L'informazione al potere
Nella Milano del '68 lo scontro tra i media ufficiali e le voci della contestazione
di Valentina Iorio ed Elena Zunino
«Una tribù di capelloni fa lo sciopero della fame in cantina». I capelloni sono i redattori di Mondo Beat. E il titolo è del Corriere della Sera. Altri tempi, altre parole. È il 6 marzo del 1967 quando il primo giornale d’Italia, dalle rotative di via Solferino a Milano, racconta la contestazione giovanile. Quell’ondata di protesta che, di lì a un anno, avrebbe investito il mondo intero al grido di «l’immaginazione al potere». E che la stampa dell’epoca, anche la più autorevole, fa fatica a capire.
«Madre ritrova il figlio tra i capelloni», «Vivere a Nuova Barbonia». I protagonisti delle ironie dell’epoca sono sempre loro: i giovani che portano i capelli lunghi e indossano l’eskimo per ribellarsi ai padri, che ascoltano la musica degli «urlatori» e che praticano il libero amore. La loro voce è Mondo Beat, la prima rivista italiana che risponde alle accuse dei giornali con una dura campagna di contro-informazione. Un fenomeno mai visto prima che esploderà nel ’68 con l’inizio della ribellione di massa. A Milano, cuore della contestazione, la stampa ufficiale è per lo più espressione della borghesia conservatrice, che vede in questi ragazzi dei nullafacenti se non dei pericolosi sovversivi. A questa versione dei fatti, però, i protagonisti della contestazione oppongono una loro «contro-verità»: il ciclostile diventa uno strumento di lotta, studenti e operai prendono la parola attraverso volantini e giornali e, per la prima volta, ribaltano la narrazione ufficiale.
Se oggi parlare di fact checking è diventato quasi una moda, nel ’68, per la prima volta, i mezzi di comunicazione istituzionali si scontrano con cronache diverse dalle loro. A Milano gli studenti dell’Università Statale nel loro bollettino smentiscono i racconti dei giornali. «L’assemblea del 3 maggio non ha bocciato alcuna mozione di occupazione», scrivono contestando il Corriere della Sera. O ancora, correggendo l’Unità: «Si precisa che l’anziana signora solidarizzante con gli studenti e con essi caricata non si ruppe alcuna gamba».
Questa sfida ai mezzi di informazione non investe solo la carta stampata, ma anche la produzione video. Giovani armati di cinepresa, per la prima volta, filmano i cortei, le occupazioni e i dibattiti per mostrare quello che la Rai, unica rete esistente e con un solo canale, non sempre racconta. Anche la fotografia è testimone di questa trasformazione. Il rapporto dei fotografi con le agenzie però è ancora condizionato dalle richieste dei giornali che continuano a commissionare immagini rassicuranti.
Radicale, contraddittorio, esplosivo: lo scontro tra informazione e contro-informazione è uno dei volti del cambiamento che nel ’68 sconvolge l’Italia. Quella che si divide tra capelloni e borghesi. Tra padri e figli. Tra il Paese che è stato e quello che sarà.
Non è la Rai: i cinegiornali del Movimento Studentesco
«Al mio liceo c’era un ragazzo americano, che poi, intorno al ‘68, tornò negli Stati Uniti e andò a morire in Vietnam». È solo un adolescente appassionato di cinema, Ranuccio Sodi, quando la storia – e lo spirito – del ’68 entra nel suo piccolo mondo di liceale di provincia. «Il mio paese mi stava stretto e ogni tanto andavo a vedere cosa succedeva a Milano, che stava diventando l’epicentro del cambiamento». È proprio quando si trasferisce nella grande città per studiare ingegneria che il futuro regista comincia a filmare il mondo della contestazione giovanile.
«Il cambiamento era nell’aria, ma le trasmissioni italiane, con la Rai a un solo canale, erano molto istituzionali. Cioè, finché si trattava di minigonne e di cambiamenti di costume, la novità più o meno si vedeva, ma quando il ’68 si connotava politicamente come rivolta, c’era una netta censura. Qualcosa ci arrivava con la tv svizzera, con le radio estere come Radio Lussemburgo o con le nuove riviste tipo Re Nudo, ispirate al mondo della West Coast californiana. Poi anche la cinematografia ha cominciato a portare nuovi modi di vedere la realtà: i film di Peckinpah, Il laureato nel 1968 o i nuovi Western in cui gli indiani smettono di essere i cattivi».
Mentre in tutto il mondo si respira aria di rivoluzione, le lotte del Movimento Studentesco e le agitazioni operaie sono sistematicamente filtrate dai media ufficiali. «A ingegneria già avevo cominciato a organizzare cineforum con i film della cinematografia operaia e del Movimento Studentesco, poi, agli inizi degli anni ’70, abbiamo fondato la Cooperativa Cinema Democratico. Già da prima avevamo realizzato dei cinegiornali: ci facevamo aiutare da qualche operatore democratico o qualche amico regista, ci facevamo prestare la moviola – per il montaggio – e riuscivamo a mettere insieme qualche immagine per creare una forma di comunicazione alternativa a quella ufficiale. Questi cinegiornali – e il nostro primo film, che si chiamava Uniti contro la Dc – poi venivano distribuiti: prendevi la pizza (la pellicola avvolta) la impacchettavi e la inviavi tramite posta. Poi, magari dopo un mese, la pizza arrivava e veniva fatta circolare. Ma spesso la pellicola si frantumava e bisognava rimetterla insieme: insomma, oltre alla produzione, fare circolare questo materiale era un vero inferno».
