NEL SEGNO DI KOBE

Il basket di strada porta con sé valori sociali e culturali. Milano, con oltre 180 playground, può diventare la capitale di questo sport in Italia e promuovere i suoi principi d’integrazione e coesione

di Luca Covino e Gaia Terzulli

Piove su Parco Sempione. È più di un mese che una palla non sbatte sul ferro del canestro del playground, facendo imprecare il tiratore impreciso. Più di 30 giorni che quel pallone non bacia la retina e fa esultare chi ha piazzato la tripla decisiva. Non si sente il rumore del calpestio sotto il tabellone, il rimbalzo sordo della palla a spicchi che è passata tra le mani di una città per oltre 30 anni. 

Il Coronavirus ha costretto i players più incalliti a tirare fuori dagli scatoloni quei mini canestri che negli anni Novanta si appendevano dietro la porta della cameretta accanto al poster di Michael Jordan. Appena due mesi fa al Comune di Milano si ragionava sull’idea d’intitolare a Kobe Bryant il playground di Parco Sempione, ma la paralisi totale imposta dall’emergenza sanitaria sembra aver confinato quei giorni in un passato irrecuperabile. Qualche rassicurazione giunge dall’assessorato allo Sport: «Prima che scoppiasse la pandemia avevamo iniziato a consultarci per individuare il campo più adatto da intitolare alla stella dei Lakers. Anche se adesso è tutto bloccato, il nostro proposito rimane fermo». 

Il playground a Milano

Resta da capire quale dei 185 playground sparsi per Milano (tra campetti da basket e da volleyball) porterà il nome del leggendario cestista dell’Nba: da Via Dezza a Parco Trenno, il capoluogo lombardo è un piccolo Eden per gli amanti della palla a spicchi. Nel tempo alcuni di questi spazi sono diventati “luoghi di culto”, tanto da attirare professionisti di fama mondiale, come è accaduto, per ben due volte, con Kobe Bryant. 

Le prime due furono nel 1997 e nel 2001, quando il basket di strada, in Italia, iniziava la sua apoteosi. Poi Black Mamba è ritornato dopo dieci anni, nel 2011, per alcuni appuntamenti promozionali. «C’era un’atmosfera da quiete prima della tempesta: tutti giocavano in maniera frenetica perché sapevano di avere una chance, quella di mostrarsi davanti al loro idolo», ricorda Lorenzo “Aig Scream” Pinciroli, uno degli organizzatori del torneo tre contro tre giocato per l’occasione. Ma del torneo importava a tutti ben poco, «l’attenzione era solo per Kobe, che è stato incredibile», continua il frontman della crew d’intrattenimento sportivo, Da Move: «Ha dimostrato a tutti cosa significhi saper coniugare talento e temperamento. Mentre si preparava per il torneo, pensava al bagno di folla che lo attendeva. Solo quando è arrivato al campo circondato dalla sicurezza e ha toccato le mani delle migliaia di fan accalcati sulle transenne, si è potuto iniziare a pensare al gioco». 

Il segno che Kobe Bryant ha impresso su Milano è indelebile. Lo si evince dalla quantità di playground sparpagliati sul territorio urbano e da alcuni tratti peculiari che qui ha assunto il basket di strada. A cimentarsi non sono solo gli amatori “occasionali”, ma anche gli irriducibili che sfidano le intemperie pur di tirare a canestro. L’incontro tra assidui e sporadici ha fatto crescere il numero di ballers, richiedendo sempre più disponibilità di spazi. Il playground di Famagosta, ricavato dal padiglione che Coca Cola fece realizzare per Expo 2015, è l’esempio di come un’area inizialmente non adibita allo sport sia diventata punto di riferimento per gli amanti della pallacanestro.

Intorno a Via Tabacchi, non lontano dalla Bocconi, ci sono poi quattro metà campo sempre piene di persone che giocano. «Per me questo spazio, insieme a quello di Parco Robinson, a Famagosta, è oggi il più rappresentativo del basket di strada milanese», spiega Pinciroli, «Lì si ritrovano ragazzi e adulti di origini diverse, accomunati dalla stessa passione».

«No blood, no foul»

Una storia di passione, poi diventata carriera professionale, è quella di Dan Peterson, un uomo che ha dato alla pallacanestro italiana lustro internazionale, prima da allenatore, poi da giornalista e commentatore televisivo. Per 14 anni ha formato alcuni tra i migliori cestisti del basket nazionale, guidando squadre del calibro della Virtus Bologna e dell’Olimpia Milano.

