NON È UN GIOCO DA RAGAZZI

In Italia la gaming industry ha superato il miliardo di euro di ricavi. Su oltre 120 studi di sviluppo, uno su quattro ha sede a Milano. Producono lavoro e fanno successo anche all’estero, ma servono più investimenti. Forse non ve ne siete accorti: i videogiochi sono diventati una cosa seria

di Massimo Ferraro e Marco Procopio

Milano, ore 19. Davanti a un teatro in pieno centro continuano a fermarsi decine di macchine scure. Dal sedile posteriore scendono uomini in smoking e donne in abito da sera. Tappeto rosso, flash dei fotografi, flute e finger food di benvenuto: la cerimonia sta per cominciare. A guardare la sala dal fondo, sembra di essere a Los Angeles per i Golden Globe. Ma avvicinandosi ai tavoli, ecco la sorpresa. Spille di Super Mario, tatuaggi in lingua elfica, una cravatta in pixel art. Questa non è la notte del cinema. Al Teatro Vetra si celebrano i videogiochi.

Nel 2018 gli Italian Video Game Awards si sono trasferiti da Roma a Milano. E per l’occasione, gli organizzatori di Aesvi (Associazione editori sviluppatori videogiochi italiani) hanno fatto le cose in grande: ospiti internazionali, cena di gala e più di quattrocento invitati. Un evento pensato per attirare l’attenzione sull’intera industria dei videogiochi, che nell’ultimo anno ha prodotto in Italia quasi 1 miliardo e mezzo di euro di ricavi. Perché Milano? È qui che hanno sede i più grandi studi di sviluppo nazionali ed è sempre qui che un gigante del settore come la francese Ubisoft ha deciso di aprire la sua succursale italiana. Una realtà ormai consolidata, che negli anni ha generato conoscenze, visibilità e finanziamenti, tanto da convincere anche “i piccoli” ad avviare la propria software house in città. È così che ha fatto il 25 per cento degli sviluppatori indipendenti italiani, come Lara Gianotti e Andrea Tabacco di Antab Studio ed Emmanuele Tornusciolo e Gabriele Arnaboldi di Italo Games.

«CREARE UN MONDO
CON LE SUE REGOLE»

Dall’ultimo piano di Torre Velasca, un boss della mala dà inizio a una guerra tra bande per riprendere il controllo della Darsena. Piero Sacchi, appena uscito dal carcere di San Vittore, per riuscire a sopravvivere deve eliminare i nemici che lo hanno incastrato. Sparatorie, inseguimenti, musica funk e atmosfera anni Settanta. Non è il nuovo film di Quentin Tarantino, ma Milanoir, il videogioco in pixel art realizzato da Emmanuele Tornusciolo e Gabriele Arnaboldi, insieme all’artista barese Giuseppe Longo. «Tra ricerche fotografiche, scrittura della storia e coding ci abbiamo messo un anno e mezzo a realizzarlo», spiega Emmanuele. «Siamo stati fortunati a trovare subito un investitore che credesse in questo progetto. Ci sentiamo un po’ un unicum nel circuito degli sviluppatori indie». Emmanuele ha 30 anni, ha studiato antropologia all’università e questa è la sua prima esperienza nel settore. Gabriele, informatico e developer autodidatta, di anni ne ha 35 e il suo sogno è sempre stato quello di creare videogiochi. «L’idea è nata in modo naturale: siamo appassionati di cinema di genere, in particolare dei tradizionali poliziotteschi italiani, e viviamo entrambi a Milano», aggiunge Gabriele. «Dopo aver finito lo sviluppo per Pc, abbiamo iniziato a lavorare alle versioni per le console. Milanoir dovrebbe uscire in primavera. Ora è tutto nelle mani del publisher».

