IO SONO SABINA

Per la legge italiana non esiste, ma l'intersessualità è una condizione che vive un bambino ogni 4 mila nati. Questa è la storia di uno di loro

di Giulia Dallagiovanna e Felice Florio

 

 

 

 

 

 

Numeri precisi riguardo alle persone intersessuali nel mondo non ci sono, perché dipende anche da quali condizioni si scelgono di far rientrare in questa definizione. Le associazioni di attivisti calcolano che si stia parlando di circa 30 milioni di individui, esattamente quante sono le persone con i capelli rossi. Sabina Zagari è una di loro e questa è la sua storia.

Qualcosa non torna

Sabina cresce a Induno Olona, dove abita la sua famiglia, un paese di 10mila abitanti nella provincia di Varese, a pochi chilometri dalla Svizzera. Un’infanzia felice, un legame profondo con i genitori, le scuole elementari e i nuovi amici. Tutto normale, se non fosse per le periodiche visite alla clinica pediatrica dell’ospedale Gaslini di Genova, dove la bambina viene sottoposta a continui esami e controlli medici.

Sabina intuisce che qualcosa non torna, ma in famiglia si tace. Nemmeno ai nonni è stato spiegato perché la loro nipotina è diversa dalle altre. «I miei genitori avevano paura che se fosse uscita questa storia in un piccolo paese di provincia sarei stata bullizzata. Però ora posso dire che tutto questo segreto è stato un modo sbagliato di crescere», racconta. Il fatto è che la loro figlia è nata con un clitoride ipertrofico, cioè più lungo del normale, e con i testicoli ritenuti in addome. I medici le hanno diagnosticato la sindrome da insensibilità agli androgeni completa: il feto, che presentava i cromosomi maschili, durante la gravidanza ha “rifiutato” gli androgeni, perché il recettore di questi è rimasto inattivo. Il testosterone comunque presente ha di fatto trasformato gli ormoni in estrogeni, facendo sì che il bambino assumesse le caratteristiche anatomiche di una femmina, fatta eccezione per utero e ovaie. Viene definita anche sindrome di Morris e normalmente chi vive questa condizione si sente donna anche dal punto di vista psicologico. I medici consigliano così ai genitori di Sabina di intervenire sulla malformazione del clitoride, di rimuovere i testicoli ritenuti e di educarla poi come tutte le bambine. All’età di tre anni viene operata e inizia a sottoporsi a un trattamento ormonale sostitutivo per riparare alla carenza di ormoni, una volta tolte le gonadi che li producevano.

Prima media, prima crisi

Quando inizia a frequentare le scuole medie, Sabina si trasferisce con la sua famiglia ad Arcisate. Un paese ancora più piccolo, ancora più lontano da Varese e sempre più vicino alle Alpi svizzere. «Mi trovai in un contesto nuovo, con dei compagni completamente nuovi e lì iniziarono i veri problemi», ricorda. I coetanei, ma soprattutto le coetanee, entrano nell’adolescenza. Le prime cotte, i primi fidanzatini e i loro corpi che piano piano rivelano forme da donna. In Sabina dodicenne inizia una grande confusione. Non si sente affine né ai bambini, né alle bambine, come se fosse in sospeso fra due mondi. Si moltiplicano le domande ai genitori, che le intimano di comportarsi come le sue amiche. Un ruolo ben definito, che la ragazzina non sempre riesce a ricoprire alla perfezione. E allora si fa largo un forte senso di inadeguatezza: «Non capivo chi ero e mi vergognavo. Non mi piacevo, ma cercavo di farmi piacere dagli altri». Una delle ragioni per cui i medici consigliano di intervenire chirurgicamente nei primi anni di vita riguarda proprio l’educazione del bambino e le pressioni dell’ambiente in cui dovrà crescere. «Come fa un genitore a pensare di lasciare un bambino con ambiguità genitale?», si chiede il professor Giuseppe Chiumello, direttore della clinica pediatrica del San Raffaele di Milano, «Come lo veste? Come lo tratta mentre aspetta la maggiore età? Come maschio o come femmina? Teniamo conto che i nonni, gli zii e poi gli amici a scuola esercitano una certa dose di pressione». Argomentazioni logiche e comprensibili, ma che per Sabina non sembrano funzionare.

