La GenZ della comunità ebraica a Milano:

sei storie tra senso di appartenenza e voglia di conoscere «cosa c'è fuori»

Giu 13, 2022

Introduzione

di Benedetta Mura e Maria Teresa Gasbarrone

Italiani, libanesi, egiziani, iraniani, azkenaziti, israeliani. La comunità ebraica milanese è un melting pot. Così la definiscono le persone che ne fanno parte. Soprattutto i più giovani, quella generazione Z che vuole guardare oltre il proprio riflesso, oltre la divisione culturale che da sempre ha caratterizzato la comunità di Milano. Sono proprio i ragazzi a voler abbattere i muri, fare nuove esperienze e scoprire un mondo nuovo e diverso rispetto a quello che sono abituati a conoscere tra le strade di Bande Nere, storico quartiere ebraico situato nella periferia a sud-ovest di Milano. Per raccontare al meglio questa realtà nelle sue infinite sfumature abbiamo scelto tre ragazzi e tre ragazze. Con loro faremo un viaggio tra le tradizioni, le origini e il loro modo di vivere la fede. Conosceremo la quotidianità e le esperienze di vita di Daphne, Ariel, Carlotta, Nathan, Nicole, Joseph. Sei milanesi doc tra i 19 e i 28 anni che guardano al passato con uno sguardo critico e al futuro con un forte desiderio di cambiamento. Tutto sta nelle loro mani. 

Ebrei residenti

Sinagoghe

Riti praticati (askenazita, sefardita, ben romì e italiano)

Storia della comunità ebraica nella città

A differenza di altre città italiane, Milano rappresenta un unicum per la storia della sua comunità ebraica. Qui gli ebrei sono arrivati solo molto tardi, nel XIX secolo, con l’ingresso delle truppe di Napoleone Bonaparte nella città. Prima di allora, gli ebrei attratti dalla dimensione commerciale ed economica di Milano, non potendo risiedere nella centro urbano, vivevano elle città vicine. A Mantova in particolare si era concentrata la più grande comunità ebraica della Lombardia. Non a caso la costruzione della prima sinagoga (l’attuale Sinagoga Centrale in via Guastalla) risale solo al 1892.

Praticante per scelta, la storia di Nathan Greppi: «Nella comunità ho trovato il mio posto»

Famiglia poco praticante e nessun contatto (o quasi) con la comunità ebraica. Il profilo di Nathan Greppi non è quello del giovane ebreo tradizionale, eppure oggi la comunità ebraica è tra le priorità nella sua vita. Unico consigliere per la città di Milano dell’Ugei (Unione Giovani Ebrei Italiani) e per “Hatikwa”, la rivista ufficiale dell’associazione, Nathan ha scelto di entrare a far parte della comunità quando era già adulto, a 22 anni, e da allora non se ne è più allontanato: «Nell’Ugei ho trovato il mio posto, è come una seconda famiglia per me».

L’incontro con la comunità è avvenuto quasi per caso, quando dopo un laboratorio giornalistico all’università Nathan ha iniziato a scrivere per “Bet”, il bollettino della comunità ebraica. Ogni suo passo all’interno della comunità Nathan lo ha mosso in totale autonomia rispetto alla famiglia. I suoi infatti, madre ebrea nata in Lettonia e cresciuta in Israele e papà cattolico di origini israeliane da parte materna, non sono mai stati molto praticanti e anche i rapporti con la comunità erano per lo più sporadici: «Rispetto alla maggior parte dei miei coetanei – racconta Nathan – ho fatto il percorso opposto, sono cresciuto in un ambiente non ebraico e poi ho deciso di entrare a farne parte. Ho sempre vissuto fuori da questo mondo e per questo ho ancora molto da imparare».

Dalla collaborazione giornalistica, prima con “Bet” e poi con “Hatikwa”, Nathan è diventato una delle anime più attive dell’Ugei. L’ingresso ufficiale è avvenuto nel 2021 quando, dopo due candidature andate a vuoto, è stato eletto nel consiglio dell’associazione. Ma il suo rapporto con la realtà ebraica non si esaurisce negli impegni politici e sociali: «Entrare a far parte dell’Ugei mi ha dato molte più occasioni di vita sociale di quanto ne avessi avute durante le medie e il liceo, ho trovato degli amici», Nathan non ha dubbi su questo punto, «le persone dell’ambiente sono molto accoglienti e ti giudicano soprattutto per il tuo impegno e il tuo lavoro. Questo è ciò che ti definisce, non conta se tu sia o meno praticante, aschenazita o sefardita, per loro sei della squadra».

