LA STREET ART È MORTA. VIVA LA STREET ART!

di Giacomo Cadeddu e Giulia Giaume

«L’Italia è sempre stata legata all’arte grafica di strada. Pensate alla battaglia tra San Giorgio e il Drago dipinta su Palazzo San Giorgio a Genova. Era la fine del quindicesimo secolo quando fu affrescato. Eppure è ancora lì». Per Philippe Daverio, gallerista e storico dell’arte, la passione per il dipinto parietale è insita nel dna del popolo italiano. Una storia raccontata per immagini, realizzata dove tutti possono fruirne. A ben vedere, in effetti, se negli anni sono mutate le tecniche di realizzazione delle opere, immutato è rimasto il concetto alla loro base.

La Fenice di Cristina Donati Meyer

28 febbraio 2020. Per le strade di una Milano che si appresta a trincerarsi nella lotta contro il coronavirus, compare una rivisitazione de Il Bacio di Hayez. I due protagonisti, però, non sono più liberi di sciogliersi in quel bacio che dal 1859 fa sognare generazioni di romantici. L’amore c’è, ma è velato dalle mascherine chirurgiche che indossano. Tra le mani, flaconi di amuchina. TvBoy li disegna così: anche loro sono pronti a combattere il virus. Negli stessi giorni, l’artista e attivista Cristina Donati Meyer realizza un’opera raffigurante il Duomo che rinasce dalle sue ceneri sotto forma di fenice. Se il terreno italiano è sempre stato fertile per l’arte di strada, ancor di più lo è stata la città di Milano, che in pochi anni ha visto la street art evolversi e mutare.

Nel capoluogo lombardo, quel filone artistico nato nei primi anni 2000 di opere in strada -prevalentemente su muro- che chiamiamo, appunto, streetart, si è evoluto ed è mutato più volte. All’inizio era sempre illegale. Poi le istituzioni e le grandi aziende si sono accorte che, sì, alla gente queste forme d’arte piacciono. E hanno iniziato a collaborare coi writer. Specie per le opere partorite a scopo commerciale, nella comunità artistica, si è aperto un quesito: possiamo chiamare streetart un qualcosa di slegato dal solo intento di essere fruibile al pubblico? E anzi, così sdoganata, la streetart è ancora viva?

L’interesse dei brand – Corso Garibaldi e Largo la Foppa,
cerniere che uniscono Porta Garibaldi e Moscova, sono un
esempio dell’evoluzione artistica dei muri della città. Le
pareti del Corso, a lungo cieche, hanno iniziato a prendere
vita quando Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci,
si è accorto nel maggio 2017 del potenziale che questa
arteria cittadina avrebbe potuto regalare al suo brand in
termini di visibilità. Così ha affittato lo spazio di 176 metri
quadrati sul muro di Largo la Foppa 4 che, stagione dopo
stagione, ha cambiato pelle e allietato l’occhio del viandante
più o meno distratto con un’opera sempre nuova. Più
precisamente, un murale. Pubblicitario. Il primo fu
commissionato all’artista inglese Angela Hicks, l’ultimo allo
spagnolo Ignasi Monreal. Da quel momento, sulla scia di
Gucci, i muri della zona si sono colorati sempre di più.
Sono arrivati Ermenegildo Zegna e Napapijri. Alfa Romeo,
Smirnoff Vodka e Bombay Sapphire. A molti quello che è
successo in Corso Garibaldi piace. Un po’ di anima e di
colore in una Milano che nell’immaginario collettivo viene
descritta, ancora, come “grigia” non può che risultare
piacevole. C’è chi fotografa le opere e le condivide su
Instagram con l’hashtag #streetartmilano, contribuendo
così ad aumentare il numero di post con questa tag
(ad aprile 2020, poco più di 30mila). Ma anche per chi
ci guadagna: i brand e le grandi multinazionali. E gli
artisti che, dalla commissione, ottengono buoni compensi,
nell’ordine delle migliaia di euro.

«L’importante è rimanere fedeli a sé stessi» – «Ho accettato un progetto con Porsche in programma per la Formula E perché improntato alla sensibilità e ambientato all’Eur, anche questa è streetart». A parlare è Greg Jager, creatore romano formatosi come graphic designer che non si definisce urban o street artist ma semplicemente artista. Per lui i graffiti e la streetart fatti a Milano, Roma e in altre città d’Italia non sono altro che fasi della carriera: «La ricerca di nuove forme espressive deve essere costante: io ho cominciato con i graffiti, e quando non c’era più innovazione sono passato alla tela». Sono molti gli artisti che accettano lavori da grandi marchi. Porsche commissiona spesso, non fa realizzare niente di troppo sfacciato e paga bene – 15mila euro per l’Eur, per il momento sospesi a causa coronavirus. Per gli artisti, abituati a vendere tele per alcune centinaia di euro l’una solo a galleristi e collezionisti consolidati, sono occasioni difficili da rifiutare. Accettarle è possibile senza essere dei “venduti” solo se si rimane fedeli al proprio stile.

