La febbre del Gin

Un settore che cresce, le nuove distillerie indipendenti, come è cambiato il bere all'italiana

La febbre del Gin

Un settore che cresce, le nuove distillerie indipendenti, come è cambiato il bere all'italiana

di Virginia Gigliotti e Francesco Dalmazio Casini

37,5 °C, come la gradazione alcolica richiesta per il gin. 37,5 °C, come la temperatura che segna l’arrivo della febbre. Coincidenze? No. È la febbre del gin che da 10 anni a questa parte ha contagiato tutt’Italia.

I distillati di ginepro piacciono sempre di più, tanto da fare entrare gli italiani nel 2017 nella top ten mondiale dei consumatori di gin. Fenomeno che stupisce in un Paese come il nostro in cui fino a qualche anno fa al gin tonic si preferiva senz’altro un bicchiere di vino o un dissetante Americano. Tante le nuove distillerie indipendenti, ancora di più le etichette, per un totale di circa 1500.

È un’onda, una bolla, che è cominciata intorno al 2010 e che forse finirà. Quali e quante di queste attività sopravvivranno lo deciderà il mercato. Intanto, specie a Milano, dove la febbre alcolica scotta di più che nel resto d’Italia, si scommette sulla semplicità del prodotto e di tutto quello che c’è intorno, prima e dopo.

Mantra che accomuna produttori e venditori: essere riconoscibili, a tutti i costi. E se tutti raffinano, alcuni remano controcorrente: levano, semplificano, avvicinano. Perché si sa, less is more. Meno è meglio. Per alcuni produttori il futuro del gin potrebbe essere questo: poche botaniche, piccole distillerie indipendenti, chilometro zero, locali specializzati. Si affidano, forse, a una delle comparse più famose del gin nella cultura pop. In quel singolo chiamato Supersonic che nel ’94 lanciò gli Oasis di Noel Gallagher e che in apertura recitava «I need to be myself, I can’t be no one else, I’m feeling supersonic, give me gin and tonic».

Quanto scotta la febbre: i numeri del consumo di gin

Ma quanto gin bevono gli Italiani? Un po’ più dei tedeschi, molto meno degli spagnoli. Nella classifica dei dieci paesi che consumano più gin l’Italia arriva nona, con un totale di 0.14 litri per persona all’anno. Circa trenta gin tonic a testa in 365 giorni. Consumi ridotti rispetto a quasi tutti i cugini europei, ma in netta crescita anno su anno. Nel solo 2020 secondo Iri la produzione è cresciuta di circa il 25%, il valore del settore addirittura del 33%.

A farla da padrone sono ancora i colossi stranieri, da Bombay a Hendricks, ma sono moltissime le distillerie italiane che si sono lanciate sul mercato nell’ultimo lustro. Parliamo di almeno 300 attività. Dal sardo Wild Gin, della distilleria Sardinia, passando per l’umbro 4312, prodotto dall’Anonima Distillazioni. Un percorso da sud a nord, fino in Alto Adige dove la distilleria Roner produce lo Z44, che al ginepro aggiunge le pigne di pino cirmolo.

Secondo Fulvio Piccinino, che al gin italiano ha dedicato una vita oltre che una monografia (Il gin italiano, Graphot 2018), «ci sarà ancora una crescita in questo settore e ancora per 2-3 anni i marchi aumenteranno. Poi il mercato selezionerà le “bufale” e ci sarà uno smaltimento, come è successo per il fernet». Per il momento però le etichette continuano ad aumentare, anche grazie all’enorme varietà offerta dai prodotti locali (botaniche), che permettono di creare miscele sempre nuove. «Alla fine la cosa bella del gin è che puoi dare spazio alla fantasia, c’è chi ci mette la alghe o le gardenie del giardino. Ognuno cerca di dare una sua interpretazione, una sua storia», conclude l’esperto.

Distillare poco, distillare bene

«Ciò che distingue un gin artigianale da un prodotto industriale è quello che racconta di chi lo produce e del perché viene fatto». Eugenio Belli ci spiega così la sua “filosofia del gin”, che nel 2018 lo porta ad aprire Eugin, la prima distilleria indipendente della Brianza. A nemmeno un’ora dal centro di Milano, a Meda, Eugenio ha trasformato in lavoro quella che dal 2014 è stata una sua grande passione: «Avevo 26 anni, mi ero laureato in Filosofia e dovevo decidere cosa fare da grande. Mi sono detto “proviamo” ed eccoci qui, ma non senza qualche intoppo burocratico».