Di ricordi felici vissuti in comunità Nathan ne ha molti. Alcuni anche legati alla sua infanzia: «Anche se non avevamo molti rapporti con gli ebrei della città, quando ero piccolo i miei mi hanno fatto frequentare la Shorashim, uno dei pochi posti in cui non ho incontrato bulli». Si tratta di un’associazione che organizza attività per bambini nati da matrimoni misti o da famiglie non praticanti. L’obiettivo è fare sì che i n piccoli non perdano del tutto il legame con quelle che sono le loro radici – in ebraico “shorashim” per l’appunto – ebraiche».

Eppure le radici ebraiche e la determinazione nel voler entrare a far parte della comunità non sono bastate – almeno in un primo momento – ad assicurare a Nathan un ingresso in comunità immediato e senza difficoltà. Sull’accettazione di un nuovo membro la decisione spetta al rabbinato centrale e nel caso di Nathan non sono mancati gli ostacoli e gli stop obbligati: «Mentre con i giovani mi sono sentito fin da subito a casa, con i rabbini e con i burocrati ho avuto qualche difficoltà in più. Vogliono essere sicuri al cento per cento che sei ebreo. Anche se io collaboravo con “Bet” da un anno e sapevano che mia mamma aveva insegnato nella loro scuola erano diffidenti».

Quello dei matrimoni misti è un argomento molto delicato, non solo per chi come Nathan proviene da una famiglia non strettamente praticante. Secondo l’ebraismo la discendenza è materna quindi sono soprattutto i figli di solo padre ebreo ad avere difficoltà nell’essere riconosciuti all’interno della comunità. In questi casi i bambini devono percorrere la strada del ghiur, un percorso di conversione le cui tempistiche e modalità sono decise di volta in volta dal rabbino. «Se un bambino non completa il ghiur da piccolo rischia di sentirsi emarginato e può avere delle difficoltà anche a stringere legami di amicizia con i suoi coetanei», spiega Nathan, «se la comunità allentasse queste restrizioni, forse avrebbe solo da guadagnarci».

Entrare a far parte dell’Ugei mi ha dato molte più occasioni di vita sociale di quanto ne avessi avute durante le medie e il liceo, ho trovato degli amici.

Nathan Bretti

Carlotta, una voce nel consiglio della comunità: «Ero la più giovane e non sempre venivo ascoltata»

Giovane, determinata e attiva in politica. Carlotta Jarach a soli 25 anni ha segnato uno spartiacque nella comunità, diventando la più giovane di sempre a rivestire il ruolo di rappresentante per le politiche giovanili all’interno del consiglio ebraico di Milano. «Era il 2019 e per me è stata un’esperienza intensa e significativa. È stato in quel periodo che mi sono resa conto per davvero di quanto la comunità milanese fosse frammentata e di quanto fosse difficile rappresentare tutti», racconta Carlotta che adesso a 28 anni lavora come ricercatrice di biostatistica all’Istituto “Mario Negri” e continua ad aiutare la comunità anche se non più in veste istituzionale. «Dovevo rappresentare e coinvolgere tutti i giovani ebrei di Milano, dai persiani ai libanesi, dai più conservatori ai meno praticanti. Era complesso mettere tutti d’accordo ma è un’esperienza che rifarei assolutamente». 

Essendo la più giovane nel consiglio ha dovuto interfacciarsi anche con persone più grandi, di altre generazioni e spesso con visioni diverse. «Quando ero nel consiglio ho notato che c’era un problema a fidarsi del pensiero di una ventenne. L’opinione di una ragazza di 25 anni veniva spesso taciuta o le veniva data meno importanza. Ma è un aspetto comune a tanti altri ambiti in cui l’essere giovani viene concepito come sinonimo di inesperienza e non si viene presi in considerazione quanto si dovrebbe». Carlotta, ebrea milanese doc, ha iniziato il proprio percorso politico e di rappresentanza già nel 2018, anno in cui è stata eletta presidente dell’Ugei. «Mi sono candidata un po’ per gioco, un po’ per scherzo. La carica è durata un anno ed è stata un’esperienza molto bella. Tant’è che oggi continuo a partecipare agli eventi quando posso». 