Il clima libertario iniziale, però, negli anni ‘70 degenera in violenza e ottusità ideologica. «Nel ’68 alle assemblee intervenivano tutti: i fascisti, i liberali, i monarchici, i fricchettoni, i nazi-maoisti. Poi, gradualmente, la contestazione ha preso una connotazione molto ideologica. L’assurdo è che il ’68 nasceva anti-autoritario, ma recuperando interpretazioni molto ortodosse del marxismo-leninismo, il movimento si è incupito e si è trasformato in una forma di militanza ossessiva. Quasi tutte le frange hanno subito questa involuzione, espellendo dalle assemblee le altre componenti. Abbiamo smesso di portare la cinepresa alle manifestazioni quando centinaia di persone venivano con la pistola in tasca: filmare era diventato pericoloso. All’inizio i cortei erano delle feste popolari, a metà degli ’70 nessuno ci andava più per paura di beccarsi una pallottola».
Guardare da vicino, vedere lontano: il ’68 dei fotografi
«Se c’è Uliano, lo sciopero funziona!». Sono le cinque di mattina di una fredda giornata qualunque nella periferia di Milano. Sono gli anni Sessanta e il mondo operaio sta per alzare la testa. A un cancello di uno stabilimento Fiat dell’hinterland milanese un giovane fotografo si avvicina agli operai: tanti sono immigrati del sud, i terroni, altri parlano in dialetto milanese, altri ancora – i capireparto – vengono da Torino, confabulano tra loro in piemontese. All’inizio sono un po’ diffidenti – non capiscono bene cosa voglia da loro quel ragazzo con la macchina fotografica al collo. Poi si conoscono, parlano. Dopo qualche mese, gli operai lo riconoscono: «Se c’è Uliano vuol dire che lo sciopero è importante: lo sciopero funziona!».
Uliano Lucas è uno dei più grandi fotoreporter italiani. Figlio di un operaio della Breda di Sesto San Giovanni e istruito in un collegio di ex partigiani, Lucas comincia ad allenare il suo sguardo negli anni del’68 milanese. A imbracciare la prima fotocamera ci arriva quasi per caso, grazie ai suoi maestri conosciuti a Brera: «La mia scuola è stata il Jamaica, un bar che si trovava nel quartiere degli artisti. Era una latteria, lì ci trovavi le persone più interessanti di Milano: Lucio Fontana, Piero Manzoni, ma anche molti fotografi, come Ugo Mulas, Mario Dondero o Carlo Bavagnoli, che poi è finito a lavorare per Life. Un giorno entrai lì e capii che dovevo rimanerci, che stando a contatto con quelle persone avrei imparato ad allargare il mio sguardo».
La Milano di quegli anni è la capitale industriale del paese: migliaia di meridionali arrivano a vivere nella grande cintura industriale e scoprono un nuovo mondo. «Una delle cose che più mi ricordo di quegli anni è lo sguardo di certe donne del Sud che improvvisamente scoprivano la vita. Le guardavi negli occhi e ti inondavano di questa sensazione incredibile, di entusiasmo, di energia: erano donne che magari non erano mai andate al cinema o che si mettevano una mini gonna per la prima volta e andavano a ballare. In quegli anni c’erano certe sale da ballo dove andavano solo gli immigrati», racconta Lucas. «Si trovavano lì per divertirsi, ma soprattutto per rimorchiare».
«In generale la musica ha avuto un grande ruolo: negli anni ’60 c’erano tutti questi nuovi locali dove i ragazzi si trovavano e, oltre alla musica, c’era tutto un nuovo modo di vivere – di pensare e di comportarsi – che non si era mai visto prima». Quando i giovani cominciano a protestare nelle università e nei licei, però, i padri non si rendono conto che è in corso un cambiamento epocale: «Quando c’erano le assemblee nelle università e tutti si alzavano e dicevano qualcosa in pubblico, beh, la maggior parte delle volte dicevano delle stupidate, delle vere e proprie solenni stupidate!», fa una pausa. «Però è la prima volta che prendono la parola – ed è questa la cosa importante! Per la prima volta parlano, si esprimono: è stata questa la cosa rivoluzionaria», spiega il fotografo.
