Non è tutto oro ciò che cripto-luccica

Tutti parlano di Nft, tra chi li esalta e chi non crede siano vera arte. Il giro d’affari però è reale: ben 41 miliardi di dollari nel 2021. Alcuni valgono milioni, altri pochi centesimi. E i meccanismi alla base del prezzo non sono sempre chiari

 

di Davide Mino Leo e Simonetta Poltronieri

Disclaimer: Questa non è una guida su come diventare ricchi con le criptovalute. 

Nessun elenco dei dieci semplici passaggi per guadagnare un milione in Bitcoin e nemmeno quali saranno le serie Nft su cui puntare per avere facili guadagni investendo poco. Perché non è tutto oro ciò che cripto-luccica e gli Nft non sono la gallina dalle uova d’oro. La blockchain è una tecnologia capace di aprire orizzonti innovativi finora inesplorati, ma non priva di lacune regolamentative e criticità che mettono a rischio l’intero sistema Web3, dal metaverso al mercato degli Nft. Ma cos’è di preciso un Nft?

Probabilmente la prima volta che avrete sentito questa sigla è stato circa un anno fa, quando nel febbraio 2021 l’artista statunitense Beeple ha venduto una sua opera in formato Nft per la strabiliante cifra di 69 milioni di dollari. La notizia ha fatto il giro del mondo non solo per quanto è stato pagato (nonostante sia la terza opera di un artista vivente più cara di sempre), ma soprattutto per cosa è stato acquistato. Nessuna tela, statua o rappresentazione tangibile di un oggetto artistico: chi ha speso 69 milioni per Everydays: The First 5000 Days si è portato a casa (per dire) un Non-Fungible Token (Nft), ovvero una prova, un certificato digitale che attesta il suo “possesso” dell’opera. Nonostante chiunque possa ancora scaricarla sul suo pc semplicemente cliccando con il tasto destro del mouse su “salva immagine con nome”. Ma di questo parleremo dopo.

Allo stesso modo, il termine Bitcoin ha iniziato a rimbalzare sulla bocca di tutti quando nel giro di due anni è passato dal valere pochi centesimi a oltre 60mila dollari l’uno: è chiaro quindi che, oltre alla potenza innovatrice che queste tecnologie portano con sé, l’hype del pubblico nei confronti di criptovalute, di Nft e in generale di tutto il Web3 è dovuto principalmente all’enorme quantità di denaro che gira intorno a questi asset. Questa è, in conclusione, una storia di soldi

BLOCKCHAIN

piattaforma Distributed Ledger il cui nome deriva dalla struttura del registro,ossia una struttura dati che contiene una sequenza di transazioni solita- mente raggruppate in blocchi concatenati. Le transazioni da includere e il loro ordine nel blocco vengono stabiliti tramite un meccanismo di consenso al quale può partecipare chiunque (piattaforme permissionless) e che si basa tipicamente su incentivi e disincentivi economici, attuati tramite asset contabilizzati nella Blockchain stessa. La validità delle transazioni inserite e il loro ordine possono essere verificati da chiunque (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

BITCOIN

primo asset digitale scambiabile universalmente, liberamente e in assenza di intermediari fidati o di specifiche identificazioni. Queste proprietà notevoli e inedite sono ottenute definendo e introducendo, per la prima volta, una Blockchain come strumento di contabilizzazione. Bitcoin è stato lanciato nel 2009 da una persona o un gruppo di persone che si identificano sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

NFT

particolare tipologia di crypto-asset presente su varie piattaforme Blockchain. I token di questo tipo si contraddistinguono per la presenza di codici di identificazione e metadati univoci che permettono di differenziarli l’uno dall’altro. La tecnologia Blockchain garantisce che ogni NFT sia davvero unico e non replicabile. Creando così una scarsità digitale e rendendoli inoltre facilmente trasferibili e scambiabili da chiunque, anche in assenza difiducia tra le parti (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

WEB3

termine con il quale si descrive una nuova versione del web che ha come caratteristica principale la decentralizzazione. Viene usato per descrivere l’evoluzione del web2 odierno, fortemente centralizzato e in cui i dati e le informazioni transitano attraverso pochi attorI (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