Eppure, l’attivismo di Carlotta nasce ancora prima di entrare a far parte dell’Ugei. I primi passi li ha mossi nell’Hashomer Hatzair, movimento scout internazionale fondato nel 1913 e ispirato al Sionismo socialista. È presente in diversi Paesi, da Israele agli Stati Uniti, dall’Austria al Messico e il nome viene dall’ebraico “Giovane Guardiano”. «L’Hashomer ha segnato la mia adolescenza», dice Carlotta che ha preso parte a questo movimento dopo aver iniziato il liceo, uscendo per la prima volta dall’ambiente protetto della comunità. «Mi ero iscritta al “Giovanni Berchet” dopo aver frequentato sia elementari che medie nella scuola ebraica. Dopo tutto quello che avevo imparato, tra ore di religione e di ebraismo obbligatorie, avevo capito chi ero. La mia identità in quanto ebrea era formata e avevo fatto il batmitzvah a 12 anni come ogni ragazza. Non c’era più il problema di uscire dal contesto ovattato della comunità. Quando sei sicura di quello che sei l’esterno non ti spaventa». 

Il percorso di Carlotta, però, è stato intenso e diverso da quello di altri ragazzi. Fin dall’inizio. In quanto nata da una coppia mista, in cui la madre non è ebrea, Carlotta ha dovuto sottoporsi al “ghiur”, il percorso di conversione all’ebraismo che per lei è stato “Catan”, piccolo. «Sono nata in un periodo in cui esisteva ancora il “ghiur catan”, per cui sono stata convertita all’anno di nascita. È stato più un percorso dei miei genitori. Adesso, invece, non è possibile farlo. Il cammino di conversione è lungo, con numerosi step da superare. Molte volte può risultare complicato e frustrante, soprattutto per un bambino».

Da presidente dell’Ugei, dovevo rappresentare e coinvolgere tutti i giovani ebrei di Milano, dai persiani ai libanesi, dai più conservatori ai meno praticanti. Era complesso mettere tutti d’accordo ma è un’esperienza che rifarei assolutamente.

Carlotta Jarach

Eppure, l’attivismo di Carlotta nasce ancora prima di entrare a far parte dell’Ugei. I primi passi li ha mossi nell’Hashomer Hatzair, movimento scout internazionale fondato nel 1913 e ispirato al Sionismo socialista. È presente in diversi Paesi, da Israele agli Stati Uniti, dall’Austria al Messico e il nome viene dall’ebraico “Giovane Guardiano”. «L’Hashomer ha segnato la mia adolescenza», dice Carlotta che ha preso parte a questo movimento dopo aver iniziato il liceo, uscendo per la prima volta dall’ambiente protetto della comunità. «Mi ero iscritta al “Giovanni Berchet” dopo aver frequentato sia elementari che medie nella scuola ebraica. Dopo tutto quello che avevo imparato, tra ore di religione e di ebraismo obbligatorie, avevo capito chi ero. La mia identità in quanto ebrea era formata e avevo fatto il batmitzvah a 12 anni come ogni ragazza. Non c’era più il problema di uscire dal contesto ovattato della comunità. Quando sei sicura di quello che sei l’esterno non ti spaventa». 

Il percorso di Carlotta, però, è stato intenso e diverso da quello di altri ragazzi. Fin dall’inizio. In quanto nata da una coppia mista, in cui la madre non è ebrea, Carlotta ha dovuto sottoporsi al “ghiur”, il percorso di conversione all’ebraismo che per lei è stato “Catan”, piccolo. «Sono nata in un periodo in cui esisteva ancora il “ghiur catan”, per cui sono stata convertita all’anno di nascita. È stato più un percorso dei miei genitori. Adesso, invece, non è possibile farlo. Il cammino di conversione è lungo, con numerosi step da superare. Molte volte può risultare complicato e frustrante, soprattutto per un bambino».