Mentre tutti attorno a me si sviluppavano, io mi ricordo che portavo un numero di scarpe molto piccolo, non mi cresceva il seno e non avevo le mestruazioni

Vestivo panni che non erano miei. Mi ultrafemminilizzavo

Stare con qualcuno, quando non si sa chi si è

Il rapporto con la sessualità per una persona che non ha mai capito esattamente chi sia è quanto meno complicato. Ma per Sabina, così come per molte altre persone intersex della sua generazione, le difficoltà aumentano quando si parla di genitali ambigui che sono stati operati, “aggiustati”, resi più simili agli organi ai quali siamo abituati. Le associazioni per i diritti della persone intersex li chiamano interventi di «chirurgia cosmetica», perché non hanno a che fare direttamente con la salute del paziente, ma solo con il suo aspetto fisico. A 19 anni deve esserle ricostruita una vagina, perché quella che ha è troppo stretta per permetterle di avere rapporti. «Fu un intervento doloroso e faticoso», ricorda, « che non migliorò la situazione, anzi la peggiorò». Dovrà infatti aspettare altri 20 anni, prima di poter avere una prima vera relazione completa con un’altra persona. «Io posso anche dire di essere stata fortunata», aggiunge, «ma ci persone intersessuali che sono state operate e che non riescono ad avere una vita sessuale come la intendiamo comunemente».

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Quando crolla il mondo addosso

«Mi chiedevo: ho cromosomi maschili, ma un aspetto femminile. Avevo una confusione in testa che non finiva più».

Che cosa le era successo davvero, Sabina lo scopre attorno ai 18 anni. Appassionata di informatica fin da bambina, fa una ricerca sulle Bbs – un software che permetteva ai computer di connettersi con utenti esterni – e s’imbatte in un gruppo di supporto americano dove si parla di una condizione nella quale si riconosce quasi perfettamente. La sindrome di Morris, appunto. Le tornano così alla mente le spiegazioni parziali che medici e genitori le avevano dovuto fornire ogni volta che le sue domande diventavano insistenti. Ricomponendo i pezzi, il puzzle è completo. Ma Sabina si è ormai calata completamente nel ruolo di donna, e quindi in prospettiva di moglie e madre, e questo per lei è l’ennesimo colpo. «La cosa che in quel momento mi diede più dolore, e ora mi viene da sorridere se ci penso, era il fatto che non potessi avere figli. Come se quello fosse il problema più grande». Per scegliere come educarla, i suoi genitori hanno ascoltato i consigli di psicologi e specialisti, che a loro volta agivano seguendo il protocollo John Money. Si tratta di una teoria secondo la quale l’identità di genere è piuttosto fluida nei primi anni di vita, per cui se un individuo viene educato come femmina, una volta cresciuto si sentirà una donna. Money, psicologo neozelandese, la formulò negli anni ’70, mentre seguiva il caso David Reimer, un bambino canadese che era stato riassegnato al genere femminile dopo aver perso il pene durante una malriuscita operazione di circoncisione. Il bambino fu cresciuto come Brenda, ma dall’età di 15 anni non accettò più l’identità che gli era stata imposta e scelse di vivere come ragazzo. Si sottopose a una nuova serie di interventi e terapie ormonali, ma non riuscì mai a far pace del tutto con la sua condizione e nel 2004 si suicidò.

La tossicodipendenza per sentirsi parte di un gruppo

Sapevo benissimo come funzionavano gli schemi all’interno di una società e di conseguenza nelle nostre menti: o maschio o femmina. Facevo fatica io ad accettarmi, come potevo pretendere che mi accettassero gli altri?