DISTRIBUTED LEDGER

strutture dati distribuite, nelle quali è solo possibile aggiungere informazioni (append-only) secondo regole condivise. Per raggiungere il consenso su un’unica versione del registro incensurabile, in assenza di fiducia e di un ente centrale, viene utilizzata la crittografia e sono impiegati algoritmi di consenso (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

Di cosa parliamo quando parliamo di Nft

Abbiamo già detto che un Nft può arrivare a costare 69 milioni di dollari (e anche di più), ma spiegare in termini comprensibili come funzioni questa tecnologia non è semplice, quindi abbiamo deciso di farcelo raccontare da chi con questa tecnologia ci lavora. Ecco come ci hanno risposto.

Token crittografico”, “certificato”, “file”, addirittura “cartello” e “busta”: un Nft si differenzia dagli altri asset che dipendono dal “libro mastro” della blockchain (tipo i bitcoin) perché ogni Nft è unico e non intercambiabile con gli altri (quindi, non fungibile). La blockchain, brevemente, è un registro di contabilità digitale condiviso tra gli utenti e immutabile nel tempo, grazie al quale le transazioni effettuate nella sua rete sono sempre tracciabili e registrate. Definire un Nft invece è un po’ più complicato. 

«Per comprendere il funzionamento di un Nft è importante prima comprendere cosa sia una funzione di hash» spiega Ferdinando Maria Ametrano, professore di Bitcoin e tecnologia blockchain all’Università Bicocca e Ceo e fondatore di CheckSig, azienda che si occupa di consulenza e investimento in cryptovalute. «La funzione di hash serve per trasformare un file digitale – un video, un’immagine, una canzone – in una sequenza binaria di 32 byte». «Questa sequenza, chiamata hash value, sarà quindi l’impronta digitale del file originario: unita a un altro pacchetto di dati contenenti informazioni come l’autore del file originario, la piattaforma su cui è stato inserito e il momento in cui è stato creato, si avrà una seconda funzione di hash, che inserita nella blockchain andrà a creare il nostro token non fungibile, o Nft». Questo protocollo di creazione e verifica di un Nft è definito smart contract.

In breve, un Nft contiene un hash value che rimanda a dei dati che rimandano al file digitale originario. E qui nascono i primi problemi, perché chi compra un Nft non possiede quindi il file o l’opera in sé, ma una sorta di certificato collegato all’opera originaria. Inoltre secondo il professor Ametrano «un Nft esiste solo su un determinato mercato basato su una specifica blockchain, e non è detto che dallo stesso file originario non si possano creare più Nft identici tra loro ma esistenti su piattaforme diverse».

Il fatto che un Nft non sia l’oggetto (digitale) in questione ma che rimandi soltanto a esso, non significa che non abbia alcun valore. «L’Nft in realtà è uno strumento tecnico ed è estremamente generale nella sua applicazione», spiega il professor Francesco Bruschi, direttore dell’Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger del Politecnico di Milano

Uno strumento tecnico quindi, che però ricalca le stesse logiche che sono alla base del collezionismo, che sia di opere d’arte o di cimeli vintage. «È come quando compro un quadro e lo tengo in un magazzino senza esporlo, oppure compro uno Stradivari o anche un capo di abbigliamento da collezione: il trasferimento e la manutenzione di questi oggetti avrebbero un costo troppo elevato, così l’unica cosa che io ho con me di quel bene è un certificato di proprietà», aggiunge Vincenzo Rana –  Ceo di Knobs, consulente scientifico di BCode, docente del Politecnico di Milano. «Se poi quell’oggetto aumenta il suo valore nel tempo e io decido di scambiarlo sul mercato, mi basta vendere il certificato per ottenere i soldi: questo, trasposto in digitale, è di fatto un Nft».

Web3: nasce, cresce, decentralizza

La tecnologia blockchain è alla base del concetto di Web3, il prossimo e tanto atteso cambio di paradigma che rivoluzionerà il modo in cui gli utenti usufruiscono di internet e del web. Prima di definire cosa sia questo Web3, è bene ripassare brevemente gli aspetti principali delle versioni precedenti (e attuali) della rete.