Che cos'è l'Hashomer Hatzair?

L’Hashomer Hatzair nacque dalla fusione di due gruppi, Hashomer (“Il guardiano”) un movimento scout sionista, e Ze’irei Zion (“I giovani di Sion”), un circolo ideologico che studiava il sionismo, il socialismo e la storia dell’ebraismo. Il principio alla sua base prevedeva che la liberazione della gioventù ebraica sarebbe stata raggiunta per mezzo dell’alia (“emigrazione”) in Palestina, dove il popolo ebraico avrebbe vissuto nei kibbutzim, una forma associativa volontaria di lavoratori, basata su regole egualitarie e sul concetto di proprietà collettiva.

Ariel e il sogno di Israele: «Sono nato a Milano, ma a Tel Aviv tutto sarebbe più semplice»

In ebraico si chiama “Aliyah” e solo nel 2021 ha coinvolto oltre 27 mila persone da tutto il mondo: è l’immigrazione degli ebrei in Israele, anche se gli olìm hadashìm – letteralmente i “nuovi arrivati” – preferiscono chiamarla più semplicemente “ritorno”. Tra i possibili futuri nuovi olìm c’è Ariel Ratzonel, 22 anni e il sogno di diventare un data scientist affermato, ma non nella città dove è nato. Una volta conclusi gli studi al Politecnico di Milano, dove frequenta in Master in Data Science, ha già in progetto di lasciare l’Italia e trasferirsi in Israele: «Lo faccio per le prospettive lavorative migliori, ma anche perché lì la vita per noi ebrei è molto più semplice».

Dalle feste alle abitudini alimentari, essere ebrei in una città come Milano e in genere in Italia, comporta una serie di difficoltà con cui fare i conti.  «Ci sono tanti aspetti legati alle nostre tradizioni che potrei riuscire a vivere a pieno solo stando in Israele. Anche nelle piccole cose, ad esempio in occasione delle feste. Lì tutti le celebrano, sono come il Natale per i cattolici, qui invece a Milano passano praticamente inosservate. Ma anche per le abitudini quotidiane, come quella di mangiare kosher. In Israele per noi è tutto più semplice perché tutto il cibo è certificato. Puoi mangiare liberamente, invece qui ovunque vada devo chiedere».

C’è anche un altro motivo dietro il progetto di costruirsi una vita in Israele, un motivo che Ariel condivide con diversi suoi coetanei: «Può capitare che scatti qualcosa con una ragazza non ebrea, ma io tengo tanto alla mia religione e già so che mia moglie quasi certamente sarà una donna ebrea». Mentre ne parla il suo sorriso a tratti imbarazzato fa immaginare che non è la prima volta che affronta l’argomento: «In Israele ci sono molte più ragazze ebree, forse potrebbe essere più facile incontrare la persona giusta». Secondo l’ebraismo ortodosso la discendenza si trasmette per via materna, ecco perché i matrimoni misti spesso preoccupano i più giovani. 

Il forte legame con l’ebraismo e con Israele, Ariel lo deve anche all’aver frequentato per anni i Bnei Akiva (in italiano “Figli di Akiva”). D’altronde il ritorno in Israele è uno dei precetti alla base di quello che è uno dei maggiori movimenti giovanili ebraici: «Il campeggio più bello che io abbia mai fatto è stato proprio quello con i Bnei Akiva attraverso l’intero Paese, da Nord a Sud», sorride nostalgico Ariel.

Tra gli altri ricordi della sua adolescenza ci sono gli anni trascorsi al liceo scientifico. Quella di non lasciare la comunità alla fine delle medie e di continuare nella scuola in via Sally Mayer per Ariel una scelta scontata: «Sia perché lì avevo tutti i miei amici, sia perché sono legato da sempre alle tradizioni dell’ebraismo, non vivevo mica in un ghettoo e non volevo lasciare quell’ambiente».

