A nord di Gomorra

Più di 32 colpi, 134 arresti e un giro di droga che fruttava più di 200mila euro al mese.
Quattro luoghi diversi, quattro storie diverse di criminali milanesi che si ispiravano ai personaggi della famosa serie tv

A nord di Gomorra

Mar 14, 2018

di Daniele Polidoro e Federico Turrisi

Gomorra non è solo a Napoli. Gomorra è ovunque. Anche a Milano. È nei condomini dell’hinterland, quando il portiere ritira un pacco con delle maschere di carnevale, che poi serviranno per fare una rapina. È nei cortili di quei palazzoni a ferro di cavallo, dove giocano a pallone i bambini e dove dietro di loro si vende droga. La si sente nell’aria quando si va a fare benzina nel distributore dove, qualche ora prima, è stata rubata la moto del tabaccaio che vive lì vicino. Gomorra è così. La si trova sul treno che riporta a casa ogni giorno migliaia di pendolari. Quel treno frequentato tutti i giorni dalle stesse persone, che non battono più ciglio quando due ragazzini minacciano lo sventurato di turno per farsi dare portafogli e cellulare.

Queste non sono storie inventate o trascritte da una fiction. Questa è la Gomorra quotidiana che si vive pure al nord, filmata da quelle telecamere di sicurezza che Polizia e Carabinieri hanno usato per smantellare alcune cellule criminali liberamente ispirate ai più famosi romanzi e serie tv. Gli esperti lo chiamano appunto “effetto Gomorra”: una sorta di sindrome psichica che aumenta la nostra aggressività dopo la visione di alcune tipologie di serie tv che influenzano negativamente i nostri comportamenti. Lo sostiene uno studio della Drexel University College of Medicine di Philadelphia: secondo i ricercatori, il confine tra realtà è finizione può diventare sottilissimo e in contesti specifici può avere effetti devastanti.

A una manciata di chilometri dal Duomo, nella periferia nord di Milano, sono tanti i palazzoni dove la fiction è diventata realtà. Costruzioni piene di crepe, tende di plastica per ogni balcone: una statuetta della madonna quasi a vegliare il cortile. Passeggiando qua e là non è difficile ascoltare canzoni neomelodiche che arrivano da qualche finestra aperta. Una musica sovrastata di tanto in tanto dal rombo gracchiante di qualche motorino. Se non fosse per la nebbia, il paragone con Secondigliano e Scampia verrebbe automatico. E non solo per il degrado. Sembra, infatti, che la microcriminalità da queste parti subisca particolarmente il fascino dei personaggi raccontati da Roberto Saviano. Dal giorno della trasmissione dell’ultima puntata di Gomorra 2, datata 14 giugno 2016, fino al debutto della terza stagione andata in onda a dicembre, è aumentato in maniera vertiginosa il numero di dossier che le forze dell’ordine hanno archiviato sotto la voce “Stile Gomorra”. Più di 32 colpi, 134 arresti, un bottino che supera i 200mila euro e un giro di droga che fruttava più di 200mila euro al mese. Quattro luoghi diverse, quattro storie diverse, ma è sempre la stessa Gomorra.

Dai binari alle Vele

Facce da duri, dito medio in bella vista, banconote, armi da fuoco giocattolo. Come fossero dei malavitosi in carriera: figure da rispettare, da temere. Non sono camorristi, non sono nemmeno campani. Eppure subivano il fascino della “guapperia” dei personaggi di Gomorra, atteggiandosi a piccoli gangster. Da Scampia veniva la madre di uno di loro, che lo aveva abbandonato per tornarsene proprio a Napoli.

Anche lui era tornato a Scampia, ma per una sorta di pellegrinaggio noir con il suo amico per visitare i luoghi visti nella loro serie preferita e postare su Facebook dei selfie con alle spalle le famose Vele. Nella vita reale Marco Conti e Marco Percacciante, 19 e 21 anni, erano dei piccoli delinquenti. Tra il maggio e il giugno 2016 hanno compiuto almeno 7 rapine a bordo di treni regionali e nei pressi delle stazioni ferroviarie in un’area tra Brianza, Varesotto e Rodense. I loro bersagli erano soprattutto gli adolescenti: puntavano alla gola dei malcapitati un balisong, un coltello a farfalla, e si facevano consegnare portafogli e smartphone. I soldi servivano poi per acquistare cocaina al parco delle Groane, uno spazio verde di oltre 8mila ettari vicino alla cittadina di Seveso trasformato in un enorme outlet dello spaccio.