Nella vita di Sabina è stato tutto un susseguirsi di «diagnosi», «sindromi», «operazioni», «terapie», «malformazioni». La conseguenza può essere solo una: è malata da quanto è nata. Nonostante i suoi genitori abbiano cercato di curarla, non è ancora guarita. E allora non resta che «auto medicarsi». Per attenuare il senso di inadeguatezza che la opprime fin dalla prima adolescenza, inizia a far uso di droghe, che le danno l’illusione di essere finalmente parte di un gruppo. «Secondo le statistiche, che chiaramente non sono esaustive, si registra un aumento del consumo di sostanze stupefacenti fra le persone intersessuali che sviluppano un’identità di genere diversa rispetto a quella che gli è stata assegnata artificialmente», spiega il dottor Manlio Converti, psichiatra e attivista Lgbt.
«A causa della condizione che si trovano a vivere, di marginalità sociale e a volte anche familiare, subiscono quello che viene chiamato disturbo da stress per il minore. Questo può causare in seguito un disturbo post-traumatico da stress, i cui sintomi sono proprio disturbi del comportamento alimentare, stato ansioso-depressivo, tentativi di suicidio e sviluppo di dipendenze», aggiunge. Sabina inizia ad assumere droghe poco dopo la seconda superiore, che frequenta in un liceo di Varese. Dall’iniziale benessere per un senso di appartenenza ritrovato, passa in poco tempo a periodi di depressione sempre più intensi, acutizzati dalle sostanze.

I mancati suicidi

«Ogni volta in cui arrivavano dei momenti in cui io cercavo di femminilizzarmi sempre di più, poi seguivano dei periodi in cui stavo malissimo perché mi rendevo conto che stavo fingendo una vita che non era la mia», racconta Sabina. E proprio durante queste fasi depressive prova più di una volta a togliersi la vita. Il primo tentativo arriva dopo l’intervento di ricostruzione vaginale. Da un lato gli psicologi che avrebbero dovuto aiutarla non comprendono in pieno la situazione, dall’altro lei non riesce a parlare con nessuno di quello che sta vivendo, bloccata da un senso di vergogna. Così in Sabina, sempre più disarmata in un mondo che le impone di conformarsi come donna, torna a farsi viva la sensazione che qualcosa ancora non torni.

Una vita di operazioni

Dai tre ai 19 anni Sabina subisce tre interventi agli organi genitali, vari controlli endoscopici e una terapia ormonale sostitutiva che prosegue tutt’ora. Dopo la rimozione delle gonadi ritenute in addome, infatti, viene meno una consistente parte di produzione di ormoni sessuali che deve quindi essere reintegrata, per non pregiudicare la salute e lo sviluppo delle ossa. I medici hanno stabilito che lei è una femmina e di conseguenza le somministrano gli estrogeni, senza i quali non le sarebbe nemmeno cresciuto il seno. Il nocciolo della questione è proprio questo: è corretto operare un bambino di pochi anni, nato con genitali ambigui, anche se non ci sono rischi per la salute? Secondo il professor Chiumello «la decisione dev’essere presa rapidamente, perché più il bambino cresce più aumentano le pressioni da parte della famiglia e dell’ambiente che lo circonda». Ma aggiunge: «ogni diagnosi sbagliata o non fatta, che può portare a una riattribuzione del sesso dopo i due anni di vita, è sempre una catastrofe dal punto di vista psicologico». Nelle situazioni dove è più difficile capire quale genere sia prevalente, a scegliere è un team composto da psicologi, endocrinologi, pediatri, neuropsichiatri infantili e urologi. Nel percorso decisionale vengono poi coinvolti i genitori, ma per evidenti ragioni di età il minore non può sapere quello che sta succedendo attorno a lui. I medici seguono una prassi stabilita dal Consensus Statement di Chicago, pubblicato nel 2006, che fra le altre cose, sostiene che un paziente nato con Dsd può diventare una «persona sana» e che la pressi per un trattamento ottimale di queste patologie prevede innanzitutto l’assegnazione di un genere. «Ci basiamo sul Consensus perché non abbiamo altri punti di riferimento, ma in questi 11 anni è cambiato il mondo» fa notare il professor Emilio Merlini, direttore di Urologia pediatrica dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, che prosegue, «abbiamo ad esempio identificato il genoma umano. C’è quindi la necessità di scrivere nuove linee guida». Nel 2016 l’Italia è stata ammonita dal comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che ha indicato gli interventi sui bambini intersessuali come vere e proprie «mutilazioni genitali». Ma per il professor Merlini il discorso è complesso. «I Dsd comprendono una marea di situazioni diverse e a volte ci si mette anni per capire a quale si è di fronte. Nel caso di pazienti geneticamente femmine che hanno un problema di iperproduzione di testosterone dal surrene, che fa loro assumere tratti maschili, sappiamo che nel 92 per cento sono donne a tutti gli effetti e quindi si può intervenire senza avere dubbi. Si tratta della maggior parte delle condizioni. Ci sono poi altri casi nei quali l’attribuzione è più difficoltosa e non abbiamo elementi sufficienti per sostituirci alla decisione della persona». Su Sabina, all’età di soli tre anni, hanno scelto di intervenire chirurgicamente. Questo fa sì che un’idea completa di come sia effettivamente fatto il suo corpo riesce ad averla solo a 37 anni, quando finalmente viene a conoscenza di tutte le operazioni subite, ritrovando le cartelle cliniche che il padre aveva meticolosamente conservato.