«Produciamo solamente otto tipi di gin, tutti realizzati con la tecnica del London Dry, tranne uno che è uno Sloe Gin», ci racconta Eugenio, seduto su uno sgabello di legno in stile postindustriale. Lo ha costruito lui stesso, come anche gli scaffali, le librerie e il bancone che arredano il suo hangar eco-friendly. «La mia è un’elaborazione tradizionale, che usa un alambicco a bagnomaria, un metodo di riscaldamento molto delicato» prosegue, indicando un enorme marchingegno di rame alle nostre spalle.

La distillazione è un processo semplice. Dentro l’alambicco all’alcool si aggiungono le botaniche, che grazie al calore rilasciano i propri aromi. Nel caso del gin sono tre gli elementi che non possono mancare: il ginepro, i semi di coriandolo e la radice di angelica. Basterebbe questo per fare un distillato di tutto rispetto.

Come ci spiega Eugenio, quando si parla di gin non c’è limite alla creatività: «Si può fare con qualsiasi cosa sia commestibile, basta che si abbini bene. Io per esempio uso i licheni, le primule, l’ortica, le nocciole e la corteccia di quercia». Tutti ingredienti che cambiano in base al periodo dell’anno. Degli otto prodotti dell’offerta di Eugin, quattro infatti fanno parte di una linea stagionale: primavera, estate, autunno, inverno.

«Ho pensato di riportare nella distillazione quello che in cucina si dà ormai per scontato, ovvero utilizzare ingredienti di stagione, possibilmente a chilometro zero», prosegue. In pratica, riprodurre nel gin gli odori che caratterizzano ciascuna stagione dell’anno. Il ricordo della primavera si traduce nei sentori morbidi sprigionati dai fiori messi nell’alambicco accanto al ginepro. L’estate nella nota fermentata dell’erba appena tagliata.

“I prodotti artigianali sono mediamente più cari. Per me devono avere un qualcosa che giustifichi il prezzo»

E mentre la versione autunnale sembra essere quasi scontata, con l’utilizzo delle caldarroste e il loro sentore di fumo, quella inverno è più concettuale. «Di che cosa sa il bosco quanto non c’è nulla?», si chiede e ci chiede Eugenio. «Sa di terra, muschio e legno umido. Sa di sottobosco». Aromi che possiamo aggiungere al nostro distillato.

Come accade quando si parla di prodotti distillati artigianali, si tratta di versioni a tiratura limitata, quasi risibile dal punto di vista commerciale. Non potrebbe essere altrimenti. Eugenio ci racconta che è lui in persona che raccoglie o coltiva gli ingredienti utilizzati nel suo gin. «Voglio che la mia storia rimanga credibile e voglio anche mantenere il massimo controllo sul mio prodotto. È fantascienza pensare di raccogliere primule sufficienti per 3mila bottiglie di primavera». In definitiva è una questione di capire che cosa si sta comprando, al prezzo a cui lo si sta comprando.

«I prodotti artigianali sono mediamente più cari. Per me devono avere un qualcosa che giustifichi il prezzo». Per il nostro distillatore molti gin industriali, dal Tanqueray al Beefeater, sono ingiustamente bistrattati dagli appassionati, nonostante siano gin di qualità. Perciò attenzione, artigianale non vuol dire necessariamente migliore. È il caso, ad esempio, dell’hand made portato all’estremo, ovvero la moda del gin fatto in casa. Se a farlo sono persone inesperte o incaute il prodotto potrebbe essere non solo cattivo al gusto, ma anche pericoloso.

Il gin fatto in casa, infatti, viene realizzato spesso per macerazione, compound o bathub, procedimenti che non includono la barriera termica e fisica della distillazione. «Nella distillazione ciò che è termolabile (ovvero che ha tendenza ad alterarsi sotto l’azione del calore, ndr) viene distrutto e le molecole più pesanti vengono filtrare. Nella macerazione invece tutto quello che metti dentro si ritrova nel prodotto finito», conclude Eugenio. Quindi occhio ad acquistare online uno di quei kit da piccolo distillatore e simili.

