IL RITORNO DELLA MINIERA

A Gorno, in provincia di Bergamo, un vecchio giacimento dismesso di zinco potrebbe presto tornare in attività a causa dell’onda lunga della guerra in Ucraina

di Simone Dagani, Novella Gianfranceschi e Lucrezia Goldin

My name is Charlie, aveva imparato a dire Modesto Varischetti una volta arrivato in Australia. Charlie era più facile del suo nome, più anglofono e meno italiano. Il 19 marzo 1907, come qualsiasi altro giorno, Charlie va a lavorare nella miniera di Westralia a Bonnie Vale. Durante il turno, un forte temporale allaga le gallerie sotterranee. Tutti i minatori riescono ad uscire, tranne uno. Varischetti  resta intrappolato al decimo livello dello scavo, rannicchiato in una tasca d’aria dove riesce a respirare. Passano nove giorni, poi, inaspettatamente, i sommozzatori lo tirano fuori. La miniera di Westralia viene rinominata miniera Varischetti. 

Come Charlie, all’inizio del Novecento, tanti uomini andarono in Australia in cerca di oro e zinco. Partiva soprattutto chi già conosceva l’attività mineraria. Varischetti era nato a Gorno, in val del Riso. Cresciuto tra le miniere di zinco e piombo che per secoli hanno scandito le giornate delle persone di questa stretta valle della provincia di Bergamo. L’estrazione di metalli è stata a lungo l’elemento distintivo di queste montagne. Almeno fino al 1982, data in cui è cessata l’attività mineraria.

 

A cambiare il destino della val del Riso, però, l’invasione russa dell’Ucraina del 2022 e la crescente consapevolezza della crisi climatica in corso. La volontà politica – almeno quella delle istituzioni europee e di altri Stati occidentali – sembra puntare a due obiettivi: emanciparsi dai mercati controllati da Paesi autoritari, come è successo per il gas russo, e soprattutto elettrificare e decarbonizzare il sistema energetico. Per realizzarli entrambi è necessaria un’intera tavola periodica dei metalli e serve trovare gli elementi in territori strategici e democratici.

Gorno, Italia. Tra il torrente Riso e le Prealpi bergamasche, 1500 persone vivono ancora in questo piccolo comune: dieci chilometri quadrati, 1300 metri di dislivello. A due chilometri dal centro, dopo una serie di tornanti affacciati sulla valle, si trovano le vecchie miniere. In auto si raggiungono in dieci minuti, ma i minatori ci arrivavano a piedi con un’ora di cammino. I binari su cui scorreva il carrello con la roccia per la successiva estrazione dei metalli sono ancora là. Lo sanno gli abitanti e, da qualche anno, lo sa anche Altamin, azienda australiana, che sta lavorando per rimettere in produzione la coltivazione mineraria della zona. La società è la stessa che ha presentato richieste di permessi di ricerca in Piemonte per cobalto e grafite e in Emilia Romagna, Liguria e Lazio per il litio. Per il progetto a Gorno, Altamin ha trovato come socio finanziario il fondo  Capital Advisory Appian: insieme hanno istituito una joint venture, Vedra Metals (Vedra, come la valle accanto alla val del Riso). Attualmente la società sta operando con una concessione di ricerca. «Un permesso da diciassette mila euro l’anno da versare nelle casse lombarde», fanno sapere dalle Regione.

La Lombardia è una delle regioni italiane più ricche di giacimenti, ma non è la sola. Nel sottosuolo dello Stivale (isole comprese) ci sarebbero 16 delle 34 materie prime elencate dalla Commissione europea come «critiche» per la transizione ecologica e digitale. L’elenco fa parte di un regolamento, il Raw materials act, approvato in via definitiva a marzo 2024. L’obiettivo di Bruxelles al 2030 è diversificare le fonti di approvvigionamento di questi elementi ed estrarne almeno il 10 per cento dai territori dell’Unione. Anche l’Italia, dunque, vuole fare la sua parte. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha dichiarato:  «Trent’anni fa l’Italia era un grande Paese minerario, poi abbiamo chiuso le miniere, ma ora dobbiamo riaprirle». Per il momento, però, si sta lavorando su soli due siti: il giacimento di fluorite a Silius in Sardegna e quelli di zinco a Gorno.

 

Secondo il World Economic Forum lo zinco, anche se non fa parte dell’elenco delle terre rare, è un materiale indispensabile alla transizione ecologica. Attualmente è il quarto metallo più usato al mondo, dopo ferro, alluminio e rame. L’uso principale è la zincatura, un processo di rivestimento che protegge ferro e acciaio dalla ruggine. È grazie a questo elemento se la torre Eiffel non arrugginisce, ma i rivestimenti in zinco svolgono un ruolo chiave anche nelle travi di sostegno dei ponti e nei binari ferroviari. Il materiale ha oggi applicazioni anche nello stoccaggio di energia e nelle tecnologie per la transizione ecologica. Le batterie a ioni di zinco sono considerate più sicure di quelle a litio in quanto utilizzano una chimica a base d’acqua, che evita la possibilità che la batteria prenda fuoco. I rivestimenti di zinco, inoltre, sono fondamentali per pannelli solari e pale eoliche. Una turbina eolica offshore (in mare) da dieci megawatt/ore – il cui numero è in aumento perché preferibili i minori impatti locali – richiede quattro tonnellate di zinco: l’acqua salata erode i materiali molto più della pioggia e dell’aria. Ancora, un parco di pannelli solari da cento megawatt/ore, sufficiente per alimentare 110mila case, richiede 240 tonnellate di questo metallo. Lo zinco, poi, è totalmente riciclabile: può essere recuperato e riutilizzato senza perdita di qualità. Le miniere più grandi di zinco si trovano in India, Alaska, Canada e soprattutto Australia.