 Mi dicevo: sei la diversa fra le diverse

Nuova scoperta, nuova crisi

Nel 2008 Sabina si sottopone a una mappatura genetica del genoma e grazie a quella arriva il secondo duro colpo da sopportare. Non si tratta di sindrome di Morris, ma di deficit di 5 alfa reduttasi, una condizione ancora più rara. Significa cioè che il suo corpo non ha quell’enzima che produce il diidrotestosterone, la forma più attiva del testosterone che, fra le altre cose, fa assumere ai genitali le caratteristiche maschili. Quindi non solo è stata operata, ma è sempre stata curata per una sindrome diversa da quella che realmente aveva. «Oggi sappiamo che chi ha un deficit di 5 alfa reduttasi presenta genitali molto femminilizzati alla nascita, ma che alla pubertà virilizzano e manifestano un’identità sessuale prevalentemente maschile», spiega il prof. Merlini. «Molti di loro sono stati fatti diventare femmine in passato e hanno poi dovuto affrontare dei grossi problemi psicologici e psichiatrici». A questo punto verrebbe spontaneo dire che Sabina è nata maschio, ma non le è mai stato permesso di diventarlo. Però non è così semplice. Il problema sta proprio nel voler inserire una persona all’interno di una delle due categorie con le quali siamo abituati a ragionare: uomo-donna. Sabina dice di aver vissuto tutta una vita prigioniera delle definizioni e che ora preferisce rispettare se stessa così com’è. «La piena consapevolezza di chi ero l’ho raggiunta solo un anno fa. Mi sono finalmente detta che non c’era nulla di sbagliato in me. Vado bene così e va bene non definirmi».

La comunità e la svolta

Nel 2014 Sabina entra al Crest di Cuveglio, una comunità di recupero per tossicodipendenti. Sono 20 anni ormai che fa uso di sostanze. «Non avevo più nessun altra possibilità», riconosce, «se non avessi preso questa decisione, sarei morta». Gli psicologi che seguono lei e gli altri ragazzi intuiscono che il problema di Sabina è oltre la tossicodipendenza e che il suo malessere deriva dalla quella condizione che non è mai riuscita ad accettare. Viene affidata a esperti esterni, che avevano le competenze per poterla aiutare. Il sentirsi finalmente capita e la fiducia che i responsabili del Crest le accordano permettendole di uscire periodicamente fanno sì che piano piano inizi una fase inversa, di rinascita. «È stato il percorso più bello della mia vita, perché è arrivato in un momento drammatico in cui mi definivo una vittima e ne sono uscita da sopravvissuta», afferma.

