OLTRE IL NOVANTESIMO

di Alberto Mapelli Marco Vassallo

«Ma voi come siete messi domenica? Riuscite ad organizzarvi con il lavoro?», chiede Daniele Raduazzo, studente venticinquenne di medicina e, nel (poco) tempo libero, vice-allenatore del Sant’Ambroeus Fc. «Non lo sappiamo mister, dobbiamo chiedere al capo», rispondono Diaby Abdoulaye, senegalese di 23 anni soprannominato Laye, e Toure Mamadou, venticinquenne originario della Costa d’Avorio che tutti chiamano Alex. «Ragazzi, abbiamo bisogno di almeno uno di voi. La prossima dobbiamo vincerla».

Milano, fermata Abbiategrasso, giovedì sera. Ha da poco smesso di piovere in via Sant’Abbondio, sul campo pesante del Club Milano, dove il Sant’Ambroeus si allena. Prima di iniziare la seduta bisogna risolvere uno dei soliti problemi organizzativi: trovare gli undici che giocheranno e, soprattutto, assicurarsi la presenza degli elementi migliori. «Facciamo così – dice Raduazzo -. Laye, tu cambi il turno questa domenica e Alex la prossima». Problema risolto, tutti a fare stretching.

Nelle stesse ore il gruppo “Armata pirata 161si riunisce a Palestro per preparare il materiale di un corteo: fumogeni, bandiere, e slogan sui cartelli raccontano di ideali di sinistra. L’equipaggiamento indispensabile di ogni militante, di chi fa politica nelle strade e nei quartieri milanesi. Ma negli zaini ci sono anche adesivi con un piccione: il simbolo del Sant’Ambroeus, la squadra di cui sono ultras. Domenica c’è il derby contro gli «amici» del Partizan Bonola e bisogna preparare la coreografia. «Dobbiamo essere in tanti – dice Stefano Diena, vent’anni, uno dei fondatori della curva -. I ragazzi hanno bisogno di noi».

È la normale settimana di una squadra di terza categoria e dei tifosi che la accompagnano alle partite. Conciliare il lavoro con l’impegno della domenica per il Sant’Ambroeus è ancora più complicato. I suoi calciatori sono quasi tutti immigrati e quell’impiego serve per mandare i soldi alle famiglie, pagarsi un affitto o convincere la Commissione territoriale a dar loro il permesso di soggiorno. Nell’Italia dei Balotelli e dei Lukaku e dei buu razzisti negli stadi di Serie A, esiste una realtà come quella del Sant’Ambroeus: non è una semplice squadra, è un progetto che, con il calcio, aiuta i ragazzi provenienti dall’Africa ad integrarsi nel nostro Paese.

Prima il calcio, poi il resto

È iniziato tutto nel dicembre del 2015. «Siamo andati fuori dal centro di accoglienza di via Aldini senza un’idea precisa. Volevamo solo fare qualcosa di concreto – racconta Davide Salvatori, dirigente della squadra e presente dal primo giorno -. Abbiamo incontrato Kalilou Koteh, un ragazzo gambiano di 25 anni, e l’unica cosa di cui parlavamo era il calcio. Da lì abbiamo deciso di formare una squadra di soli richiedenti asilo». Si chiamavano Black Panthers e fino al 2018 hanno giocato nei tornei di calcio popolare o di federazioni minori. Ad aprile dello stesso anno si sono fusi con un’altra squadra di immigrati, i Corelli Boys, e si sono iscritti ad un campionato della Figc. Così è nato il Sant’Ambroeus Fc e Kalilou, quel ragazzo gambiano conosciuto in via Aldini, è diventato il presidente di una società che ora “accoglie” anche italiani. Nello stesso anno si è formata la tifoseria, “Armata pirata 161”, un gruppo organizzato di circa 25 persone. «Il nome strizza l’occhio a esperienze ultras connotate politicamente, come quella del St.Pauli in Germania. E poi ci piace definirci pirati, perché sappiamo muoverci nel mare d’asfalto della metropoli», racconta Pietro Bolzoni, uno dei fondatori.

Sul gommone eravamo in 130. Ci siamo salvati in 26. Sono stato solo più fortunato.