Il più giovane era cresciuto a pochi chilometri da lì, a Cesate, ed è stato arrestato dai carabinieri nella vicina Garbagnate Milanese, in un’abitazione abbandonata. L’altro invece era del “Satellite”, un quartiere popolare di Pioltello più volte finito sulle pagine delle cronache locali (e non): disoccupazione, violenza, degrado i termini più ricorrenti. Un contesto in cui è facile far germogliare nella testa dei giovani la convinzione che si possa accumulare denaro con il minimo sforzo, rapinando o spacciando.

La voglia di immedesimarsi nei propri idoli negativi però si è rivelata un’arma a doppio taglio.

Grazie a quelle foto in stile Gomorra condivise con orgoglio sui social network sono stati rintracciati e arrestati dai carabinieri. Ma c’è qualcosa di più rispetto all’emulazione? «La continua assimilazione di immagini cruente nelle serie tv, che trasformano in consuetudine il ricorso alla prevaricazione e l’aggressività nelle dinamiche interpersonali, può provocare nelle persone la cosiddetta “sindrome da Gomorra”, che influenza il nostro cervello emotivo». È questa la spiegazione dello psichiatra Michele Cucchi, direttore sanitario del Centro medico Sant’Agostino di Milano. Secondo il medico, «l’aggressività e la violenza che vediamo in televisione provocano disturbi non indifferenti nella testa delle persone, soprattutto degli adolescenti. Un esempio? I microtraumatismi generati danno gli stessi effetti che ricordano quelli di chi ha vissuto una guerra». Altri fattori sono legati allo sviluppo di idee fisse di bullismo e pubblico disonore, che potrebbero causare la perdita di controllo degli impulsi: «La società attuale è caratterizzata da alcuni aspetti come l’ostilità, l’egocentrismo e la diffidenza che segnano i nostri rapporti. Tutto ciò comporta una ricerca smodata di una legittima autodifesa anche attraverso l’uso della violenza».

«A capa mia nun è bona»

L’effetto Gomorra, dunque, sembra essere amplificato nei soggetti che già conoscono quei contesti che noi vediamo soltanto attraverso uno schermo. Già qualche anno prima di essere arrestato Yari Viotti condivideva su YouTube video in cui si depilava cantando in napoletano. Il titolo? «Senz pensier», ovviamente. Una delle frasi cult della serie. Quella musica, con il tempo è diventata la colonna sonora delle sue rapine. E pensare che Yari di napoletano non ha niente, essendo nato e cresciuto a Quarto Oggiaro. Se non fosse per quel tatatuaggio sulla tempia fatto qualche anno fa. C’è scritto: «A capa mì non è bona». Probabilmente, se l’avesse fatto oggi avrebbe le tre croci sul collo, come quello di Enzo Sangue Blu, protagonista di Gomorra 3. L’ammirazione per quel mondo si esprime anche nel look e nel modo di parlare: la cresta alla Genny Savastano è di moda tra questi particolari fan, così come il piumino scuro e l’occhiale da sole a specchio.

Con la sua banda Yari ha realizzato 25 rapine in banche e negozi e adesso è in carcere per tentato omicidio, dopo aver ferito a una gamba un carabiniere. La droga, i soldi spesi al casinò, le foto sui social con la pistola in pugno, la vita vissuta come i camorristi dei film: lui e i suoi comunicavano scimmiottando il dialetto napoletano, atteggiandosi ad alter ego dei boss della fiction. L’operazione che lo ha incastrato si chiamava “The mask”, perché per le loro rapine ordinavano su internet maschere in lattice: facevano irruzione in banche e supermercati, con il volto coperto, pistola e fucile in pugno. Per spiegare il suo modo di agire, ai suoi diceva: «Non uso mai la testa, io vado alla kamikaze».