Il rispetto del corpo

Dopo il mancato suicidio, le avevano dovuto rasare i capelli a zero per lasciar guarire le ustioni. Un periodo in cui aveva anche perso molto peso, perché mangiava poco e continuava a far uso di sostanze. «Un giorno», racconta Sabina, «mentre ero con delle amiche alla stazione di Varese, un gruppo di ragazzi ci passarono vicino e uno di loro chiese agli altri parlando di me ‘ma secondo voi è un ragazzo o una ragazza?’. Mi ferì molto. La stessa cosa è capitata di nuovo il giorno del gay pride di Varese, nel 2016, dopo essermi rasata i capelli di mia volontà. Ma questa volta mi ha fatto sorridere».
Ora Sabina rispetta il suo corpo, ma non ci sta a parlare di “accettazione”. Si accetta qualcosa che non è esattamente come vorremmo, mentre lei ora si sente bene esattamente così com’è. Una conquista, dopo anni di confusione, segreti, vergogna e depressione.
C’è ancora qualche intervento che vorrebbe fare, ad esempio una mastectomia riduttiva, ma sa che questi cambiamenti ormai possono aspettare. E in ogni caso, in Italia c’è un problema: il fatto che per la legge le persone intersessuali non esistano, fa sì che un intervento del genere venga definito di chirurgia estetica e quindi svolto privatamente, con i costi che questo comporta.

In Italia non sono molte le altre associazioni alle quali una persona intersessuale può rivolgersi

INTERSEXIONI

Un collettivo fondato a Milano nel 2013 che organizza seminari, convegni e incontri per informare riguardo al tema dell’intersessualità

INTERSEX ESISTE

Sito web aperto con l’appoggio del Centro Europeo di Studi sulla Discriminazione allo scopo di fornire risposte sul tema a utenti intersessuali e non

AISIA

Associazione italiana sindrome da insensibilità agli androgeni: sono un gruppo di volontari che mette le famiglie in comunicazione fra loro, per costruire una rete di informazione e supporto.

Le associazioni e l’attivismo

Ho capito che era necessario mettermi in gioco se volevo che lo facessero anche gli altri. Ci sono ancora tante persone intersex che si vergognano.

Nel 2016 Sabina legge di un bambino al quale è stato ricostruito un pene, in un ospedale di Palermo. Alle sue orecchie suona come un intervento speculare a quello che aveva subito lei. Scatta così la voglia di dire basta e di combattere apertamente la sua battaglia. Con l’aiuto di Arcigay Varese, di cui aveva già fatto parte nel consiglio direttivo, organizza la Giornata della consapevolezza intersex. Per la prima volta, Sabina racconta la sua storia davanti a tutti. Uscire allo scoperto, non essere più invisibili. Comincia così il suo percorso da attivista. Seguono un altro evento a Torino assieme ad Alessandro Comeni, un altro attivista intersex, e poi la Intersex Conference di Vienna, con partecipanti da tutto il mondo. A marzo del 2017 Sabina e Alessandro Comeni hanno fondato OII Italia (Organizzazione intersex internazionale), la prima organizzazione italiana composta esclusivamente da persone intersessuali, costola di OII Europe.

I diritti civili per le persone intersex

In tutto sono 10 gli stati nel mondo dove le istituzioni hanno preso in considerazione il riconoscimento del terzo sesso. Solo in cinque però può essere indicato anche sui documenti. In particolare, gli attivisti italiani vorrebbero una legge simile a quella approvata a Malta nel 2015. Muovendo il cursore sulla mappa si può vedere il tipo di legislazione sulla materia negli stati che la prevedono.

Com’è la situazione in Italia?