Kali

 

Per disputare un campionato Figc servono quasi quindicimila euro ogni anno. «La scorsa stagione ce l’abbiamo fatta grazie a un crowdfunding da diecimila euro – spiega Salvatori – a cui si sono aggiunte donazioni di altre associazioni». Ora sono arrivati anche dei soldi pubblici. «Abbiamo vinto un bando comunale che ci aiuta a coprire le spese di affitto del campo. In cambio abbiamo organizzato attività utili al quartiere come una scuola calcio per bambini».

Dei venticinque tesserati, diciannove provengono da sette paesi africani e quasi tutti sono musulmani. Storie personali diverse, ma un tratto in comune oltre alla passione per il calcio. Hanno lasciato la loro terra, dove democrazia, pace e possibilità economiche non sono garantite, per costruirsi una nuova vita in Italia. Molti hanno alle spalle una strada che parte dall’Africa occidentale, passa per il deserto del Sahara e la Libia e si conclude in Sicilia, dopo la traversata del Mediterraneo. «Sono quasi due anni di viaggio, tra autobus e macchina, per arrivare dal Senegal», ricorda Mohamed Kaba, detto Momo, centrocampista di vent’anni. Oltrepassato il Sahara, è stato tre settimane in un campo di prigionia in Libia. «Lavoravo tutto il giorno senza essere pagato e per mangiare pescavamo con le mani dalla stessa pentola». Alex è il capitano del Sant’Ambroeus e nelle prigioni libiche ci è rimasto quattro mesi. «Poi un giorno ci hanno detto: “Salite su un barcone e andate a morire in mare. Qui non vi vogliamo più vedere”».

 

Una volta in acqua non tutti ce la fanno. «Eravamo in 130 sul nostro gommone. La marina inglese è riuscita a salvarci solo in 26», racconta Mohamed Diaoune, detto Kali, difensore senegalese di vent’anni. «Io non mi sono salvato perché sono più uomo o più bravo di quelli che sono affogati. Sono solo stato più fortunato».

Chiedere il permesso per rimanere

Una volta in Italia inizia l’iter per avere il permesso di soggiorno. Dei diciannove ragazzi del Sant’Ambroeus, solo in sette lo hanno ottenuto (cinque protezioni umanitarie, una sussidiaria e una per motivi familiari). Gli altri dodici aspettano ancora una risposta definitiva, ma in quattro hanno avuto un primo parere negativo e hanno fatto ricorso. Fino a ottobre del 2018, il modo più semplice per rimanere era la protezione umanitaria. Un tipo di tutela che è stato ridimensionato dal decreto Sicurezza. Dopo il provvedimento del governo gialloverde, infatti, le uniche protezioni rimaste sono quella internazionale e quella sussidiaria. Una stretta sui permessi di soggiorno c’era stata già durante il governo Gentiloni. Nell’aprile del 2017 il decreto immigrazione aveva tolto un grado di giudizio sulle richieste d’asilo. Dopo il primo verdetto della Commissione territoriale, organo che si occupa di esaminare i documenti, non esiste più l’appello. Vale a dire che l’eventuale diniego può essere ribaltato solo in Cassazione.

Una volta sbarcati e identificati, i migranti vengono trasferiti nei centri di prima accoglienza (Cara), dove vengono avviate le procedure per la domanda di protezione. Dopo questa prima fase, i richiedenti asilo passano ai centri di seconda accoglienza: gli ex Sprar, ora Siproimi secondo la nuova definizione data dal decreto Sicurezza. Alcuni dei ragazzi del Sant’Ambroeus vivono ancora in queste strutture, come Momo e Kali. Con tutte le limitazioni che ne conseguono. «Dobbiamo rientrare entro mezzanotte e firmare tutti i giorni. Per dormire da amici ci deve autorizzare il direttore e non possiamo stare fuori più di due notti di fila». A questo sistema si affiancano i Cas (Centri di accoglienza straordinari): alberghi, appartamenti o altre strutture gestite da enti del terzo settore. Con le nuove leggi, però, i Cas sono in via d’estinzione. «I tempi di attesa per la risposta della Commissione si sono ridotti. Per i nostri ospiti, siamo passati da un anno a quattro mesi», sostiene Costantina Regazzo, direttrice dei servizi di Progetto Arca. «I finanziamenti sono diminuiti da 35 euro al giorno per ospite a poco più di 21 e le attività sono sempre di meno». Gli ospiti dei Cas, poi, non possono costruirsi una stabilità economica. «Se guadagnano più di cinquemila euro lordi all’anno perdono il diritto a rimanere nel centro».