Yari aveva iniziato con il suo amico Davide Graziano quando non erano nemmeno maggiorenni. Erano diventati subito noti alle autorità per essere dei veri banditi: folli e spietati. In realtà quel modello “kamikaze” di cui si vantavano, non era poi così improvvisato, anzi. Ogni colpo veniva studiato e messo a segno con lucidità. E anche quando le cose andavano male, riuscivano a fuggire senza problemi. Avevano anche allestito un piccolo arsenale con due pistole di calibro 9 e un fucile calibro 12. Il colpo più spettacolare lo hanno realizzato il 17 novembre 2015, alla filiale della Banca Popolare del Commercio e dell’Industria, in via Magenta a Cornaredo. Un conflitto a fuoco in pieno giorno, in mezzo ai passanti che cercavano di scappare.

Dopo i colpi in area sparati da uno dei militari, Yari e Davide non si sono fatti intimorire e hanno risposto con sei proiettili: uno di questi ha ferito a una gamba un carabiniere. A fermare la loro corsa è stata la squadra anti rapine del Nucleo investigativo, dopo un’intensa attività di pedinamenti e intercettazioni. Sono stati fermati mentre si dirigevano verso un garage di Baranzate di Bollate. Quel box era l’ultimo di una lunga serie: li cambiavano di continuo, per non lasciar tracce. Poi bruciavano tutto ciò che non serviva più. Oltre alle armi, lì i carabinieri hanno trovato anche un giubbotto antiproiettile, mezzo chilo di marijuana e quasi un chilo di cocaina. Le forze dell’ordine hanno stimato che dai loro colpi la banda delle maschere è riuscita ad accumulare più di 200mila euro. Il denaro lo spendevano al casinò di Campione d’Italia, o lo utilizzavano per acquistare auto e droga da rivendere all’ingrosso. Poi le passeggiate in via Montenapoleone e le notti brave con costose escort. Il 9 marzo 2018 Viotti è stato condannato con rito abbreviato a 20 anni, con lui il fratello Davide (3 anni e 2 mesi) mentre la condanna di Graziano è di 10 anni e 8 mesi.

Non è la prima volta che Quarto Oggiaro viene paragonata a “Gomorra”. A cavallo tra il 2010 e il 2011 un baby gang di quattro ragazzini tra i 12 e i 16 anni aveva messo a segno una decina di rapine. Alcuni di loro erano già conosciuti nell’ambiente criminale, essendo coinvolti in diverse operazioni antidroga: erano delle “sentinelle” al servizio del clan Carvelli, attivo nel traffico degli stupefacenti. Colpivano tra il cavalcavia del supermercato che porta alla stazione di Quarto Oggiaro e la stazione stessa. Rapine spesso molto violente: in una di queste, un giovane di 19 anni è stato aggredito con calci, pugni e testate. Sui loro smartphone sono state ritrovate foto in cui i membri della gang posavano a torso nudo con le armi in bella mostra. Si erano ispirati alla locandina di “Gomorra”, il film.

Il clan della Lomellina

L’ascesa dei criminali protagonisti di molte serie tv spesso mostra come si può arrivare a vivere nel lusso sfrenato dopo aver commesso reati di ogni genere: dallo spaccio di droga fino agli omicidi. Il carcere non fa paura, anzi: è quasi un vanto, una tappa del percorso formativo di un criminale, un’esperienza da aggiungere sul proprio curriculum: «Faccio un articolo devo finire sul giornale», diceva uno dei criminali intercettati dai carabinieri. Così si passa dall’essere “semplici” banditi ad appartenere a una vera organizzazione. Un clan. È stata ribattezzata la “Gomorra di Vigevano”: una vera e propria associazione per delinquere che prendeva ispirazione dai boss dalla serie tv e puntava al controllo dell’intera Lomellina. Il gruppo, composto da una ventina di persone, era specializzato in una serie di reati che va dalla rapina al traffico di armi, dall’estorsione allo spaccio di sostanze stupefacenti.

L’operazione “Cave canem” condotta dai carabinieri di Vigevano ha permesso di sgominare l’organizzazione criminale nell’estate del 2016 e un secondo filone di indagini ha portato a un’altra ondata di arresti nel marzo dell’anno seguente. Si erano armati fino ai denti per compiere il salto di qualità, non esitavano a intimidire negozi e bar che si sottraevano al loro controllo. “Plata o plomo”, in stile Escobar. A chi si ribellava veniva incendiato il locale. Sui social poi si vantavano delle loro azioni, postando foto e video. Il messaggio era chiaro: «qui a Vigevano comandiamo noi». Quando parlavano di droga usavano un codice: i “cani al guinzaglio” erano gli agenti in divisa, “senza guinzaglio” quelli in borghese.