In principio fu il Web1, l’internet degli anni ‘90 e dei primi anni 2000, quello caratterizzato da siti poco interattivi e simili a delle bacheche digitali. Per capirci, è anche l’internet delle connessioni lente e della necessità di digitare il famoso “www” prima di navigare su un sito.

Poi fu la volta del Web2, che trasformò internet da una vetrina a una piattaforma: nascono l’e-commerce e i social network, e gli utenti hanno la possibilità di interagire tra loro e creare contenuti autonomi. Al netto dei vantaggi, il Web2 ha però consegnato la quasi totalità del traffico della rete in mano a poche tech company (Amazon, Facebook, Google per citarne alcune), obbligando gli utenti a cedere i propri dati personali per utilizzare i servizi di queste aziende. Oggi siamo costretti ad avere fiducia in questi colossi, sperando che non vendano al miglior offerente l’infinita quantità di dati che hanno raccolto su tutti noi. E anche dovessero farlo, non possiamo farci niente perché abbiamo firmato termini e condizioni.

L’obiettivo del Web3 è proprio quello di cambiare questo paradigma, decentralizzando l’intera struttura digitale mondiale a favore dei singoli utenti. Con il Web 3 (termine coniato da Gavin Wood, cofondatore della criptovaluta Ethereum) l’economia digitale non sarà più nelle mani di pochi player ma apparterrà a tutta la comunità degli internauti. Secondo i suoi sostenitori, il Web3 non richiederebbe la trasmissione di informazioni personali ad aziende come Facebook e Google per utilizzare i loro servizi. Tutto il mondo virtuale sarebbe alimentato dalla tecnologia blockchain e dall’intelligenza artificiale, con tutte le informazioni pubblicate sul registro pubblico della blockchain.

Le scimmie più fighe del mondo

Uno degli elementi fondativi del Web3 sono le Dao, organizzazioni digitali autonome e decentralizzate che consentono alla comunità degli utenti di associarsi per raggiungere un obiettivo comune, immagazzinando risorse e dotandosi di una propria struttura. Queste Dao, i cui membri hanno facoltà decisionali sul futuro della stessa, emettono azioni sotto forma di token legati al raggiungimento di un determinato obiettivo o all’avanzamento generale del progetto. Se il progetto avanza, cresce e si diffonde, aumenterà anche il valore del token generato, che porterà quindi un guadagno per gli “azionisti” della Dao.

Il meccanismo della Dao è lo stesso alla base dei collectibles, la tipologia di Nft che attualmente rappresenta la fetta più grande del mercato: diversamente dalla criptoarte, i collectibles sono delle serie di Nft (generalmente 10.000 unità) rappresentanti una stessa immagine (spesso un personaggio dalle fattezze antropomorfe) con caratteristiche diverse generate in maniera randomica da un algoritmo. Una delle serie di collectibles più famosa è Bored Ape Yacht Club (Bayc), illustrazioni che rappresentano appunto delle scimmie annoiate, ognuna diversa dall’altra per colore e accessori. Bayc in meno di due anni ha creato un business da oltre 1,3 miliardi di dollari e le sue scimmie campeggiano ora sulle bacheche social di personaggi come Eminem, Steph Curry, Jimmy Fallon, Paris Hilton e Shaquille O’Neal per citarne alcuni.

DAO

sta per Decentralized Autonomous Organization ed è una particolare tipologia di community online di proprietà collettiva degli stessi membri della community. La partecipazione a una DAO è gestita attraverso l’utilizzo di token, ciascun possessore del relativo token ha la possibilità di esprimere il proprio voto sulle questioni inerenti alla DAO stessa (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

COLLECTIBLE

caso d’uso della tecnologia Blockchain che riguarda l’utilizzo di NFT perla rappresentazione digitale di asset unici e diversi tra loro. Solitamente realizzati in collezioni di numerosità variabile, replicano fenomeni di collezionismo aggiungendo delle caratteristiche di unicità di ogni singolo pezzo. Il possesso dei singoli token può poi dare accesso a diritti e/o servizi (da Glossario – Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger, Polimi)