Anche giocare a calcio in un campionato dilettantistico può diventare difficile per un immigrato. Le regole della Figc impongono la presenza obbligatoria di due documenti: il permesso di soggiorno o un suo sostituto – come l’appuntamento in questura per elaborare la richiesta d’asilo – e la residenza. «Dopo il decreto Salvini i richiedenti hanno più difficoltà a ottenere il certificato di residenza», spiega Giuliano Facchinetti, dirigente addetto ai tesseramenti. «L’alternativa è chiedere al direttore la “dichiarazione d’ospitalità” che funge da documento sostitutivo della residenza». Per chi è appena arrivato, però, i tempi per poter scendere in campo si allungano. «In caso di primo tesseramento con la Figc i documenti vanno in sede centrale a Roma perché devono verificare che nessuno di questi ragazzi sia stato un professionista nel proprio Paese».

Guardie di sicurezza, rider o idraulici

 

Quasi tutti i ragazzi del Sant’Ambroeus hanno un impiego, ma non sempre la stabilità economica è assicurata. Alex lavora come guardia di sicurezza al negozio di Valentino in via Montenapoleone e dopo anni in periferia sogna di stabilirsi in centro città. «Vorrei affittare un appartamento con alcuni amici, ma ho bisogno di soldi». Lavora sette giorni su sette a cinque euro l’ora. Karamo Jatta, gambiano ventenne, si sdoppia tra ristorante e call center per guadagnare a stento mille euro al mese. Non sempre ci arriva, «dipende da quanti piani telefonici riesco a vendere».

Momo fa il rider per Glovo e Deliveroo e guadagna al massimo 800 euro al mese. «In tre ore posso fare anche otto consegne, ma i giorni in cui mi metto sulla bici li decido io». Moussa Barry, ventenne originario della Guinea, in questo momento è disoccupato. Prima raccoglieva frutta e verdura in Spagna, ora accetterebbe «qualsiasi lavoro pur di rimanere in Italia». Qualcuno, però, delle certezze in più ce le ha. Gnegnery fa l’idraulico per una ditta privata e guadagna 1.300 euro al mese. «Con il mio stipendio non me la passo male e ho il contratto fino a luglio dell’anno prossimo». Kali lavora per SuitApp, una ditta di pulizie. Arriva in Duomo da un centro d’accoglienza in Brianza per sistemare gli appartamenti più lussuosi di Milano.

 

I suoi turni non superano mai le otto ore e lo stipendio oscilla tra i mille e i 1.400 euro al mese. «La mia richiesta di permesso è stata respinta, ma l’avvocato mi ha promesso che ora, visto che ho un contratto, vinceremo il ricorso. E poi dovrebbero farmi l’indeterminato». Uno stipendio di 1.400 euro al mese lo vorrebbero molti italiani. Bisogna considerare però che parte di questi soldi serve per mantenere la famiglia in Africa. «Sono fuggito dal Senegal perché eravamo estremamente poveri – ricorda Kali -. Ora aiuto i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella». Anche Gnegnery manda soldi a casa. «Lì c’è la mia fidanzata. Ci sentiamo ogni giorno, ma non la vedo da sei anni».

Faccio l’idraulico e guadagno 1.300 euro al mese. Non vedo la mia fidanzata da sei anni.

Gnegnery

Derby tra “fratelli”

 

Abbiategrasso, è il giorno del derby con il Partizan Bonola. Il cielo è nuvoloso ma per il momento non piove.  Sospiro di sollievo, «Si gioca!», esultano giocatori e tifosi, ricordando com’era finita l’ultima volta in casa, quando l’arbitro aveva rinviato il match per terreno impraticabile.  Quel giorno i ragazzi dell’Armata Pirata erano venuti lo stesso e avevano continuato a cantare anche dopo il rinvio. Ora, per il derby, sono più numerosi e si mischiano con la curva del Partizan. «Veniamo entrambi dal calcio popolare, abbiamo gli stessi valori», ci racconta Matteo Cimbal, 19 anni, milanese, ultras del Sant’ Ambroeus. Intanto i giocatori entrano in campo. Manca Laye. Alla fine, a lavoro ci è dovuto andare e sta correndo in ritardo verso il campo.