Ripercorrendo la sua storia dagli inizi, Peterson non ha dubbi: «Devo la mia carriera d’allenatore al playground». “The coach” era bambino quando nel quartiere di colore di Chicago fiorivano le promesse della pallacanestro americana. «Nella scuola elementare di fronte casa mia, la Lincoln Elementary School, c’erano due grandi campi d’asfalto, il campo numero 1 e il campo numero 2», racconta. «Nell’1 noi bambini piccoli non potevamo mettere piede. Se andavi lì da solo a fare un tiro a canestro, pensando di passare inosservato, sentivi subito una voce da non si sa dove che urlava “Ragazzo, vai fuori!”. Sembrava che qualcuno lo sorvegliasse 24 ore su 24».

Poi, un giorno, il destino è sceso in campo a fianco del piccolo Dan. «Ero da solo a tirare sul campo 2 e a quelli dell’1 mancava un giocatore. Allora un cestista leggendario del posto mi ha detto: “Ehi, tu, vieni qua!”. Mi sono fatto avanti, terrorizzato, perché erano tutti più grandi di me, andavano al liceo, mentre io ero ancora alle medie e mi sentivo ridicolo. Appena entrato in campo, uno di loro mi ha ammonito: “Una sola cosa, non tirare!”». Da quel giorno, la vita di Peterson era segnata.

Poco tempo dopo toccò a lui tendere la mano a qualcuno, come aveva fatto quel giocatore più grande di lui. Alcuni ragazzi della Gioventù Cristiana avevano formato una squadra e cercavano un allenatore. «Avevano 11 anni, io 15. Mi vennero a chiedere di diventare il loro coach. Sapevo di non avere un futuro da giocatore di basket, così accettai e iniziai quella che è diventata la mia carriera. Sono ancora in contatto con quei ragazzi: tutte le volte che torno a Chicago alcuni vengono a prendermi all’aeroporto. Devo molto a ognuno di loro».

Su quelle colate d’asfalto che macchiano la periferia di Chicago correvano i grandi. Ai più bravi il corpo è rimasto segnato da operazioni ad anche, ginocchia e schiena: colpa dell’asfalto, che non è molleggiato come il parquet della pallacanestro tradizionale. «Il playground è davvero la palestra del basket e da lì vengono fuori gli allenatori, io per primo», riconosce Peterson.

L’aspetto tecnico

Le differenze tra il basket praticato sul parquet e quello sul cemento hanno contraddistinto i cestisti e le loro qualità. Lo stesso Peterson rivela come il playground, aiuti a formare il bagaglio tecnico dei giocatori. «Nel basket canonico hai la possibilità di recuperare un pallone in caso di errori, nel playground no. Lì non ci sono falli né cronometro, il motto è “No blood, no foul”. Sui campetti in America si dice “The winner stays on”», continua l’allenatore americano, «Un detto che rende l’idea di quanto sia intenso il gioco su quei campi. È questo l’aspetto che ha temprato il carattere di molti cestiti. Ho sempre allenato i miei atleti pensandoci e li invitavo a esercitarsi sui playground per migliorare. La velocità e l’attitudine che si sviluppano su un campo in strada le ho riviste in molti talenti che ho avuto l’occasione di allenare. In Italia, Roberto Premier e Charlie Caglieris sarebbero stati perfetti come giocatori di playground».

Anche a Milano questo mindset appartiene ad alcune figure diventate leggendarie. È il caso di Gabriele “Piaz” Piazzolla, uno dei giocatori entrati nella storia del playground milanese. «Era un cestista eccezionale, piccolo di statura ma molto rapido: era in grado di fare punti da qualsiasi lato del campo», ricorda Pinciroli, che negli anni ha giocato con diversi talenti del basket di strada. «Una volta Gabriele aveva subito un’operazione chirurgica al bicipite, un infortunio che può compromettere anche le prestazioni dei giocatori al vertice. Lo incrocio sudato vicino a Sempione, sapevo che non poteva muoversi. “Sto migliorando – mi fa – sono andato ad allenarmi, ma non a giocare”, mi rassicurò, “Dato che sto facendo fisioterapia: offro solo 50 euro a senzatetto e passanti nei paraggi per passarmi la palla”. In pratica», conclude Pinciroli, «Si era creato la macchina spara-palloni da solo. La giustificazione a riguardo? “Tiro il doppio, guadagno tempo e recupero prima”. Se non è questa mentalità».