Da Salerno alla Gran Bretagna: le origini del mito

Il gin nasce a Salerno nell’XI secolo. Almeno questo dice la leggenda che con un pizzico di campanilismo scegliamo di riportare. Sarebbero stati i frati benedettini della locale scuola medica i primi a distillare dalle bacche di ginepro una bevanda alcolica per la cura degli infermi. Ma gli storici, tra cui Piccinino, avrebbero qualcosa da precisare: «Secondo me parlare della scuola salernitana come precursore del gin è un po’ generoso. È un collegamento che possiamo fare, ma il gin deve macerare in alcool, mentre lì lo maceravano in vino». E poi c’è un problema concettuale: «per capire quando nasce il gin come lo intendiamo noi, bisogna fare una distinzione: medicinale e prodotto voluttuario»

Per questa seconda accezione bisognerà aspettare ancora qualche altro secolo. Sul trono francese c’è il Re sole, su quello inglese la dinastia degli Hannover e ai due lati opposti della Manica si inizia a bere il gin come digestivo, per il gusto di farlo. Anche se le tendenze sono opposte. Sulla sponda francese il jenever serve a dare il benvenuto agli ospiti nei salotti di regnanti e aristocratici. Su quella inglese, a Londra specialmente, inizia quel periodo folle noto come “gin craze”.

Con 45 milioni di litri di gin prodotti ogni anno e i relativi disordini sociali, il Regno rischia di essere trascinato nel baratro dall’iconico distillato di ginepro. Dall’alcolismo al contrabbando, le storie che si raccontano sono terribili: si narra addirittura di donne che arrivavano a vendere i propri figli per poter acquistare una bottiglia di gin. È solo nel 1751 che il governo inglese decide di mettere fine a questa situazione di degrado, emanando il Gin Act. Saranno i distributori più grandi, e vicini al trono, gli unici a poter produrre il gin.

Seguono alterne vicende. Durante il proibizionismo in America (1920-1933), il gin vive un paradossale momento di gloria. In casa il Whiskey non si può fare, il rum nemmeno a parlarne. Per fare il gin invece basta una vasca da bagno dove lasciare le botaniche in infusione. Diventa così il distillato preferito dei contrabbandieri e quello più in voga negli speakeasy. Tanto che gli Stati Uniti resteranno affezionati al gin anche dopo la fine del proibizionismo.

Oltreoceano cominciano gli anni d’oro della miscelazione e le star di Hollywood si mostrano sul grande schermo con in mano il loro Martini Cocktail. Vesper Martini (con l’aggiunta di vodka) nel caso dell’iconico agente segreto James Bond interpretato da Sean Connery. È grazie a questi mostri sacri del cinema che i cocktail a base di gin, e il concetto di miscelazione in generale, arrivano in Italia.

«Nel nostro Paese non c’era la cultura dei cocktail, perché eravamo abituati a bere prodotti lisci come grappa, amaro e vermouth. Bisogna aspettare gli anni ’60 perché i grandi marchi inizino a importare il gin per fare il Martini cocktail e il Gin tonic, ormai divenuti veri e propri status symbol», racconta ancora Piccinino. Insomma, un viaggio di 900 anni intorno al mondo prima di “tornare a casa”.

Il gin d’autore punta sul less is more

Tre botaniche. Salvia, limone, rosa di navasco. Dentro una lattina che ricorda quella dell’olio motore. Engine è il gin di produzione italiana più venduto nel nostro Paese, un progetto ambizioso, che mette insieme tre mondi: agroconsumo, alcolici e moda.

«Volevo creare qualcosa che non esistesse in tutto il mondo degli spirits, a partire dalla confezione e del liquido all’interno per creare un prodotto che potesse piacere a tutti, non solo ai gin addicted». A parlare è Paolo Dalla Mora, CEO dell’azienda nata solo nel 2019 ma già un’istituzione, tanto in Italia quanto all’estero.

Siamo in zona Tortona, cuore pulsante della Milano del design e della moda, in uno dei tipici fabbricati che ospitavano fino a qualche decennio fa le industrie per cui il quartiere era famoso. Entrando nella sede dell’azienda nulla rimanda alla produzione di gin. Il bianco delle pareti, i colori sgargianti degli arredi di Seletti, le ampie vetrate e una moltitudine di lattine.

Un’atmosfera che ricorda quella degli headquarters delle mega aziende della silicon valley. Sotto le luci blu dello “speakeasy”, una cucina nascosta all’interno di una libreria ci viene offerto un Gin Tonic da dieci e lode, che ci ricorda il motivo della nostra visita.