Ancora in fase embrionale, ma in crescita. È così che Aesvi definisce l’industria dei videogiochi in Italia. Qui gli studi di sviluppo sono più di 120. Molti di questi sono formati da giovani developer che fondano un team, realizzano un singolo gioco e poi si sciolgono. Gli altri, il 60 per cento, sono delle vere e proprie società. Come Antab Studio srl, nata dall’incontro fra Andrea Tabacco e Lara Gianotti, che insieme hanno deciso di investire in questa passione. «Quando lavori per un’azienda, dal punto di vista economico sei protetto: non sei tu a rischiare in prima persona. Ora invece è tutto diverso», dice Andrea. «La prima cosa con cui ti devi scontrare è cambiare ritmo di vita e modo di pensare», spiega Lara, «devi curare ogni aspetto, dallo sviluppo alla ricerca del publisher, dal marketing alla pubblicità, fino alle questioni burocratiche: alla fine capisci che il compito di uno studio non è solo quello di realizzare un gioco, ma di occuparsi dell’attività di produzione nella sua interezza». Ostacoli che non hanno impedito ad Andrea e Lara di pubblicare il loro primo titolo, GRIDD: Retroenhanced, e ottenere una candidatura agli Italian Video Game Awards nella categoria “Best italian debut game”.

«Ho sempre pensato di voler fare videogiochi, ma non sapevo da dove partire. Così a sedici anni ho scritto un curriculum e l’ho portato a Ubisoft Milan, che all’epoca era uno dei pochi grandi studi in Italia. Ovviamente non mi hanno preso», ricorda Andrea con un sorriso. «Anche all’università non esistevano corsi per game designer, c’era un muro che impediva di entrare in contatto con questo mondo. Poi le cose sono iniziate a cambiare».

PREGIUDIZI
DA DISTRUGGERE

Negli ultimi dieci anni, il mercato italiano dei videogiochi ha quasi raddoppiato il suo volume. Scuole e università hanno aperto corsi specialistici per formare giovani talenti e avviarli nella gaming industry, che oggi dà lavoro a più di mille professionisti. Una trasformazione che trova in Milano il suo baricentro. «Qui l’ambiente è vivace e dinamico. Ci sono studi grandi e piccoli, che permettono agli sviluppatori di crescere e sperimentare», dichiara Thalita Malagò, direttore generale di Aesvi. «La fiera più importante del settore, la Milan Games Week, è arrivata alla sua ottava edizione. Ma quest’anno c’è stata un’altra novità».

Il giro d’affari degli studi di sviluppo italiani è cresciuto da 20 a 40 milioni di euro tra il 2014 e il 2016. E secondo le stime è destinato ad aumentare ancora. Ma sono tante le software house che per sopravvivere devono dedicare parte della proprie risorse ad attività esterne al mondo dei videogiochi. «Nella nostra società convivono due anime, il gaming e l’e-learning», dice Alessandra Tomasina, marketing manager di Digital Tales. «Lavoriamo con scuole e musei, ma anche con aziende: realizziamo spot motivazionali e piattaforme virtuali per la formazione. Grazie ai ricavi di questa attività riusciamo a investire nella nostra vera vocazione, cioè lo sviluppo di videogiochi». Digital Tales è uno studio milanese nato nel 2006. Il team è composto da circa 15 dipendenti e varia in base alle necessità. I loro giochi hanno superato complessivamente i 40 milioni di download, di cui 35 con la licenza della Superbike (SBK). «Una buona idea è solo il punto di partenza per creare un videogioco, servono qualità, tempo e soldi», aggiunge Tomasina. «Dal progetto, allo sviluppo, fino alla pubblicazione e al marketing, sono molte le competenze di cui ha bisogno un team per avere successo».

«Produrre un videogioco è un investimento ad alto rischio, perché richiede tempi molto lunghi: fino a 6 mesi se è un titolo per smartphone, da 2 a 3 anni se è per console», afferma Giovanni Bazzoni, Ceo di Digital Tales. «Il pericolo è di uscire con un gioco che è già vecchio rispetto a quando era stato pensato, oppure di non farcela a rientrare nei costi». Paure che sono condivise da tutti i team di sviluppo. Anche i più grandi.

