Franca) poi torna vicino casa, a Portogruaro. Quindi scende in Sicilia (Modica) e, risalendo, si ferma in Toscana, a Poggibonsi. A 26 anni, con ancora tre anni di contratto, decide di lasciare. Va in Interregionale e poco dopo inizia a lavorare come barista insieme al fratello. «Il calcio mi ha dato da mangiare, ma dopo c’è un’altra vita – spiega – La carriera un giorno finisce e bisogna avere la mentalità giusta per capirlo. Io ho solo anticipato i tempi perché non mi sentivo realizzato ma sfruttato. Non è stata una scelta facile, ma ora posso dirlo: è stata una scelta giusta».