Queste scimmie annoiate (e carissime) hanno molti punti in comune con le Dao, perché gli Nft sono in qualche modo paragonabili ai token generati dalle Dao per i loro membri: ogni Bored Ape garantisce infatti al suo proprietario l’iscrizione al club Bayc (chiamato “The bathroom”) e l’accesso ad alcuni vantaggi dedicati a pochi eletti, come ad esempio lo sviluppo di nuovi Nft, l’organizzazione di incontri nel mondo reale tra i proprietari delle scimmie e, forse, un videogame con le scimmie riservato agli iscritti. Come per le Dao quindi, i creatori delle serie di Nft più popolari promettono agli utenti (in questo caso anche acquirenti) l’ingresso in una comunità partecipata e democratica, almeno sulla carta.

Un altro caso emblematico nella storia degli Nft è quello dei Cryptopunks: 10mila immagini in formato 24x24 pixel, in stile 8 bit, create automaticamente da un algoritmo sulla base di 87 attributi diversi. Grazie anche a combinazioni che generano punk rari, e quindi più costosi, le vendite di Cryptopunks hanno generato poco meno di due miliardi di dollari.

Soldi facili?

Ma l’ingresso in questa specie di “gentlemen’s club”, per esclusivo che sia, giustifica la spesa di un milione di dollari per l’immagine di una scimmia? La risposta probabilmente è no, ma chi paga tutti questi soldi per un Nft difficilmente lo fa perché crede ciecamente nel progetto ed è disposto a sborsare cifre da capogiro per farne parte. Le motivazioni alla base degli acquisti di Nft come quello delle Bored Apes sono essenzialmente due: lo status symbol e la speculazione

La scarsità di un Nft, fondamentale in un mondo nel quale si possono riprodurre infinite copie di qualsiasi cosa, permette a chi li acquista di ottenere uno status symbol privilegiato in quanto possessori di un “oggetto” iper esclusivo. Il fatto che così tanti Vip agiscano di fatto come sponsor di questi asset ha generato un meccanismo tale per cui chiunque metta come immagine del profilo sui social una Bored Ape (non a caso adesso Twitter permette di collegare un Nft al proprio profilo) guadagni in poco tempo migliaia di follower. Nel 2022 nessuno compra un Rolex per sapere che ora è, ma per accedere allo status di possessore di un bene di lusso.

Oltretutto, anche per i progetti più famosi, gli acquirenti non hanno nessuna garanzia sul fatto che una volta venduti abbastanza Nft, gli sviluppatori non prendano tutti i soldi e spariscano da un momento all’altro. D’altro canto, questi fantomatici progetti dietro le serie di collectibles spesso non sono supportati da nulla se non dall’intenzione, messa per iscritto, di creare un qualche prodotto da questi asset (un fumetto, un videogioco, una serie tv o addirittura tutte e tre le cose) senza nessuna base di partenza se non “una visone”. 

Non avendo un prodotto reale da vendere, gli sviluppatori di quelle che vengono definite scam, ovvero truffe digitali, vendono la storia di quello che potrebbe essere, un giorno, un futuro e profittevole business. Cosa effettivamente sia il business in questione non importa perché, grazie alla decentralizzazione portata dalla blockchain, saranno gli stessi possessori degli Nft a decidere il suo futuro. Almeno fino a quando i suoi creatori non faranno un rug pull, ovvero scappare con la cassa togliendo letteralmente “il tappeto da sotto i piedi degli investitori”. Frosties, Bored Bunny e Big Daddy Ape Club sono solo alcuni dei numerosi progetti Nft rivelatisi poi vere e proprie truffe da milioni di dollari.

È il capitalismo, bellezza

Per il ritmo forsennato a cui si sta muovendo il mercato però, sembra chiaro che l’intento principale di chi acquista Nft non è tanto quello di partecipare a un progetto esclusivo, tanto quello di speculare sul valore dell’investimento, vendendo gli Nft ad un prezzo più alto di quello d’acquisto e guadagnando molti soldi in poco tempo.