 

Segna subito il Partizan, su rigore. Pesano le assenze di Alex e Laye, che appena arrivato va a sedersi direttamente in panchina. La divisa infilata al volo ed è pronto a entrare. Ma nel frattempo le cose si complicano perché il Sant’Ambroeus rimane in 10 e non riesce a reagire: troppe iniziative individuali e poco gioco di squadra. «Questo succede perché molti dei ragazzi provano a fare tutto da soli», racconta Tommaso Merini, terzino sinistro originario di Bologna. «Credono che l’individualismo che li ha salvati nel viaggio possa aiutarli sia in campo che nella vita. Queste difficoltà però fanno capire loro una cosa: se affronti il mondo da solo finisci per perdere».

Laye esulta dopo il pareggio con il Partizan Bonola.

Sulla carta La Rosa sarebbe molto promettente. «Meriteremmo più di quello che la classifica racconta – precisa l’allenatore ventiquattrenne Vincenzo Ardita -. Il problema è che i miei giocatori non sono costanti e faticano a collaborare per raggiungere un obiettivo comune. Con i ragazzi vado d’accordo, anche se fuori dal campo preferisco mantenere il distacco». 

Tra compagni di squadra il rapporto è molto diverso e si è costruito con il tempo. «All’inizio facevamo fatica a parlare con loro, ora ci vediamo anche dopo gli allenamenti e qualcuno ha iniziato ad aprirsi», racconta Michael Hazan, ventunenne milanese di origine ebraiche. La dirigenza fa passaparola per aiutarli nella ricerca del lavoro. I tifosi promuovono il progetto organizzando eventi. Kalilou, presidente ed ex giocatore, è sugli spalti a cantare con loro. Elisa Pasquadibisceglie, 26 anni, segue partite e allenamenti. Ogni tanto scatta qualche bella foto e spesso “scarrozza” Kali dalla Brianza fino a Milano: «Sono una specie di mamma per lui. Mi sono avvicinata al Sant’Ambroeus perchè il mio ex fidanzato fa parte della dirigenza. Poi sono rimasta per aiutare». Nel secondo tempo la musica cambia. L’ingresso di Laye ha dato solidità alla difesa e le giocate di Gnegnery aiutano la squadra a risalire. Ma a pareggiare la partita ci pensa il bomber Tommaso Gimbo, che con un bolide dai trenta metri  fa esplodere i “pirati”. Finisce 1-1.

All’inizio facevamo fatica a parlarci, ora ci vediamo anche dopo gli allenamenti e qualcuno ha iniziato ad aprirsi.

Michael

Sulle tribune le due curve cantano insieme e si abbracciano. Non capita sempre. «L’anno scorso la tifoseria del San Giorgio Limito è venuta a provocare e a intimidire i giocatori con braccia tese e torce tricolori», racconta Cimbal. «Per noi la violenza è uno strumento di lotta e giustifichiamo il suo utilizzo quando limita l’azione dei fascisti. Quella volta abbiamo deciso di non reagire per preservare l’immagine della squadra. Abbiamo cantato per novanta minuti e portato a casa i tre punti». Parlando con i ragazzi africani l’impressione è che il razzismo sia un argomento tabù. Qualcuno è consapevole dell’esistenza del problema. «Ci sono italiani razzisti, anche se nessuno mi ha mai insultato dicendomi di tornare in Africa – dice Momo, che è sicuro -. Senza discriminazione l’Italia è un Paese bellissimo».

Gli ultras del gruppo "Armata pirata 161" prima della partita

Dopo la doccia si torna alla vita quotidiana. Momo va verso il centro d’accoglienza, mentre Gnegnery prende la metro con gli scarpini in una mano e il cellulare nell’altra. Ha la serata libera e forse sta già chiamando la sua fidanzata, quella che non vede da sei anni. Karamo, invece, ha il turno al ristorante. Dopo non ha appuntamenti, perché «per stare con una ragazza italiana servono una macchina e i soldi per pagare una cena». Una volta con un’italiana ci è uscito, ma non c’è stato un secondo incontro. «Quando ha saputo che vivevo nel centro d’accoglienza, mi ha detto che era fidanzata».