Libra, una nuova stella nel segno delle criptovalute

A battere moneta non sono solo gli Stati: l’abbiamo visto con Bitcoin e simili, e presto lo vedremo con una nuova criptovaluta made in California. Libra, la nuova invenzione di Facebook prevista per il 2020, potrebbe essere l’ago della bilancia (letteralmente) per scollegare il sistema finanziario globale dalle banche. Questa moneta virtuale vuole dare accesso al mercato internazionale anche a chi non ha un conto in banca. Commissioni quasi a zero per i piccoli scambi, arriverebbe dovunque sia presente il social network di Mark Zuckerberg o uno dei suoi 27 illustri associati per il progetto, tra cui Visa, PayPal, MasterCard, Uber, Booking, Vodafone, eBay e Spotify.

Qualcosa di simile al WeChat cinese: una piattaforma per ogni cosa. Interazioni umane, acquisti online, fino al pagamento delle tasse. Lo scopo a lungo termine è la costruzione di una valuta parallela utilizzabile in tutto il mondo, soprattutto dove non si ha facile accesso ai servizi bancari, che possa essere sicura al pari di una moneta statale. La garanzia la mettono i nomi dei partner, che creano così una stable coin ancorata a degli asset (beni reali, come titoli di Stato e depositi bancari) affidabili. Con questo obiettivo, Libra partirà dalle app di Menlo Park, incluse WhatsApp e Messenger, per poi averne una propria e approdare nel mondo reale. Questo dopotutto è lo scopo di tutte le criptovalute – Bitcoin per prima.

Ma Bitcoin ha già tradito una volta
la fiducia degli investitori.
Facciamo un passo indietro.

«La rete ha da sempre un grosso problema di fiducia. Quando è stata inaugurato il prototipo di quello che poi sarebbe diventato internet, ogni user era identificabile e identificato: professori, membri del governo e ricercatori. La storia di internet ha però dimostrato il contrario»

Hunter Prendergast

Ingegnere blockchain

Nel 2009, sull’onda della crisi dei mutui sub prime (a ricordarvi cosa sono ci pensa Margot Robbie in una scena dal film “La grande scommessa”) la fiducia verso il sistema bancario era ai minimi storici: serviva un sistema per gestire il denaro senza intermediari. La risposta, i Bitcoin.

Un sistema di scambio di valuta anonimo, gratuito e senza banche. Il suo inventore, il fantomatico “Satoshi Nakamoto”, è uno pseudonimo: forse di un singolo, forse di un collettivo. L’unico contatto che ha avuto con il mondo è stata una raccolta di paper accademici, “Bitcoin: un sistema di valuta digitale decentralizzato e autonomo”, pubblicati all’interno del cosiddetto Libro Bianco. Alcuni hanno gridato alla rivoluzione, altri a un miraggio. Quello che Bitcoin ha introdotto è stata un’infrastruttura che permettesse a sconosciuti di scambiarsi denaro digitale con garanzie reali.

È la blockchain: un libro mastro digitale su cui si imprime ogni transazione che coinvolge la criptovaluta, immediatamente e indelebilmente.
Ma se è anonimo, chi custodisce l’intero storico delle compravendite?

Di norma un’autorità centrale come una banca, ma con questo sistema la garanzia di affidabilità non ha un custode unico: è su tutti i dispositivi su cui si appoggia l’infrastruttura, non si può modificare né eliminare. Sono tutti custodi del processo. Non sono centralizzate nemmeno le macchine che permettono alla rete di funzionare. Per mantenere in vita il libro mastro serve una significativa potenza di calcolo: qui entrano in gioco i miners. Letteralmente minatori, sono persone che decidono di fornire la potenza di calcolo dei loro computer per svolgere una parte di quei milioni di calcoli necessari per gestire le transazioni in criptovalute. Il compenso? Bitcoin, ovviamente.

Blockchain non basta a rendere Bitcoin una valuta “normale”. Deve avere un’ultima caratteristica: essere limitata. Precisamente, limitata a 21 milioni di monete virtuali. Non sono tutti minabili da subito: è troppo grande il rischio del monopolio della potenza di calcolo. Questo fenomeno per certi versi sta già avvenendo: compagnie e associazioni di privati hanno fatto incetta dei componenti specifici per la realizzazione di un computer con una grandissima potenza di calcolo (detto miner rig). Per regolarizzare il flusso degli interessi, una porzione predefinita di Bitcoin si sblocca ogni quattro anni e diventa minabile. L’ultimo blocco uscirà nel 2037 e i minatori, che ci mettono quattro anni solo a estrarli, li renderanno disponibili nel 2041.