Ecco perché l’iscrizione in Ingegneria al Politecnico di Milano ha segnato uno spartiacque nella vita del ragazzo: «Era la prima volta in cui mi relazionavo con una classe di oltre 200 studenti che non erano di religione ebraica. Ovviamente anche prima mi era successo di conoscere ragazzi non ebrei, ad esempio grazie allo sport, », specifica divertito Ariel, «ma una cosa è vedersi un paio di volte a settimana, un’altra è condividere la quotidianità».

Lezioni, esami, e uscite nel week end. La vita di Ariel procede come quella di qualsiasi studente universitario. «È stato un cambiamento importante, ma non difficile. Certo le domande, soprattutto all’inizio, erano tante, ma non mi davano fastidio, anzi alcune mi divertivano». I suoi colleghi di corso non capivano ad esempio perché in certi momenti dell’anno si assentava – succedeva in occasione delle feste ebraiche – oppure perché il venerdì non usciva e non rispondeva ai messaggi: «Sono shomer shabbat, quindi dal tramonto del venerdì al sabato pomeriggio non posso uscire. E le feste migliori sono sempre il venerdì sera!». Poco male, quelli che erano dei colleghi curiosi sono diventati alcuni dei suoi amici più cari e le feste migliori ora le organizzano il sabato sera.

Ci sono tanti aspetti legati alle nostre tradizioni che potrei riuscire a vivere a pieno solo stando in Israele. Anche nelle piccole cose, ad esempio in occasione delle feste, o delle abitudini alimentari kosher.

Ariel Ratzonel

Joseph e gli scout laici dell’Hashomer: «Se sono quello che sono è anche grazie a loro»

«I valori dell’Hashomer mi accompagneranno per tutta la vita: non solo ebraismo, ma anche apertura e inclusione. Averne fatto parte mi ha insegnato a rispettare e a difendere i tanti modi di vivere la religione». Joseph Falco indossa una maglia blu che accarezza con cura: è la divisa del movimento  di cui fa parte da quando aveva solo otto anni. Ora di anni ne ha 20 e tutti gli impegni di una vita (quasi) adulta, come gli esami da sostenere in International Politics Law and Economics all’Università Statale di Milano, ma Joseph l’opzione di lasciare l’Hashomer non l’ha nemmeno mai messa in conto.

Di questo movimento (in italiano “Il guardiano”), che si definisce rispetto alle altre realtà giovanili ebraiche per il suo profilo laico, Joseph ha fatto suoi i principi ispiratori, ovvero ebraismo, socialismo e sionismo:  «La religione per me non è mai stato sinonimo di chiusura rispetto al mondo esterno, nonostante le difficoltà che pure esistono per un ragazzo ebreo, soprattutto da adolescente». Joseph le ha vissute in prima persona quando dopo la fine delle medie ha lasciato la scuola ebraica per frequentare il liceo fuori dalla comunità. «Vivere in un Paese come l’Italia in cui la tua religione è minoritaria implica  a volte  sentirsi indicato come quello “diverso”». La mente di Joseph torna ai primi mesi vissuti alle superiori,  «ma è proprio per questo che è necessario far conoscere il mondo ebraico all’esterno dei suoi confini».  Confini, racconta il ragazzo, che nell’Hashomer – di cui oggi fa parte come aiuto agli educatori – non sono mai barriere, tutt’altro. Un “safer space”, uno spazio ancora più sicuro, per Joseph l’Hashomer piuttosto questo: «Vogliamo che da noi chiunque possa sentirsi al sicuro, anche chi ha trovato in altre realtà delle difficoltà dovute ad esempio al suo orientamento sessuale o all’identità di genere. Vogliamo che tutti si sentano liberi di essere sé stessi». 

«Pur essendo profondamente legati all’ebraismo inteso come religione e popolo, cerchiamo di permettere a ognuno di vivere l’aspetto della spiritualità nel modo che gli appartiene». Un approccio che si concretizza, spiega Joseph, nel non seguire tutte le regole dell’ebraismo ortodosso. Ad esempio,  «le nostre attività non rispettano le norme dello shabbat, ma permettono a chiunque di rispettare il proprio livello di religiosità e quindi le proprie scelte o quelle della propria famiglia: abbiamo ragazzi ebrei shomer-shabbat, ovvero osservanti del riposo del sabato, ragazzi che non lo rispettano, e perfino giovani non ebrei».