Il denaro raccolto dalle estorsioni veniva reinvestito nella droga: la struttura organizzativa, secondo i carabinieri e i Pm di Pavia, trattava quasi mezzo chilo di cocaina e 5 chili di marijuana alla settimana. Il prezzo della cocaina variava dai 70 ai 90 euro al grammo, mentre la marijuana veniva venduta a pacchi da di mezzo chilo alla volta per 1500 euro. Le sostanze stupefacenti venivano nascoste all’interno delle casse di bibite che rifornivano gli esercizi pubblici e venivano smerciate nei locali della movida del centro di Vigevano e in altri bar della Lomellina, a insaputa dei titolari. Nel giro di un anno hanno consentito ai criminali di guadagnare quasi 200mila euro al mese. Gli arresti non solo avvenuti solo a Vigevano ma anche nelle località dei dintorni: Mortara, Gambolò, Garlasco. I canali di rifornimento della droga erano due: uno nell’Oltrepo Pavese e uno nel novarese.

Una doppia maxi operazione che ha portato all’arresto di 65 persone e quasi 90 denunciati in stato di libertà. Il clan ora è stato sgominato: si è concluso con 17 condanne e un’assoluzione il processo “Gomorra Uno” di Vigevano. Gli imputati, processati con il rito abbreviato, erano accusati a vario titolo di associazione per delinquere, traffico di armi, estorsioni, incendi attentati dinamitardi, rapine, truffe, furti e ricettazione. Le pene, inflitte dal Giudice Fabio Lambertucci, vanno da uno a dieci a dieci anni. Con altri 14 imputati è invece iniziato il processo per “Gomorra 2”, nato dopo la seconda operazione di marzo.

Vedette e assaggiatori: La famiglia di “Scianel”

Il processo realtà-finzione-realtà provocato dall’effetto Gomorra ha raggiunto l’apice la scorsa estate, quando un blitz della polizia ha smantellato un’organizzazione che gestiva lo spaccio all’interno del “fortino di Sant’Eusebio” a Cinisello Balsamo, alle porte di Milano. Qui, da decenni, vivono alcune famiglie malavitose provenienti da San Severo, in provincia di Foggia. Avevano messo in piedi una struttura di spaccio capillare, che prevedeva ruoli e mansioni come si vede nella serie. Sfruttavano la disposizione a ferro di cavallo delle palazzine Aler di via Alberto da Giussano per spacciare.

Le sentinelle in bici mandavano i clienti dai pusher che vendevano la droga sotto i portici, davanti a un dipinto di Padre Pio. Nelle oltre cinquecento pagine dell’ordinanza restrittiva, firmata dal gip Alfonsa Ferraro, si mette in evidenza la «professionalità d’impresa» di un business da 5 chili a settimana tra hashish, cocaina e marijuana con rifornimenti di merce da 40-50mila euro per volta.

L’organigramma comprendeva inoltre una rete di “assaggiatori” dirette da Ivan Bonin, detto «Palla di Lardo»: a lui il compito di controllare la qualità del prodotto.

A metterli in guardia da eventuali controlli della Polizia c’erano vedette pagate 10 euro all’ora (tra cui un minore arruolato dopo aver chiesto il permesso ai genitori) e pusher di strada. Si “lavorava” in giornate suddivise in turni pomeridiani e serali, con obbligo di puntualità: chi rientrava in ritardo perdeva la posizione acquisita nel tempo. Qui si tratta più di parallelismo che di emulazione. Il sistema infatti era già conosciuto alle forze dell’ordine prima dell’arrivo di Gomorra sui nostri schermi. Tra i loro rifornitori c’erano anche esponenti della ‘ndrangheta di Seregno, in particolare a Umberto Cristello. I “Savastano” dei palazzoni erano guidati da Luca Guerra, 26 anni, una vita dentro e fuori dal carcere. Sui suoi profili social una foto con un tatuaggio sul braccio: c’è scritto “Scianel”. Forse il soprannome della madre, Grazia Menischetti, 45 anni: la donna di potere dell’organizzazione. Sul suo diario di Facebook tante foto della sua “eroina”, la Scianel di Gomorra. Era conosciuta come «la cassiera»: a casa sua sono stati ritrovati 25mila euro murati in una parete.