Ma non siamo ingenui. Se il denaro digitale è anonimo sul web come i contanti nella vita reale, con le criptovalute basta una sequenza di cifre e lettere anonima e non duplicabile perché i movimenti online non siano mai rintracciabili. Una delle prime applicazioni di questa tecnologia è stato infatti l’acquisto di servizi illegali, dalle droghe ai codici craccati fino agli hacker a pagamento.

La fine di un sogno?

Nonostante le promesse di superare le bolle speculative generate dal sistema bancario, i Bitcoin ne hanno creata una tutta loro. Che nel 2017 è scoppiata. Non essendo ancorato a degli asset reali (come Libra), il valore dei Bitcoin è completamente legato all’andamento del mercato e alle sue leggi di domanda e offerta. Dal 2013 al 2017 il valore dei Bitcoin è cresciuto del 1000% arrivando a rappresentare la seconda entità finanziaria più grossa al mondo dopo Jp Morgan Chase (superando persino la Bank of America). Le monete singole erano passate dal valere 6 centesimi a 20mila dollari l’una, e tutto il mercato valeva 300 miliardi.

A quel punto i legislatori hanno iniziato a far circolare la voce di nuove regolamentazioni per controllarne la crescita, ed è iniziata una lenta valanga di vendite che ha portato il valore di una moneta da 20mila a 6mila dollari. Certo, si è ripresa: oggi vale 171 miliardi di dollari e può comprare arte, cibo e, in Italia, case. L’Agenzia delle Entrate è stata la prima al mondo a regolare queste transazioni nel 2016.

Se Bitocoin è la più famosa criptovaluta al mondo non è l’unica. Migliaia di varianti sono nate su ispirazione della creazione di Satoshi, e in alcuni casi sono andate oltre. Dalla moneta-burla Dogecoin (nata per scherzo ma che oggi vale mezzo miliardo) alla venezuelana Petro, basata sul prezzo del greggio, fino ad arrivare a Ethereum, seconda più popolare dopo Bitcoin e probabile portatrice di una rivoluzione nella rivoluzione.

Ethereum è una piattaforma decentralizzata per creare “contratti intelligenti”: protocolli informatici che facilitano, verificano e fanno rispettare la negoziazione o l’esecuzione di un contratto. Questi contratti possono essere usati per rendere sicura qualunque cosa: sistemi elettorali, mercati finanziari, proprietà intellettuale. Per poter funzionare sulla sua catena blockchain, i contratti di Ethereum pagano i minatori con una valuta interna detta “Ether”.

Bitcoin, considerata da molti «la più grande invenzione del mondo dopo internet», ha permesso la nascita di Libra.

La valuta di Zuckerberg ha assunto il procedimento diffuso di blockchain e il concetto di divisibilità della moneta: ogni Bitcoin è infatti riducibile all’ottava cifra decimale per ottenere “monetine” di piccolissimo valore. Grazie a questo valore infinitesimale, di cui ancora per Libra non si conosce l’entità, la nuova valuta intende posizionarsi su quei mercati dove le banche non arrivano e il denaro è iper-inflazionato: Africa, ma anche Asia e Sud America. Le banche che supportano Libra e credono nel suo investimento si vedranno ampliare così il bacino potenziale di utenti iscritti a Facebook ma senza conto in banca. Ma come si ottiene Libra? Grazie ai circuiti di MasterCard e Visa sarà possibile comprarla. Menlo Park ha rivelato però che, per far cominciare a “girare l’economia”, saranno rilasciate delle piccole quantità di moneta tra tutti gli utenti. Cominciando a usarla, questi potrebbero decidere di investire per comprarne ancora (anche per raggiungere chi non ha un conto bancario e viceversa). La blockchain di Libra sarà fatta su misura: la decentralizzazione passerà da nodi gestiti dai 28 partner (con la garanzia che nessuno avrà mai il controllo totale). Questo dovrebbe impedire le oscillazioni del valore e l’appalto del lavoro a terzi. Restano i dubbi per la gestione della privacy, anche dopo lo scandalo Cambridge Analytica, anche se Zuckerberg rassicura che la gestione no profit con base in Svizzera (attraverso la sussidiaria Calibra) controllerà strettamente le informazioni condivise sulle applicazioni.

Giulia Giaume

 

Riccardo Lichene