Siamo di fronte a un mercato di cui si sa ancora poco, ancora in evoluzione, e anche se c’è chi parla già di bolla speculativa, quello che emerge è che gli Nft alla fine non sono tanto diversi da quello che vediamo in altri contesti. La logica principale di mercato sembra essere infatti quella che guida l’economia nel mondo reale: quando c’è scarsità di un bene e la domanda è tanta, allora il prezzo di quel bene lievita. E in un ecosistema come quello della blockchain dove tutto è tracciato, dove il posizionamento – il proprio status e la propria criptoricchezza è visibile a tutti – questa dinamica viene amplificata.

Per comprendere il denaro che viene speso per un Beeple o una Bored Ape, dobbiamo parlare di un movimento artistico che è emerso intorno al 2011 e a cui è stato dato il soprannome di “formalismo zombie”. Secondo il formalismo le opere d’arte andavano giudicate basandosi interamente sulle componenti estetiche piuttosto che su qualsiasi significato sociale, politico o ideologico. Il formalismo zombie, esploso negli Stati Uniti, era caratterizzato da giovani artisti concentrati sulla composizione più che sul contesto dell’opera. Quest’arte, per nulla rivoluzionaria, aveva il pregio di sembrare molto cerebrale, ed era perfetta per stare nelle lussuose case dei ricchi e su Instagram. I quadri erano tutti simili tra loro, facili da realizzare e costosissimi. Collezionisti d’arte principianti, molti dei quali provenivano dal mondo della finanza, li amavano ed erano entusiasti di speculare selvaggiamente su artisti la cui credibilità sembrava essere in grande ascesa. 

È difficile non vedere alcune somiglianze tra l’attuale successo degli NFT e questo momento artistico al suo apice. Da quando è diventata una merce, collezionare arte è diventato sempre meno acquistare opere significative e sempre più creare un portafoglio di investimenti. Come molte opere del formalismo zombie, il valore di un’opera come Everydays: the First 5000 Days è stato costruito sulla base di due componenti completamente non artistiche. La prima è il fatto che l’opera rappresenti una novità assoluta. La seconda invece è, per quanto assurdo sembri, proprio il fatto che sia stata venduta a 69 milioni di dollari. 

Ma come fa il mercato a stabilire il valore di un Nft? Semplice: in modo abbastanza casuale. Come dice il critico d’arte Robert Hughes, «Il valore di un’opera d’arte è dettato da un desiderio puramente irrazionale, e niente è più manipolabile del desiderio». Parte di questo ha a che fare con l’impostazione dell’asta che è letteralmente progettata per favorire un processo decisionale sconsiderato e dettato dall’istinto. In particolare, mentre Christie’s di solito fissa un valore stimato, hanno scelto di non farlo su Everydays. Di conseguenza non c’era nessun limite e nessun esempio a cui fare riferimento per la stima del valore. Quando i prezzi in un’asta salgono, sale anche l’eccitazione. La gente è attratta dall’arte costosa perché se costa tanto, vale tanto. La stessa cosa avviene sui marketplace che vendono Nft come Opensea.

Un altro grande fattore è la novità. Come con il formalismo zombie, la novità di un acquisto d’arte può anche dargli intrinsecamente valore. In questo caso, la prospettiva di essere il primo collezionista a comprare un Nft da una grande casa d’aste ha giocato un ruolo importante nel far salire il prezzo. Ma c’è anche la questione dell’interesse personale. I collezionisti in grado di spendere milioni di dollari per un’opera sono pochissimi e spesso gravitano intorno agli stessi artisti e alle stesse tendenze, gonfiando i prezzi e autoalimentando il meccanismo di formazione del valore di queste opere. Chi possiede già un paio di Rothko potrebbe fare offerte incredibilmente alte per il prossimo Rothko che si presenta a un’asta d’arte. Questo perché così facendo aiuta il “marchio Rothko” agli occhi del mondo dell’arte, aumentando di conseguenza il valore della loro preesistente collezione. Qualcosa di simile forse sta accadendo con gli Nft. 