Gorno-Western Australia. Il legame tra questo piccolo comune lombardo e l’Australia è ufficialmente riconosciuto dal gemellaggio con la città di Kalgoorlie Boulder, firmato nell’agosto del 2003. «Siamo andati in Australia e abbiamo incontrato i discendenti dei nostri concittadini che andarono per lavorare nelle miniere e quelli dei sommozzatori che salvarono Charlie Varischetti. Tutta l’Australia ricorda quella storia», racconta Giampiero Calegari, sindaco di Gorno. Di Varischetti nella val del Riso ce ne sono ancora. Nell’unico bar del paese, alcuni uomini si ritrovano per bere un bicchiere di bianco prima di pranzo. Il posto ha l’estetica dei rifugi di montagna: banconi e tavoli in legno, vino alla spina, bottiglie di grappa e liquori più o meno locali. La proprietaria, figlia di un minatore che ormai anziano trascorre le giornate a cercare funghi, serve caffè e calici di vino ai suoi avventori. Tra di loro anche Walter: «Tra i miei avi c’è Charlie, quel Charlie che tutti qua conoscono. Il mio cognome è Varischetti», dice sorridendo.

Il patrimonio culturale delle miniere di Gorno non è sempre stato considerato una ricchezza. «Dopo la chiusura del ‘82, le persone hanno iniziato a dimenticarsi delle attività estrattive della zona, essere figli di minatori non era visto come qualcosa da ricordare», racconta il sindaco. A credere da sempre nel valore della miniera, c’è, però, Fabrizio Scolari, figlio di minatore e tecnico strumentista dell’impresa mineraria. Scolari ha fortemente creduto nell’istituzione dell’ecomuseo, avvenuta nel 2009 grazie a fondi comunali e regionali. Nel paese, alle pendici del monte Grem, a chiunque si chieda delle miniere, la risposta è sempre quella di rivolgersi al signor Scolari. E infatti, il museo da lui gestito, curato e arricchito è un archivio vastissimo di storie, fotografie e pezzi provenienti dalle miniere della valle. Ci sono i cappelli riempiti di paglia, indossati per sentire se si toccava il soffitto di roccia prima dell’uso del casco, le foto delle donne, le taissine, impiegate all’uscita delle miniere a separare il metallo dallo sterile e, ancora, i diversi strumenti di perforazione. A far parte del progetto dell’ecomuseo, anche le gallerie sotterranee e visitabili di Costa jels. L’ambiente della miniera è unico: una temperatura costante di circa dieci gradi e una percentuale di umidità che consente la formazione di muffe che crescono solo lì. Con la protezione del casco e la luce di una vecchia lampada a fiamma, Scolari racconta con nostalgia i tempi lontani e faticosi della miniera. «Si lavorava tanto, ma tra i minatori si creava un forte legame, perché l’attività era dura e stancante e soprattutto perché la si faceva per una vita intera. Oggi questi lavori così identitari non esistono più», si commuove.

L’ecomuseo non è tutto quello che si può vedere della vecchia industria mineraria della valle. L’antica laveria – impianto del 1914 dove la roccia veniva frantumata, macinata e i minerali separati dallo sterile con acque e acidi – è oggi un edificio abbandonato e pericolante. Il genere di luogo che piace agli esploratori di strutture urbane, inaccessibili e semidistrutte. Nonostante il degrado architettonico, a Gorno c’è ancora un signore che si presenta come il custode della laveria. Una strada a fondo cieco conduce alla sua abitazione: da un lato la montagna, dall’altro il vecchio impianto.

Severo Guarinoni, è un anziano speleologo. Ha le mani sporche di terra e i vestiti induriti dal fango. La sua casa è un altro museo: una stanza è dedicata alle mappe e alle planimetrie delle cavità della zona, un’altra agli scarponi, alle corde e alle tute per andare in grotta, e un’altra ancora alle rocce e ai minerali raccolti. Tutto è custodito: immobile al trascorrere del tempo. Mentre si accende una sigaretta, Guarinoni ricorda l’infanzia passata a cercare l’oro e le speranze per il futuro prossimo delle miniere di Gorno: «Conosco bene il sottosuolo di queste montagne e cerco di dare una mano agli australiani che vogliono riaprire le miniere. Dico ai miei nipoti di studiare la geologia perché ci sarà lavoro anche per loro».

Se le attività estrattive dovessero ripartire, Vedra Metals, prevede l’assunzione di duecento lavoratori. Per adesso, il progetto è fermo alla valutazione di impatto ambientale. Quella del luglio del 2023, è stata ritenuta insufficiente dal Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica e ora Vedra sta lavorando per presentare una nuova versione.

A essere cauto sul progetto di ripresa dell’industria mineraria della zona è Scolari. «La valle è stretta, gli australiani dovrebbero fare lavori per allargare le strade e far passare i settanta camion che ogni giorno percorrerebbero la via per trasportare il materiale estratto». La questione sollevata da Scolari è anche quella della competitività con i mercati extra-Ue. «Nei Paesi dove gli standard ambientali e sociali sono più bassi, Africa, Sudamerica e Asia, estrarre costa meno».