Mondi diversi – Cinque chilometri a nord-est di Largo la Foppa, tra viale Monza e via Padova, c’è via Giovanni Pontano. A lungo sconosciuta ai più, quando era un punto di incontro per i writer milanesi e NoLo ancora non veniva chiamata così, è oggi uno dei luoghi più rappresentativi della Milano underground. Parte del progetto 100 muri liberi del Comune di Milano, la strada che scorre sotto i binari della ferrovia è pacificamente riconosciuta come un museo a cielo aperto: anche Google Maps la identifica come “galleria d’arte”. Qua ci sono opere di grandi nomi della street art, nazionale e internazionale. Ci sono passati Irwin, HotinPublic e AlfSour. Ci sono gli omini rosa in paste-up di Alùa. C’è la Sarita Colonia, santa popolare peruviana, dipinta da Sef01 e Hadok. Raptuz ci ha dipinto persino Il Milanese Imbruttito. Anche le foto scattate qui finiscono su #streetartmilano. Eppure, diversità tra quanto si vede in Corso Garibaldi e in via Pontano non mancano. Diverso è l’intento alla base: da un lato, una strategia di marketing e di comunicazione di grandi realtà aziendali che assoldano artisti provenienti, perlopiù, da esperienze di strada per dare un certo appeal al proprio brand. Dall’altro, un progetto in collaborazione con le istituzioni al fine di rendere fruibile alla collettività lo spazio pubblico. Differente è anche la gestazione delle opere. La libertà di idea e di disegno dei muri di Pontano non è la stessa lasciata a un’artista a cui un marchio chiede di collaborare, dando direttive importanti in termini di cosa e di come raffigurare.

Via Pontano panoramica
La Sarita Colonia di Sef01 e Hadok

Si può sempre parlare di streetart? – Corso Garibaldi e via Pontano sono due luoghi che non esauriscono il frammentato universo di muri e di idee che abitano tutta la città di Milano. Alcuni nati nell’illegalità più totale, basti pensare a via Watteau, casa dello storico centro sociale Leoncavallo. Qui campeggiano lavori del collettivo Volkswriterz, di Blu e di Pao. Altri in ambito legale, come tutti i progetti nel circuito dei 100 muri liberi. Al loro interno, alcuni hanno il solo- seppur non semplice- compito di rallegrare uno spazio o un vicolo vuoto. Altri sono mossi da finalità anche educative: l’enorme progetto Or.Me firmato dal collettivo Orticanoodles che racconta la storia di un quartiere, Ortica, attraverso la streetart. O AnthropOceano, l’opera a tema ambientale in via Viotti a Lambrate dipinta da Iena Cruz con la vernice Airlite, capace di assorbire lo smog nell’aria. E poi, ci sono le opere sotto compenso di grandi marchi, ma anche qui occorre distinguere. C’è chi lo fa in modo del tutto palese, vedi Corso Garibaldi, e chi meno, come è successo in occasione della Milano Music Week 2018 quando Porsche ha finanziato un murale in via Conchetta affidandolo agli Orticanoodles. Lì, però il logo del marchio non compare mai. Che si tratti, in ognuno di questi casi, di arte in strada, è chiaro. Ma si può parlare sempre di streetart?

Un universo frammentato – Da quando è arrivata in Italia sulla scia dei Paesi nordeuropei, dove nasce a inizio millennio, la streetart si è evoluta molto, staccandosi da un contesto libero e spontaneo per entrare nell’alveo di uno più o meno regolamentato. Clara Amodeo, giornalista e fondatrice di Another Scratch In The Wall, uno dei più importanti blog italiani sul tema, definisce l’ambiente ancora «farraginoso e non del tutto sedimentato nella storia dell’arte». I cambiamenti lasciano spazio, dice, a un universo di artisti frammentato in cui ognuno porta avanti il suo pensiero su cosa possa essere o meno l’arte di strada. Dove sia il discrimine tra arte e mera commissione, se abbia ancora senso parlare di street art come fenomeno unitario e onnicomprensivo. Oppure, se i tempi siano già maturi per arrivare a individuare delle nuove forme di arte da questa generate. Cosa sia oggi la street art, è difficile a dirsi anche per chi ci è dentro. Per Zibe, nome d’arte di Lionel Ducrey, infatti: «Il nome street art raccoglie tutto un pout pourri di elementi misti, non dovevamo farcelo andare bene negli anni 2000».