# DON’T CRY
UBISOFT MAN

Los Angeles, 12 giugno 2017. Il gigante francese Ubisoft sta tenendo la sua tradizionale conferenza all’E3 (Electronic Entertainment Expo), la fiera annuale più importante del settore, per annunciare i videogiochi in uscita nei mesi successivi. All’improvviso, sale sul palco un ospite inaspettato. È Shigeru Miyamoto, uomo Nintendo e inventore di Super Mario, invitato per presentare Mario + Rabbids Kingdom Battle. Il gioco è stato sviluppato da Ubisoft Milan, l’unico studio aperto in Italia da una multinazionale dei videogiochi, in collaborazione con la casa di Kyoto. «Quando ho incontrato Davide Soliani, avevo solo una condizione per questo progetto», spiega Miyamoto dal palco. «Qualunque cosa tu faccia, non cercare di creare un classico platform, crea un gioco di Mario mai visto prima». Soliani, direttore creativo del videogioco, è seduto in platea e si alza commosso per ringraziare il pubblico. «Quelle lacrime racchiudevano tre anni e mezzo di duro lavoro, di paure, di aspettative e responsabilità verso tutte le persone del team. Quando Miyamoto è salito sul palco, l’enorme macigno che avevo sulle spalle si è polverizzato», racconta Soliani a distanza di un anno. «Ho sempre avuto il timore che il progetto potesse arrestarsi, oppure che i giocatori non apprezzassero la nostra proposta. Non è accaduto nulla di tutto questo, anzi». Mario + Rabbids è uno dei più grandi successi di Ubisoft Milan e permetterà al team italiano, che oggi è formato da circa 70 dipendenti, di crescere ed espandersi ancora.

«Ho iniziato questa carriera come giornalista di videogiochi, poi ho deciso di buttarmi e di provare a entrare in Ubisoft», aggiunge. «In quegli anni non era scontato avere una connessione internet e trovare documentazione online così come siamo abituati oggi, quindi ho fatto tutto con le mie mani: mi sono presentato con uno studio sull’importanza del ritmo nei controlli di The Legend of Zelda Ocarina of Time ed è andata bene». Da allora, Soliani è diventato uno dei game designer italiani più famosi e apprezzati al mondo. Una storia, la sua, che fa da modello per tanti giovani sviluppatori milanesi. «Il talento è ben distribuito su tutto il territorio italiano», sostiene Dario Migliavacca, managing director di Ubisoft Milan, «tuttavia è innegabile che Milano sia in grado di offrire un mercato del lavoro molto dinamico, che aiuta le aziende a reclutare più facilmente i professionisti del settore o i neolaureati in cerca di una prima esperienza». Ma non mancano i problemi. «Se paragoniamo l’industria italiana a quella di altri Paesi, abbiamo ancora un gap enorme da colmare», aggiunge Migliavacca. «Mi auguro che le norme sul tax credit siano introdotte al più presto: si tratterebbe di un segnale concreto per questa industria, che spesso viene sottovalutata o addirittura ignorata dalle istituzioni».

VARESE-TOKYO
ANDATA E RITORNO

A differenza dell’Italia, in molti Paesi del mondo i videogiochi sono considerati una fonte di guadagno al pari di altri settori strategici, come l’industria dell’automobile o quella alimentare. Succede in Giappone, dove il mercato dei videogiochi ha superato i 12 miliardi di dollari di ricavi nel 2017. Una realtà che l’italiano Massimo Guarini ha potuto sperimentare sulla sua pelle. «La mia esperienza in Giappone è stata straordinaria», racconta il game designer. «Ho imparato una cosa fondamentale: l’autodisciplina, perché non basta essere folli, creativi e avere delle buone idee. È necessario essere disciplinati abbastanza per poterle realizzare, rispettando il budget di produzione e tutte le scadenze». Guarini è stato scelto dal visionario sviluppatore giapponese Suda51 di Grasshopper Manufacture per dirigere Shadows of the Damned, gioco uscito su console nel 2011. Dopo il periodo trascorso nel Sol Levante, però, il game designer ha deciso di tornare in Italia, a Varese, e di fondare la sua software house Ovosonico. «Ho fatto questa scelta perché volevo poter dire qualcosa di mio», aggiunge Guarini. «E poi, invece di esportare il made in Italy come si fa in altri settori, noi proviamo a puntare i riflettori internazionali sull’Italia». Un obiettivo che il Ceo di Ovosonico ha già raggiunto con il suo ultimo gioco, Last day of June, nominato nella categoria “Game beyond entertainment” ai Bafta Video Game Awards, la sezione del noto premio britannico per il cinema dedicata al mondo videoludico. «Non ce l’aspettavamo proprio», commenta Guarini. «Questo risultato è la dimostrazione che i videogiochi non sono solo un passatempo per ragazzi, ma sono in grado di parlare al cuore delle persone e di farlo attraverso il gameplay. Perciò il mio invito a tutti i giovani sviluppatori è quello di lavorare sodo e di contribuire allo sdoganamento del videogioco. Perché ne abbiamo tutti bisogno».