«Non siamo però i soli a lavorare per dare espressione alle tanti voci che esistono nella comunità ebraica». Joseph si riferisce ad esempio all’associazione Magen David Kehet, il primo gruppo ebraico Lgbt in Italia, nato nel 2015 per rappresentare gli omosessuali all’interno della comunità ebraica e difenderne i diritti. Ma allo stesso tempo, ammette il ragazzo, continua a esistere un’area più tradizionalista e restia a un’interpretazione laica della religione. «Per quanto riguarda l’omosessualità ovviamente ci sono posizioni tra loro anche molto diverse. È un tema delicato e come per qualsiasi altra religione non è facile trovare un modo di accettare tutte le diverse sfumature dell’essere umano, però voglio credere che sia un obiettivo realizzabile. È questo il senso del mio lavoro qui».

Per quanto riguarda l’omosessualità esistono posizioni tra loro anche molto diverse. Come per qualsiasi altra religione non è facile trovare un modo di accettare tutte le diverse sfumature dell’essere umano, però voglio credere che sia un obiettivo realizzabile.

Josepeh Falco

Vivere in una bolla: la comunità ebraica vista da Nicole, tra chiusure, difficoltà e relazioni con non ebrei

«È come vivere in una bolla. Ci si sente parte di un gruppo, è vero. Ma si vedono sempre le stesse persone. All’inizio non sapevo nemmeno come fosse rapportarsi con gente completamente diverse da me, fuori dalla comunità ebraica». È sincera e senza filtri Nicole Karmeli, che a soli 19 anni ha già grande consapevolezza di sé e della comunità di cui fa parte. Durante la sua adolescenza ha avuto a che fare con numerose barriere culturali, abbattendole una dopo l’altra.

«Sembra semplice ma non lo è affatto dover spiegare a qualcuno che non posso uscire il venerdì sera perché c’è shabbat. Alle mie amiche di ginnastica artistica dovevo giustificarmi e spiegare che non potevo andare nei ristoranti dove cucinano solo carne alla griglia. Nascono un sacco di situazioni a cui non si è abituati se si vive solo con gente ebrea». E Nicole lo sa bene. Di origine persiana, ha sempre frequentato le scuole ebraiche. «Ho fatto asilo ed elementari alla Fondazione Josef Tehillòt, in cui ho ricevuto un’istruzione fortemente religiosa. Poi medie e liceo le ho frequentate nella scuola di via Sally Mayer, quella principale e di riferimento per la comunità», racconta Nicole che adesso è all’ultimo anno del liceo scientifico, pronta per la maturità e poi per l’università. «Molti ragazzi abbandonano la scuola ebraica, scelgono di andare in altri licei, sia perché ci sono pochi indirizzi tra cui scegliere sia perché l’ambiente è molto chiuso. Più si è dentro la comunità e più è difficile interagire con l’esterno. Quando ho cominciato a frequentare persone non ebree ho scoperto un mondo diverso. Vedo vite diverse. Ma queste cose le capisci solo andando via dalla scuola».

Nicole ricorda proprio quando gli amici al di fuori della comunità le chiedevano dello shabbat, cos’è, perché non poteva uscire. Una serie di domande a cui prima non era abituata a rispondere. «Non poter usare il telefono è una delle prerogative dello shabbat e questo non mi ha mai pesato. I miei amici non ebrei, invece, mi scrivevano su Instagram il sabato o mi chiedevano perché non ci fossi tutto il giorno. Alla fine gliel’ho detto che ero ebrea. Ma all’inizio no. Non so come l’ho giustificato, se ho fatto spallucce», racconta in maniera disinvolta Nicole. La sua è stata una scoperta verso l’esterno così come lo è stata anche per i suoi amici non ebrei, non abituati a privarsi della tecnologia anche solo per un istante. «A loro dico che shabbat è riposo dell’anima. Si stacca dalla tecnologia e da tutto il resto. Il fatto di stare in silenzio e rilassare l’anima è bello. Non usare la tecnologia, uscire, socializzare, non stare davanti alla televisione è rilassante, anche se quando lo dicevo alle mie amiche loro impazzivano solo all’idea».