«Nel momento in cui fosse accettata la presenza di un terzo sesso, potrebbe esserci una riduzione del numero di interventi. Ma stiamo parlando di una vera e propria rivoluzione culturale», prof. Emilio Merlini, urologo

«Esiste un piccolo numeri di casi sui quali si sta facendo avanti, anche fra i chirurghi e gli urologi, l’ipotesi di poter aspettare prima di procedere all’assegnazione del sesso», spiega il prof. Merlini, «la legge italiana, però, non ce lo consente, perché entro tre mesi il bambino dev’essere registrato all’anagrafe come maschio o femmina». Il problema sta tutto qui, nella giurisprudenza e nella società, che l’intersessualità semplicemente non la conoscono. Per la stessa ragione, non esistono neanche numeri precisi riguardo alle persone intersex nel mondo. Secondo i medici, i nati con l’iperplasia cortico-surrenale, la sindrome più diffusa, sarebbero circa uno su 400, mentre per le condizioni più rare si scende a uno su 4mila. Le associazioni parlano di un totale di 1,7 per cento della popolazione mondiale. Una di loro, Radicale Certi Diritti, che si occupa fra le altre cose di promuovere la libertà e la responsabilità sessuale delle persone, ha formulato in Novembre un’interrogazione scritta al Ministero della salute, affinché fornisca i dati sulle nascite di bambini che presentano genitali ambigui. «Senza una raccolta di dati, viene pregiudicata la possibilità di creare una letteratura casistica e quindi di sviluppare una ricerca scientifica che abbia lo scopo di migliorare la vita delle persone intersex», spiega il segretario Leonardo Monaco. La richiesta non ha ancora ricevuto risposta. «Il fatto è che non lo possono sapere», fa notare il dott. Converti, «perché il bambino alla nascita viene necessariamente dichiarato maschio o femmina e, nel caso di genitali ambigui, viene operato seguendo l’identità indicata sulla cartella clinica, come se si correggessero delle malformazioni. Come si fa quindi a segnalare che si è operato un individuo intersessuale?»

Una proposta di legge in questo senso esiste. È stata redatta dall’associazione Avvocatura per i Diritti LGBTI – RateLenford e presentata durante la legislatura del governo Gentiloni su iniziativa del senatore Sergio Lo Giudice, ma non è ancora stata calendarizzata. Si chiede che il neonato non venga sottoposto a trattamenti medico-chirurgici, che i genitori lo registrino con il sesso che appare come prevalente, ma che poi la persona possa richiedere l’attribuzione del genere nel quale si riconosce veramente. «La possibilità di modificare il proprio sesso è riconosciuta dalla legge 164 del 1982, introdotta per regolare la condizione delle persone transessuali. La sua applicazione, anche ai casi di intersessualità, però, obbligherebbe la persona a doversi sottoporre all’articolato percorso di supporto terapeutico sia psicologico che medico-sanitario. Appare evidente la distanza rispetto alle necessità della persona intersex che potrebbe non avere alcuna necessità dell’intervento chirurgico, né del sostegno psicologico», spiega l’avvocato Marco D’Aloi, attivista Lgbt ed esperto in Diritto Civile. Senza una legge, anche i medici hanno le mani legate. Non potendo dichiarare il paziente di genere neutro, devono fare un’attribuzione tentativa del genere, in base a quello che appare come prevalente. E in seguito eventualmente procedere a una riattribuzione, sempre tramite terapie e interventi. Il problema non riguarda solo la registrazione del neonato, ma anche il rapporto con i genitori del bambino che vogliono sapere se è maschio o femmina. «E se noi diciamo che non lo possiamo ancora capire, possono cercare altri medici finché non trovano qualcuno che gli dia una risposta certa e intervenga subito chirurgicamente. E magari sbaglia e poi si scopre che invece l’individuo cresciuto si riconosce nell’altro genere», fa notare il prof. Merlini e aggiunge, «Si avverte proprio la necessità di un cambio culturale importante, cioè dell’accettazione di un terzo sesso». Rispetto, cambiamento culturale, ma prima di tutto conoscenza. Se quella di Sabina non fosse stata considerata una malattia, ma una condizione, dai medici così come dalle persone attorno a lei, forse la sua vita avrebbe assunto una piega diversa. Quando il problema è la salute del neonato, bisogna intervenire sul corpo. Quando invece il problema è la pressione psicologica che il bambino potrebbe subire, bisogna intervenire sulla società.