Brutti, sporchi e cattivi: i sessantottini visti dai giornali
«Dall’una in poi i commandos filocinesi si sono scatenati in azioni vandaliche: numerose automobili private sono state rimosse, rovesciate e legate l’una all’altra con catene e lucchetti appositamente portati sul posto, in modo da costituire barricate». Così il Corriere della Sera descrive quella che sarà ricordata come la «battaglia di via Solferino». È la sera del 7 giugno, il Movimento Studentesco organizza un «processo pubblico» in piazza Duomo contro la repressione. Fra gli accusati anche il quotidiano della borghesia milanese. Lo scopo dei manifestanti è impedirne l’uscita bloccando i furgoni della distribuzione. Polizia e carabinieri tentano di fermarli: lo scontro dura cinque ore. Alla fine ci saranno feriti da ogni parte, 250 fermi e una decina di arresti.
Ma perché questi ragazzi se la prendono con il giornale di via Solferino? La risposta si trova in un articolo del loro bollettino Controstampa. «Il Corriere della Sera – scrivono – è sempre in testa nella campagna di diffamazione contro gli studenti che si battono per il rinnovamento dell’Università». Il quotidiano diretto da Giovanni Spadolini non accoglie con simpatia le contestazioni studentesche. In un articolo del 10 marzo intitolato Le notti di Mao descrive l’occupazione della Statale in questi termini: «Come i filocinesi trascorrono le ore della rivoluzione culturale. Giocano a poker, indossano le toghe dei docenti, usano i crocefissi come manganelli, ascoltano Bach e brindano con vino pugliese».
Sfogliando le pagine del Giorno il tono cambia. Il giornale fondato dall’ex partigiano Enrico Mattei segue con maggiore attenzione la rivolta giovanile, mostrando di avere meno pregiudizi del suo diretto concorrente. Per favorire la comprensione di quanto sta avvenendo in città dedica ampio spazio al contesto europeo e internazionale in cui si inseriscono i movimenti italiani, senza, però, risparmiare critiche. È proprio il secondo giornale milanese a definire «gazzarra filocinese» il tentativo di alcuni manifestanti di entrare nel teatro Odeon, durante un comizio del presidente del Consiglio Aldo Moro. Il titolo non sfugge ai militanti del Movimento Studentesco che ironizzano: «Chiaramente i redattori del Giorno leggono con tanta attenzione i commenti che da due mesi a questa parte i loro amici del Corriere vanno contrabbandando che anche i loro occhi ormai vedono giallo».
Eskimo e ciclostile: la parola ai contestatori
«Vietato introdurre biciclette, cani, figli di operai e di contadini». È questa la provocazione lanciata dalla prima pagina del bollettino del Movimento Studentesco dell’Università Cattolica in cui gli studenti raccontano la loro verità sull’occupazione dell’ateneo fondato da Padre Gemelli. Tutto ha inizio il 27 ottobre 1967 con un’assemblea che proclama lo stato di agitazione. A scatenare la protesta è la decisione di raddoppiare le tasse di iscrizione. Di fronte al rifiuto delle autorità accademiche di esaminare le loro richieste, gli studenti decidono di occupare l’Università. Il 5 dicembre il rettore annuncia l’espulsione dei leader della contestazione Mario Capanna, Michelangelo Spada e Luciano Pero. «Se vi dicono che siamo tornati all’inquisizione, non credeteci. Oggi non si manda più al rogo, si espelle», titola la testata degli studenti.
Il Movimento attraverso volantini e giornali stampati al ciclostile racconta con vere e proprie cronache scontri e manifestazioni e detta le linee della ribellione. Compiti per le vacanze compresi: ogni militante che si rispetti sotto l’ombrellone deve avere L’uomo a una dimensione di Marcuse, Lettera a una professoressa di Don Milani, Che fare? di Lenin e Il libretto rosso di Mao Zedong. La prima scintilla di quella che a partire dal ’68 viene chiamata contro-informazione arriva nel 1966 quando tre redattori della Zanzara, il giornale degli studenti del Liceo Parini, vengono processati con l’accusa di stampa oscena e corruzione di minorenni. La «colpa» di Marco De Poli, Claudia Beltramo Ceppi e Marco Sassano è aver pubblicato un’inchiesta in cui si parla anche di educazione sessuale.
Gli studenti non sono i soli a propagandare le loro opinioni su carta. Tra la fine del ’67 e primi mesi del ’68 anche gli operai cominciano a far sentire la loro voce, attraverso Avanguardia operaia, foglio a cura di un gruppo di lavoratori della Sit-Siemens. La svolta verso un’informazione più libera e indipendente dal potere arriva il 12 gennaio 1969, giorno della strage di Piazza Fontana. Mentre gli apparati dello Stato montano la “pista anarchica”, un gruppo di cronisti intenzionati a trovare la verità dà vita al movimento Giornalisti democratici. Il 21 gennaio 1970 sarà proprio il loro striscione ad aprire il corteo nella manifestazione contro la repressione. Anche in quell’occasione la polizia colpisce duramente. Bruno Ambrosi, inviato del Telegiornale unico Rai, finisce in ospedale e ci rimane per 43 giorni. I dirigenti di Corso Sempione, come lui stesso poi racconterà in un’intervista a Raffaele Fiengo, gli fanno sottoscrivere una dichiarazione in cui si esclude che fosse lì in servizio. Non era pensabile che un professionista Rai andasse in piazza con i facinorosi.