Eppure la distanza di cui Nicole parla tra chi appartiene alla comunità e chi no, è presente anche tra gli stessi ebrei con origini etnico-geografiche diverse, dal Libano all’Iran, passando per Israele e l’est Europa. «Mio padre mi raccontava che già ai suoi tempi si vedeva molto la separazione tra i gruppi. C’era una forte divisione soprattutto tra libanesi e persiani», spiega Nicole che facendo un diretto paragone con il presente dice: «Nella mia classe ci sono delle volte in cui si esce tutti insieme però la divisione rimane. Negli anni si è attenuata perché la comunità è diventata sempre più unita però ogni gruppo continua a vivere la religione in modo diverso, con una propria sinagoga, preghiere e riti diversi. Ma non c’è odio, né scontro».

Insomma, persiani con persiani e libanesi con libanesi. Una divisione culturale che si rispecchia nelle relazioni, nelle amicizie e nella formazione delle famiglie. Ma non per Nicole: «Io voglio stare e uscire con tutti, non mi ritrovo mai in un solo gruppo».

Alle mie amiche dico che shabbat è riposo dell’anima. Si stacca dalla tecnologia e da tutto il resto. Non usare la tecnologia, uscire, socializzare, non stare davanti alla televisione è rilassante, anche se quando lo dicevo alle altre ragazze non ebree, loro impazzivano solo all’idea.

Nicole Karmeli

La storia di Daphne: «Mi sono allontanata dall’ebraismo per poi riavvicinarmi»

Ha 23 anni ed è una social media manager. Daphne Zelnik, milanese di nascita e romana di adozione, ha alle spalle un lungo percorso religioso, partito su una linea più conservatrice e osservante ma che poi ha cambiato direzione. Nata nel 1999 da padre israeliano e madre in parte ucraina e in parte libanese, è cresciuta nell’ambiente protetto della comunità. «Vengo da una famiglia molto osservante, abbiamo sempre praticato e mi rendo conto che da piccolina ero molto più religiosa di quanto lo sono adesso», racconta Daphne che tra infanzia e adolescenza ha frequentato i Bnei Akiva.

«Non mi sono mai trovata a mio agio. Al tempo non andavo nemmeno a scuola ebraica e i Bnei Akiva erano l’unico contatto che avevo con la comunità». Per lei è stato un periodo particolare, come per tutti gli adolescenti. Pieno di domande, dubbi e riflessioni che l’hanno portata ad allontanarsi da quel modo di vivere l’ebraismo per poi riavvicinarsi in modo diverso. «Me ne sono andata perché non mi piaceva la mentalità, molto chiusa, che non corrispondeva con il mio essere ebrea. La mia idea di ebraismo era ed è diversa, così a 19 anni mi sono avvicinata all’Ugei». In questa sua nuova esperienza Daphne voleva rientrare nel mondo ebraico, sentirsi vicina e viverlo in modo diverso, personale, libero, come dice lei: «Con un’altra visione, un nuovo approccio». Dal 2019 si è immersa a pieno in questo mondo ricoprendo numerosi incarichi come rappresentante della comunità Milano, membro del consiglio della tesoreria e anche del settore eventi e comunicazione. «Adesso, invece, sono responsabile per le attività legate allo sport e aiuto sempre nell’organizzazione di nuovi eventi».

Daphne, inoltre, ha sempre avuto un forte legame con Israele. Il suo sogno da piccola era quello di partire e arruolarsi nell’esercito israeliano. «Mio padre si era pentito di non averlo fatto. Quindi era un po’ una rivalsa per lui e per me. Ma ci vuole tanta motivazione, bisogna dedicarsi completamente allo Stato e avere una forza incredibile. Inoltre, per le donne gli anni di servizio obbligatorio sono minimo due». Crescendo, e soprattutto dopo essere entrata nell’Ugei, Daphne ha capito che la leva nell’esercito non era il percorso che avrebbe voluto per il suo futuro. «Ad oggi vivo a Roma, continuo ad essere attiva nell’Ugei quando posso. Ma mi piacerebbe sempre andare in Israele, non è un’opzione che ho abbandonato. Magari dopo che finirà la pandemia sarà tutto più semplice».