Un mercato per pochi eletti

«Dietro agli Nft e alla blockchain c’è l’idea della democratizzazione del sistema. Chiunque può fare la propria opera, la propria immagine, “mintarla” – quindi autenticarla, e potenzialmente diventare famoso sul web. Guardando però a quello che sta accadendo, emerge qualcosa di diverso: la ricchezza è nelle mani di pochi, così come di fatto è nel mondo reale». Alberto Bracci è uno dei ricercatori che sta lavorando al progetto ‘Mapping the Nft Revolution’, cercando di comprendere come questo mercato si muove e soprattutto come potrebbe evolversi in base a modelli matematici specifici. 

«Dai nostri studi, abbiamo notato come ci siano davvero pochi ‘traders’ che guidano il mercato, così come poche collezioni che lo trainano avendo successo e diventando dei fenomeni cripto. In principio erano i Cryptopunks ma adesso vediamo per esempio il caso delle Bored Ape», spiega Matthieu Nadini del team di ricerca.  «La cosa più emblematica che abbiamo riscontrato finora è che ci sono vari fattori che impattano sul successo e sul prezzo di questi asset», aggiunge Nadini. «In primis la tipologia dell’immagine, ma anche e soprattutto la reputazione dell’acquirente e il fatto che abbia o meno in altri progetti di valore». Un terzo fattore potrebbe essere anche il cosiddetto celebrity effect: «Le celebrità sono fonte di  visibilità», aggiunge Amin Mekacher, «ma non possiamo ancora formulare un modello statistico che definisca se e in che modo i vip siano un incentivo sociale per entrare in una comunità e se questo impatti o meno sul valore». 

Quello che però emerge guardando al mercato è che se fino a qualche tempo fa a comprare Nft erano per lo più gli esperti del settore –  chi ci lavorava o chi aveva accumulato molte criptovalute e voleva utilizzarle per investimenti –  ora ci sono molti curiosi che decidono di entrare in questo mondo. Come se subito dopo la domanda “che cos’è un Nft?”, invece di aspettare – e capire – la risposta, ci fosse la curiosità di buttarsi in questa next big thing. Ma come viene sottolineato dall’Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger del Politecnico di Milano, «quello che spesso manca e su cui bisogna ancora molto lavorare, è la formazione per maneggiare queste nuove tecnologie». E non esporsi ai rischi.

La tecnologia non è né buona né cattiva; non è neanche neutrale 

– Prima legge sulla tecnologia – 

MELVIN KRANZENBERG

STORICO

Impara la criptoarte e mettila da parte

Quindi, ricapitolando, chi acquista Nft generalmente non lo fa mosso da un particolare interesse artistico, ma piuttosto nel tentativo di cavalcare l’onda. Ciononostante, l’Nft più caro rimane ancora saldamente Everyday: the first 5000 days di Beeple, venduto per 69,3 milioni di dollari lo scorso anno da Christie’s. Metakovan, pseudonimo dell’indiano Vignesh Sundaresan – l’imprenditore digitale che ha comprato Everydays – ha affermato di averlo fatto perché crede fermamente nell’importanza di quest’opera nella storia dell’arte. «Come pezzo artistico in sé è fantastico. Ma è anche un segnale, l’inizio di una nuova epoca per l’arte digitale». Il giovane criptomilionaro ha inoltre invitato chiunque ne abbia voglia a scaricarne il jpeg da internet senza problemi, perché «il mio nome è legato al possesso dell’opera, ma chiunque può scaricarla se vuole, a me fa piacere».

Alcuni esperti d’arte in effetti sono d’accordo con Metakovan circa la possibilità degli Nft di iniziare una nuova era per la storia dell’arte. «L’asta del Beeple ha puntato i riflettori sul mondo degli Nft, e al netto di tutte le speculazioni che ne sono derivate credo sia stata una cosa positiva per il nostro lavoro», afferma Serena Tabacchi, direttrice e cofondatrice del Mocda, il museo dell’arte contemporanea digitale che è al tempo stesso “online, decentralizzato e Irl (in real life)”. «Mocda è uno spazio virtuale, non votato esclusivamente alla promozione, ma anche alla conoscenza ed esposizione di progetti d’arte digitale contemporanea», continua Tabacchi. 