Un gioco per tutti

L’inclusività è uno dei connotati più importanti del playground. Le comunità straniere che si incontrano sotto canestro sono diverse: tra gli aficionados sono numerosi i filippini. «Insieme ai cinesi sono tra i più coinvolti nel gioco», continua il fondatore di Da Move, «Non è raro che utilizzino il campo da basket per radunare la comunità in occasione di feste». Il playground permette anche questo: entri, giochi e socializzi, «È un’esperienza che ha pochi eguali nel mondo dello sport», sostiene Pinciroli, che l’ha vissuta sulla pelle. «Quando mi sono trasferito a Milano ho incontrato ragazzi con cui poi ho formato un gruppo e colonizzato il campetto di Viale Sarca. Ci trovavamo lì perché intorno abitava gran parte dei miei amici. Capitava spesso di venire ospitati a cena o a dormire da persone conosciute appena prima in campo. Di notte andavamo a giocare nel playground di Viale Argonne, dove provavamo le prime acrobazie. È fantastico pensare a come tutto questo sia nato dalla passione di ragazzi che si sono incontrati per caso e che in poche settimane cenavano, dormivano, uscivano insieme. E tutto per giocare il più possibile. Roba da malati veri, “positivi” al basket». Un imprinting che Pinciroli ha mantenuto nel tempo: «Ancora oggi, quando viaggio e voglio conoscere gente nuova, la prima cosa che faccio è cercare i tre campi da basket più grandi del posto: so che lì, in tempo zero, troverò persone interessanti».

Il legame con l’hip hop

Il basket per come lo conosciamo oggi è cresciuto in simbiosi con un’altra espressione della cultura di strada, l’hip hop. «C’è un rapporto indissolubile tra il basket e il rap», sostiene Michele “Wad” Caporosso, speaker di Radio Deejay e, dal 2016, conduttore del programma di musica hip hop “One two, one two”. «Oggi nell’immaginario americano rap e Nba sono quasi la stessa cosa. Lo si vede bene, per esempio, nei film di Spike Lee», prosegue Caporosso. «Lo stesso Kobe Bryant, oltre ad amare l’hip hop, passava tanto tempo in studio con molti rapper e ha avuto lui stesso un’esperienza da mc negli anni Novanta. In generale, il rap e l’Nba sono quasi la stessa cosa, è un legame anche estetico: se tu tiri fuori un giocatore di basket dal playground può sembrarti un rapper e, viceversa, questo, fuori dallo studio o dal palco, può sembrarti un cestista».

In Italia il playground si è sviluppato tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Tuttavia questo non ha impedito agli appassionati di subire il fascino della cultura afroamericana e del suo connubio tra sport e musica. «C’è da dire che in Italia siamo ancora un po’ lontani da questo modello», ammette Caporosso, «E dipende da capacità d’integrazione, dall’immigrazione e dall’apertura mentale verso le nuove culture. Comunque, nel nostro Paese, come negli Stati Uniti, la musica di sottofondo in un campo di basket, rimane il rap».

Il futuro del playground a Milano

Il successo del basket di strada ha portato il Comune di Milano a impegnarsi nella riqualificazione degli spazi dedicati allo sport. Negli ultimi anni Palazzo Marino ha stanziato fondi nell’ambito di “We Playground Together”, il progetto che entro il 2020 doveva consegnare alla città alcuni campetti ristrutturati. Diversi, come quello di Largo Marinai d’Italia e di Viale Sarca, sono stati inaugurati tra il 2018 e il 2019 con la partecipazione dei cittadini e di un ambasciatore speciale, Danilo Gallinari, stella italiana dell’Nba. 

Oggi, però, l’impegno del Comune è stato interrotto dall’emergenza legata al Covid-19. E non è l’unica criticità associabile ai playground milanesi. Il gran numero di persone, in maggioranza giovani, che li frequentano, ha attirato i pusher a controllare il piccolo spaccio all’ombra dei canestri.

Stando alle informazioni provenienti dagli investigatori dei carabinieri, «Parchi come quello di Sempione, Famagosta e Piazzale Lotto, sono sempre stati al centro del traffico di hashish e marijuana». 

La lotta alla compravendita di droga nei playground di Milano è al centro del dibattito pubblico e continua a impegnare le forze dell’ordine, come nella retata dello scorso novembre, che, nell’ambito di un blitz contro i pusher di Parco Sempione, ha portato all’arresto di 36 persone e alla denuncia di altre 47. Sono gli stessi giocatori a essere sensibili al tema, compresi i più giovani, come Alessandro, 14 anni, autore di una lettera inviata al Corriere della Sera, in cui esprime il suo disagio nel giocare a basket in certi contesti.

«Giocare a pallacanestro è quasi impossibile se non guardandosi le spalle con l’ansia che qualcuno possa derubarci o importunarci», scrive il ragazzo. «A volte questi soggetti rimangono per ore dentro a delle specie di accampamenti. Giocare a basket è possibile, ma non mi sento molto sicuro a stare lì [Sempione, ndr]. Chiedo che si possa fare qualcosa», conclude Alessandro. 

I valori di aggregazione e spirito di comunità del basket di strada vanno, quindi, tutelati. Una volta che il Coronavirus sarà stato debellato, Milano ha la possibilità e i mezzi per far diventare i playground spazi collettivi che contribuiscano a rendere la città migliore. Così Alessandro potrà tornare a giocare a basket senza paura.