Ho lasciato i Bnei Akiva perché non mi sentivo davvero a mio agio, non mi piaceva la mentalità, molto chiusa. Non corrispondeva con il mio essere ebrea.

La Milano dei giovani ebrei

La mappa dei luoghi più frequentati dai ragazzi della comunità ebraica, dagli edifici di culto ai locali della vita mondana. Molti si trovano a Bande Nere, quartiere ovest della città e sede del ghetto ebraico della città.

Marco Camerini e i suoi studenti:  l’identità ebraica e la voglia di conoscere “cosa c’è fuori”

«Quando si tratta di organizzare una partita di calcio non mi sembra si facciano troppi problemi», sorride Marco Camerini, dirigente della scuola ebraica di Via Sally Mayer da gennaio 2022 e prima preside per quattro anni di quella torinese, mentre racconta come la frammentazione etnica tipica della comunità ebraica milanese non sembri avere troppi effetti sui rapporti tra i suoi ragazzi.

A Milano, l’eterogeneità etnica e culturale è una caratteristica della comunità ebraica, più che in altre città italiane. Ma questa frammentazione – tra ebrei italiani, ebrei di origini mediorientali o provenienti dall’Europa dell’Est – condiziona solo in parte la vita dei ragazzi. Anche se ovviamente ogni famiglia è a sé: «Alcuni gruppi, come quello persiano,  tendono più di altri a chiudersi in sé stessi perché cercano di proteggersi e di tutelare le proprie radici e tradizioni», spiega Camerini, «creando delle comunità nelle comunità».

D’altronde per i giovani della Generazione Z la diversità è il pane quotidiano. Spesso in prima linea per la difesa dei diritti delle minoranze, sono diventati i sostenitori più appassionati di tante lotte sociali proprio in nome dell’inclusione e dell’accettazione dell’altro. «Noi ebrei dovremmo avere sempre rispetto verso dio e verso il prossimo. Ma a che serve studiare ebraismo, se poi non applichiamo gli insegnamenti nella vita reale?», è la logica tanto semplice quanto disarmante di Nicole e dei suoi soli 19 anni.

Avere venti anni nel 2022 e appartenere a una realtà che per sua storia e formazione tende ad avere un’identità marcatamente distinta dal mondo esterno può essere una sfida. Negli ultimi anni il numero di ragazzi che dopo le medie lasciano la scuola ebraica è aumentato in modo significativo. «C’è chi – spiega Camerini – decide di andare fuori perché nella scuola non c’è l’indirizzo che vorrebbe frequentare, altri invece hanno voglia di nuotare in un mare più ampio e aprirsi a una realtà più sfaccettata. In ogni caso, nel momento in cui c’è un calo di iscritti dobbiamo interrogarci per capire dove abbiamo sbagliato», riconosce Camerini.

I  ragazzi ebrei di Milano vivono le loro vite inseguendo ciascuno il suo sogno. Chi immagina di realizzarlo restando nel Paese che li ha visti nascere, chi invece si vede già tra quella che sente come la “sua gente”, in Israele, magari nella moderna Tel Aviv. È impossibile trovare una formula unica in grado di descrivere l’essenza di ciascuno di loro, così come non esiste un unico modo di vivere quella che più che una religione è un’identità storica e culturale. «Nell’ebraismo convivono tanti approcci che pur rimanendo nell’ortodossia ebraica sono molto diversi tra loro», aggiunge il preside.

Ma qualunque siano le loro origini e i loro progetti futuri, la curiosità verso il mondo esterno è un dato di fatto da cui non sono immuni nemmeno i giovani cresciuti negli ambienti più tradizionalisti della comunità. Se da una parte c’è chi come Ariel si trova perfettamente a suo agio in quel modo di intendere l’appartenenza all’ebraismo, dall’altra c’è chi come Daphne ha avuto bisogno di allontanarsene per trovare la sua dimensione per tornare a farne parte. «Ci sono tanti modi di vivere l’ebraismo», raccontava Joseph. E osservando più da vicino le loro storie, quelle degli ebrei adulti di domani, ce ne saranno ancora molti altri.