«Nel panorama dei gin oggi esiste già tutto. Ci sono gin, come l’Hendricks, che arrivano a utilizzare anche quaranta botaniche. Io volevo creare qualcosa di nuovo e la mia idea è stata quella del less is more. Ridurre al minimo gli ingredienti, rigorosamente 100% italiani e biologici», continua della Mora.

Come dicevamo, non solo gin. Engine è anche una linea pret a porter di vestiti organici, la cui ispirazione è la stessa dell’involucro del distillato: il mondo dei motori. «Il packaging è il primo momento in cui un prodotto comunica verso l’esterno e noi volevamo farci notare», spiega l’imprenditore. L’immaginario è fatto di lattine di olii e carburanti, gare di motocross e veicoli da corsa, nel ricordo dei grandi miti degli anni ’80.

Gin Elettrico. Gin dell’Elefante. Gin “da pazzi”

Per fare il gin, dunque, serve tanta fantasia. Forse troppa ogni tanto.  L’Indlovu è un gin prodotto dai coniugi sudafricani Les e Paula Ansley che usa le botaniche contenute nello sterco d’elefante. Il colpo di genio è arrivato dopo un safari, durante il quale hanno scoperto che negli escrementi del pachiderma rimangono alcune varietà di frutti e fiori non totalmente digeriti dell’animale. Perfette botaniche per un gin “delizioso, boscoso e speziato”, come lo definiscono i suoi inventori.

Paese che vai, gin strano che trovi. Ad Amsterdam c’è invece il Cannabis sativa gin, un gin a base di canapa prodotto da Dutch Windmill Spirits BV. Una distilleria del Redlight District che lavora solamente spiriti contenenti cannabis sativa. I produttori ci tengono a far sapere che non contiene THC, il principio attivo che conferisce alla canapa proprietà psicotrope.

L’Italia non è da meno con il sardo Lampus, il primo e pluripremiato (Oscar Green regionali 2019, Sardinia Food Awards) gin elettrico del mondo. Lo produce l’azienda Fragus e Saboris de Sardigna di Frediano Mura, e ha una particolarità: dà alla bocca e alla lingua scosse elettriche a micro voltaggio mentre lo si beve.

Saper bere un gin tonic

Dal bicchiere al piatto, il Gin in cucina

«Un tagliolino al gin tonic, grazie». Se pensate che questo cocktail sia solo il protagonista della Milano degli aperitivi, allora significa che non avete ancora provato la cucina alcolica. Come quella di Al Tagliando, il bistrò e cocktail bar di Pietro Testa che punta solo su due prodotti, gin e tequila, sfruttati al massimo dal bancone alla cucina.

«Al Tagliando nasce da una collaborazione tra me e un imprenditore che ha voluto scommettere sulle mie idee. E così ho aperto un locale specializzato in gin e tequila, conditi con piatti preparati con gli stessi alcolici», ci racconta il proprietario. In cucina Pietro si diverte a inserire una sfumatura d’alcol all’interno dei piatti. Nel locale di via Eustachi, i cocktail fanno da ispirazione a una serie di ricette uniche: dai gamberi con spuma di Campari alla crema di tonica e limone con olio essenziale di ginepro per condire i primi. E per chi vuole restare light c’è anche una tagliata di pollo con tequila, ideale per accompagnare un fresco Margarita.

E poi ovviamente c’è il Gin tonic, anzi i Gin tonic: «Non esiste un Gin tonic classico, ma mille combinazioni di toniche e distillati. A seconda del tipo di gin che viene utilizzato avremo sapori e odori sempre diversi». Ed è proprio questo il trend del bere milanese: pochi prodotti con tante declinazioni usati con sapienza e fantasia.

Ed è proprio questo il trend del bere milanese: pochi prodotti con tante declinazioni usati con sapienza e fantasia. «Siamo però specializzati in miscele tradizionali, vecchi classici degli anni ’80 che per me sono di un’eleganza unica, tra cui Gin Fizz, Tom Collins, Charlie Chaplin, French 75».

E poi c’è una sezione dedicata al mitico Martini cocktail, in tutte le sue sfumature. «Secondo me è il drink a base di gin per eccellenza, il migliore per apprezzarne le qualità». E quale cocktail migliore per assaporare questo distillato se non uno che usa praticamente solo il gin?

Agitato, non mescolato. Ovviamente.