Il caso Banksy – «Se si vuole cercare una definizione di streetart – dice Amodeo – si guardi a quanto faceva Banksy nel 2002-2003. Nasce come un artista tra i migliori. Quella era vera streetart: critica sociale diretta, attraverso lo stencil. Oggi Banksy non è più nemmeno una figura singola, ma una società. Che ha fatto anche dei danni. Quando ha aperto il suo hotel in Palestina, il The Walled Off Hotel, ha esautorato la concorrenza per i competitor locali, giocando sul suo nome ma facendo un gesto che è tutto l’opposto di ciò che sarebbe alla base dell’arte di strada». Ma continuano a chiamarla così.

Il Walled Off Hotel di Banksy
Roma Amor per Fendi di Greg Jager

Compromessi sì, ma mai sullo stile – Per alcuni artisti il vero e proprio discrimine non è tanto nel ricevere una commissione “dall’alto”, quanto la possibilità di mantenersi fedeli al proprio spirito artistico: non diventare un imbianchino. «Quando ho acconsentito a realizzare la pubblicità “Stir Creativity” di Bombay Sapphire in Corso Garibaldi a Milano – ricorda Greg Jager – l’ho fatto perché abbiamo concordato un progetto che rispecchiasse la mia arte. Mi ci rivedevo. Quando ho realizzato “Roma Amor” per Fendi, loro volevano un logo enorme, che coprisse quasi tutto il mio spazio: io non ci stavo, e abbiamo contrattato fino a un nome molto piccolo e un’opera più mia». Allo stesso modo, quando Greg ha accettato i lavori pagati dal Comune di Genova (a Certosa) e dal Museo dell’Arte Contemporanea di Roma, ha seguito come prioritaria la sua onestà intellettuale. Anche Zibe non vede problemi nel mettere un prezzo alle proprie creazioni: «Io ho lavorato anche per le multinazionali, quando queste non mi sono sembrate “il male”: nessuno ti obbliga a scendere a compromessi, devi fare ciò che vuoi e lavorare prima di tutto per te stesso». Anche per lui accettare i lavori è possibile solo se questi rispecchiano il suo stile e la sua visione, come per la decorazione del bar sociale Rob De Matt a Dergano insieme alla moglie (art director, in arte Nabla). Gli dispiace – dice – che l’arte di strada sia dovuta venire meno alla sua purezza, ma questo, nel rap come nei graffiti, è stato inevitabile dovunque.

Metamuseo di Greg Jager al MacRo

Un litigio tra artisti – Zibe ha iniziato a sperimentare
con l’arte di strada durante il liceo, negli anni Novanta,
quando «il bello del creare era anche ritrovarsi negli stessi
luoghi, ascoltando musica e guardando i treni – si faceva writing
toccando i muri e misurando gli spazi». Lui che, come molti
colleghi, ha cominciato in particolare con il lettering (una
tecnica che si concentra sulla complessità delle lettere) durante
il liceo, si spinge anche più in là. Non avrebbe senso nemmeno
distinguere tra street art e writing (essenzialmente, le tag e non i
disegni murari): «Non esiste una distinzione – dice- è tutto frutto di
uno “scazzo” tra artisti». L’obiettivo è infatti sempre lo stesso:
prendere qualcosa con cui le persone non erano in contatto
e portarlo in strada in maniera spontanea, «anche violenta in un
certo senso». Non proprio il lavoro che fanno le nuove leve, dice:
«In molti non fanno lavoro di ricerca su strada. Cavalcano l’onda
ma hanno imparato dai tutorial: anche senza gavetta se conosci
la gente giusta puoi esporre in una galleria. Per me quella non è street art».