Per la direttrice del Mocda è importante operare una distinzione tre le opere d’arte vendute su Nft e le serie di Nft come le Bored Apes: «I collectibles sono interessanti, anche io ne ho alcuni, ma è chiaro che ci sia molta speculazione dietro questi progetti, che in ogni caso non sono arte. Con il museo cerchiamo di educare e promuovere un tipo di esperienza artistica che secondo noi è il futuro. Non abbiamo fatto i miliardi, ma abbiamo creato tanta cultura e spero continueremo a farlo in modo sostenibile, a livello sia ambientale sia etico».

In Italia, una delle startup più innovative in ambito criptoartistico è sicuramente ReasonedArt, la prima galleria di arte digitale in Italia. «L’idea mi è venuta mentre studiavo beni culturali a Genova», dichiara il 24enne Ceo di ReasonedArt Giulio Bozzo. «Ho curato una mostra di arte digitale e sono rimasto folgorato dalla potenzialità di questa tecnologia. Da lì è stato un crescendo, adesso facciamo mostre e promuoviamo artisti sia in digitale sia dal vivo».

Un crescendo culminato nella vendita su Nft dell’installazione che il collettivo tedesco Ouchhh ha fatto all’Arco della Pace di Milano lo scorso gennaio. «Sarà il primo monumento a essere venduto in Nft», commenta orgoglioso Bozzo. Una sessantina d’anni fa, anche Totò riuscì a vendere la Fontana di Trevi a una coppia di sfortunati turisti. Ma questa è decisamente un’altra storia.

Ok, ho comprato. Ma cosa?

Abbiamo già detto che acquistare un Nft certifica il possesso dell’opera digitale a cui rimanda. Ciò che è meno chiaro riguarda i diritti legali che l’acquirente o l’autore esercitano sull’opera di riferimento. «Per quel che riguarda la tutela del diritto d’autore non sappiamo ad oggi come interviene la tecnologia blockchain, ma il fatto di poter controllare con trasparenza tutti gli spostamenti di un Nft può rivelarsi molto utile in futuro», sottolinea Lucia Maggi, avvocato, ceo e partner dello studio legale 42 Law Firm, specializzato in diritto e trasformazione digitale. 

Tante, quindi, le zone ombra, che non si limitano solo all’esercizio dei diritti come quelli d’autore o di proprietà. Un ingente traffico di denaro fuori dal controllo delle istituzioni tradizionali si presta infatti a operazioni di riciclaggio e spostamento illecito di capitali, oltre al pericolo costante di truffe e hacking

«Quando si parla di truffe legate alla blockchain viene subito in mente un hacker geniale alla Mr.Robot», dichiara Jacopo Fracassi, ricercatore dell’Osservatorio blockchain del PoliMi, «ma la realtà è molto più semplice: spesso dietro i furti di Nft o di wallet digitali c’è dietro un banale caso di phishing, più simile a una truffa telefonica che a un attacco hacker».

Niente di nuovo, quindi. «Questi fenomeni sono certamente presenti nella blockchain, ma esistono anche nel mondo reale», commenta Marco Tullio Giordano, avvocato e partner di 42 Law Firm. «In più, nella blockchain rimarrebbe segnata per sempre la transazione sospetta, quindi gli investigatori avrebbero sempre a disposizione la prova dell’illecito».

In ogni caso, a farla da padrona è l’incertezza: non essendoci una legge specifica sulla tassazione delle criptovalute, questi criptomilionari hanno due strade da percorrere:  possono mantenere il loro denaro fermo all’interno dei wallet digitali, sperando che la valuta che hanno accumulato non venga svalutata, oppure possono investire in asset digitali, pagandoli anche milioni e diversificando l’investimento nel tentativo di creare un valore stabile nel tempo.

Al netto della confusione, delle zone d’ombra e della disputa tra entusiasti e scettici, il “fenomeno Nft” sta mettendo alla prova il modo in cui pensiamo a concetti come la proprietà e il possesso, sia nel mondo digitale sia in quello reale.

Il futuro degli Nft e gli Nft del futuro

Il 2021 è stato l’anno degli Nft, con vendite salite alle stelle e un mercato che da pochi milioni è arrivato a più di 44 miliardi di dollari. Alcuni esperti dicono che il segmento Nft raggiungerà una capitalizzazione di mercato di 80 miliardi di dollari entro il 2025, ma anche se non dovesse essere così pare difficile immaginare questi asset scomparire del tutto nel giro di qualche anno.