Decorazione del bar Rob de Matt, Nabla e Zibe
Decorazione del bar Rob de Matt, Nabla e Zibe

Paura istituzionale – Con un filo di amarezza Zibe pensa che il modo di distinguere la vera arte non sia possibile per chi non è esperto: «Avremmo dovuto istituire una specie di albo quando abbiamo cominciato, anche se forse non sarebbe stato mai possibile». A maggior ragione se quei lavori che vengono realizzati nella notte, con lo spirito originale di voler stupire, vengono rimossi come vandalismo. «C’è una paura istituzionale della bomboletta, ma quello che deve restare dell’esperienza della street art è proprio l’atto spontaneo», dice con convinzione, ricordando come la nascita del nucleo Anti-graffiti della polizia post-Expo 2015 abbia aggravato la percezione di chi fa writing: «Se fai parte di una crew per la legge sei passibile di associazione a delinquere». Il rapporto con le istituzioni, emerge dalle sue parole come da quelle di molti altri artisti, è conflittuale. I 100 muri liberi del Comune per Zibe non sono che un contentino e un ulteriore modo di controllare la libertà di espressione: «Perché devo per forza lavorare con le istituzioni? Per me tutti i lavori di commissione e grande muralismo non andrebbero inseriti nel “pacchetto street art”». Sono stati politici e forze dell’ordine a creare il mito del writer vandalico, sostiene, perché i primi artisti non avevano quell’intenzione, mentre ora «i ragazzini vanno fieri di aver rovinato monumenti e lavori altrui, cose sempre considerate off limits».

Gina Galeotti Bianchi di Frode

Un concetto scelto dai critici – Anche il milanese Domenico Melillo, avvocato civilista e artista noto con il nome di Frode, trova che il nome street art significhi tutto e niente, ma la sua opinione – anche in virtù della sua storia personale – è più severa sull’accettare i grandi lavori pagati: non sono street art. O meglio, Frode non crede che la street art come la intendiamo oggi sia mai esistita: «È un’accozzaglia di stimoli diversi riuniti sotto lo stesso nome dai critici: come agli impressionisti era stato assegnato un nome dall’esterno, anche agli street artist viene data un’etichetta da critici e collezionisti per metterci accanto un prezzo».  Frode, tra le bombolette più proficue di Milano -specie in zona sud- ha cominciato a 16 anni con il writing e ancora oggi si definisce writer e urban artist perché crea «cose fatte per restare in strada». Non crede che in Italia esista una netta distinzione tra muralist e bomber, cioè tra autorizzati e illegali, come negli Stati Uniti. Ci sono invece due anime: da una parte treni e muri “bombardati”, dall’altra gli spazi tollerati anche detti “hall of fame”, personali o collettive. I bomber puri sono pochi, e comunque spammano le loro creazioni sui social: la coerenza non è cosa umana. Per Frode la regola del writing è solo una: «restare illegale: altrimenti perde i connotati di critica sociale e si snatura diventando muralismo, che è un’altra cosa».

Dai muri al Tribunale – Melillo difende i colleghi dal reato di imbrattamento e danneggiamento regolato dall’articolo 639 del codice penale – con pene che spaziano dalla multa alla reclusione: «La mia difesa si basa sul fatto che manca l’elemento psicologico dietro l’accusa: non c’è volontà di distruggere». È la loro libertà di espressione a dover essere tutelata. Anche per questo ha portato in Parlamento, insieme al collettivo WiolaViola di cui fa parte, una proposta di legge che prevede che la pena non sia mai la reclusione e che i progetti di collaborazione non siano calati dall’alto. Il prodotto deve essere infatti sempre «frutto di un’esperienza e di una vera comprensione del linguaggio», sostiene. Per questo ha accettato lavori come la raffigurazione di Gina Galeotti Bianchi sul muro delle Donne Partigiane in Barona o Falcone e Borsellino a Lambrate senza pensare di stare venendo meno alla sua identità artistica. Per Frode è l’arte alta ad aver quindi manipolato la realtà della strada: da un lato si appropria delle opere esponendole senza l’autorizzazione degli autori (come è successo a Blu nel 2016) e dall’altro sostiene di starle rendendo fruibili per un pubblico più ampio. «Ma più ampio della strada, cosa c’è? Lì è gratis e rimane a disposizione della gente della città, a cui appartiene».

Articolo 639 di Frode

Dove c’è confusione, c’è vita – Le opinioni degli artisti sono diverse, difficili da racchiudere in un semplice dibattito fondato sulla presenza o meno di un assegno in tasca a opera finita. Certo è che il mondo della street art è attraversato da una molteplicità di stimoli che è, però, espressione della sua vivacità della strada e dei processi creativi: non è nemmeno possibile capire se la street art esista ancora o sia mai esistita. Lo stesso Daverio sostiene che «se il museo oggi rappresenta il luogo dove l’arte viene conservata, la strada può essere il luogo dove l’arte viene creata. Il mondo della strada è frammentato, confusionario. Ma dove c’è confusione, c’è vita. E questo è un bene».

Via Watteau panoramica