Solo sulla blockchain di Ethereum – la più gettonata per gli Nft – i volumi sono aumentati esponenzialmente negli ultimi mesi, con un impennata a partire da metà 2021.

Nonostante la speculazione e lo scetticismo sulla natura apparentemente instabile e non regolamentata degli Nft, questi asset hanno guadagnato terreno in particolare tra i millennial e la Gen-Z, che li vedono sempre più come un modo per formare una community unita e connettersi con i loro artisti e brand preferiti. Su queste basi, gli Nft potrebbero trasformare radicalmente le due industrie che più di tutte sono sensibili alle istanze delle nuove generazioni, quella musicale e quella videoludica.

In ambito musicale, gli artisti potrebbero rilasciare versioni tokenizzate dei loro brani e avere il completo controllo delle transazioni legate ad essi, dagli streaming alla ripartizione delle royalties. I fan potrebbero vantarsi di essere gli unici proprietari della loro canzone preferita, e gli autori continuerebbero comunque a trarre profitto da ogni eventuale futura rivendita. Tra le altre ipotesi sul piatto c’è quella di tokenizzare il commercio dei biglietti dei concerti, snellendo le transazioni e permettendo a chi acquista un biglietto di rivenderlo con facilità nel caso in cui non potesse più parteciparvi.

Anche l’industria videoludica è molto attenta agli sviluppi della tecnologia Nft: «Acquistare l’Nft di un potenziamento, di un’arma o di una skin su un videogioco», afferma Vincenzo Rana dell’Osservatorio Blockchain e Distributed Ledger del Politecnico di Milano, «renderebbe il giocatore possessore di quel determinato asset e quindi gli consentirebbe di venderlo o scambiarlo in totale autonomia, magari guadagnando anche qualcosa». D’altro canto esistono già numerosi giochi che permettono agli utenti di guadagnare giocando. Sono i cosiddetti play to earn, videogiochi programmati interamente su blockchain: partecipando all’economia di gioco, i giocatori creano valore per la community e per gli sviluppatori, e quindi vengono premiati con risorse di gioco. Queste risorse digitali, che possono essere anche criptovalute, sono tokenizzate sulla blockchain e i giocatori possono venderle o scambiarle a loro piacimento.

Ma “l’elefante (reale) nella stanza (virtuale)” quando si parla di blockchain e annessi rimane però la questione ambientale: è inutile girarci intorno, queste tecnologie inquinano parecchio. Uno studio ha infatti calcolato che se la blockchain Bitcoin fosse uno Stato, sarebbe il 26esimo paese più energivoro sulla faccia della terra. E di blockchain come Bitcoin ne esistono a decine. Così aziende, società finanziarie e organizzazioni no profit ad aprile scorso hanno firmato il “Crypto Climate Accord”, ispirato agli accordi di Parigi del 2015,  per ottenere entro il 2030 la completa neutralità del carbonio. Come sottolineato da più associazioni ambientaliste come Greenpeace, non è possibile pensare che questo sia il futuro del digitale senza prendere in considerazione la questione ambientale. 

Soluzioni in cerca di un problema

Cosa rimane quindi di queste tecnologie, al netto dell’impatto ambientale e della speculazione economica? Potenzialmente tanto, nonostante la sperimentazione proceda a tentoni e l’attenzione pubblica sia concentrata sulle cifre folli legate agli Nft. Ma d’altra parte l’innovazione passa anche da questo: la blockchain ci indica la luna e noi guardiamo il dito

La differenza questa volta è nella comunità di utenti che questa tecnologia riesce a creare e connettere insieme. Oggi il potenziale offerto dalla blockchain è limitato dal fatto che le persone vedono in essa unicamente un’opportunità per farci dei soldi, ma non sarà sempre così. Anche se non abbiamo capito ancora come usarla, questa tecnologia potrebbe davvero avere un impatto sulla nostra vita. La verità è che Web3, blockchain e Nft sono tutte soluzioni a problemi che ancora non ci siamo posti.