Pain killers: 12 ore di felicità

Quando gli oppioidi non uccidono il dolore, ma uccidono e basta

di Lucio Palmisano e Martina Piumatti

«Sedano al punto da addormentarti mentre sei fermo al semaforo e della stitichezza non te ne liberi. Hai il 50 per cento di probabilità che ti venga la depressione. Per non parlare dello stigma sociale che paghi perché sei un malato che si fa di oppioidi e la sensazione, fissa, di essere un peso per chi ti sta vicino e si vergogna di te. L’overdose poi arriva e manco te ne accorgi. Non respiri più e se ti va bene ti risvegli in ospedale inserito in un percorso di disintossicazione a base di metadone. Gli assistenti sociali ti tolgono la genitorialità di tuo figlio perché il suo problema sei tu. Ma la cosa peggiore è sentirti ed essere trattato da “tossico” dal medico che quei farmaci te li ha prescritti».

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Ogni giorno è così per Angela. Questo non è il suo vero nome. Ha chiesto di rimanere anonima perché la convivenza con gli oppioidi trascina con sé gli stereotipi e le difficoltà che legano le relazioni sociali di tutti i tossicodipendenti. Ha 50 anni appena e la sindrome di Ehelers-Danlos, un morbo infame che ha cominciato a mangiarle le cartilagini costringendola su una sedia a rotelle con dolori ovunque. Ogni giorno è così anche per Carla, 48 anni e un parto cesareo andato male. Anche il suo è un nome di fantasia: da 23 anni lotta per alzarsi dal letto

Entrambe fanno parte di quel 26 per cento di Italiani che soffre di dolore cronico.

Più della metà sono donne. C’è chi è tormentato da una tendinite che non gli dà tregua. Chi deve fare i conti con i postumi di un intervento o con una rara malattia degenerativa, ma i più sono esasperati da un mal di schiena che non se ne va o da una cefalea che ritorna implacabile. 

Angela e Carla hanno dovuto far ricorso agli oppioidi per resistere al dolore. Non una scelta istintiva ma, come prescrive la legge, orientata da medici professionisti. Nel tempo però, quei farmaci che promettevano di aiutarle si sono trasformati in un tunnel senza uscita.

Più antidolorifici per tutti

“La mia preoccupazione è non sentir male. I miei dolori sono talmente forti che ho voglia di sbattere la testa contro il muro”

Angela, 50 anni, affetta dalla sindrome di Ehelers-Danlors

Per anni in Italia gli oppioidi sono stati prescritti per combattere solo i dolori causati da poche, gravissime, patologie. In molti casi erano riservati ai malati terminali. Nel panorama medico sono stati a lungo considerati sostanze da prescrivere con molta precauzione, perché nonostante la loro efficacia si trascinano dietro effetti collaterali molto seri. Primo fra tutti, il rischio di dipendenza

La svolta nella prescrizione degli oppioidi arriva con la legge 38/2010: accedere a potenti pain killers diventa più facile.  Prima serviva una lunga trafila di scartoffie, i certificati gialli riservati a chi era malato di cancro all’ultimo stadio. Oggi però è diverso: togliere il dolore è diventato un dovere etico verso chi soffre, in alcuni casi un obiettivo da raggiungere a tutti i costi. 

Dai primi anni Duemila i tabù legati al rischio di dipendenza sono cominciati a cadere. Tra il 2004 e il 2016 il consumo di oppiacei è più che raddoppiato: da 1407 dosi giornaliere si è passati a 4359. Un trend in costante crescita, in linea con la tendenza europea, anche grazie alla legge 38/2010 che ha facilitato le pratiche prescrittive, estendendole dai terapisti del dolore ai medici di famiglia.

All’inizio per chi ha una malattia degenerativa o un mal di schiena che non passa sono un sollievo, poi prendendoli tutti i giorni cresce il rischio di cadere nella dipendenza. Capita che, pur assumendoli, il dolore resti e quella che doveva essere la soluzione diventa il problema.

Il passo verso l’overdose è più corto di quanto si pensi all’inizio. Non si respira più. Se va bene ci si risveglia in ospedale inseriti in un percorso di disintossicazione a base di metadone. Ma la cosa peggiore è sentirsi ed essere trattati da “tossici”. «Anche dal medico che quei farmaci li ha prescritti», racconta Angela.

Le storie di chi finisce nel tunnel sono quasi tutte simili. Quando gli antidolorifici non bastano, quando gli antinfiammatori ti hanno già spaccato lo stomaco, l’ultima spiaggia sono i pain killers. In Italia sono 16 milioni (1,5 miliardi nel mondo) le persone di cui si parla poco. Forse perché di dolore cronico non si muore. Ma con il dolore cronico si deve convivere. Come la polvere, si attacca addosso alla vita che piano piano si assottiglia nel tentativo di tenerlo a bada. Con i pain killers l’esistenza comincia a misurarsi in milligrammi. Basta una puntina di troppo per andare verso il punto di non ritorno. E da quel momento a uccidere non rischia più di essere solo la malattia, ma anche la cura.

 

Due pillole per un business milionario

“Prima cominci con quelli deboli come la codeina. Poi passi a quelli forti e sali la scala. Dalla morfina all’ossicodone su, su fino al fentanil. Un tetto non c’è: aumenti le dosi finché il dolore non passa e la lucidità a poco a poco ti abbandona”.

Carla, 48 anni, un parto cesareo andato male

Gli oppiacei sono così potenti che vanno bene anche come anestetici negli interventi chirurgici e nel decorso postoperatorio. Ce ne sono di naturali, ricavati dalla resina del papavero, come morfina e codeina. Se non bastano, si possono usare i semisintetici: l’idrocodone, l’ossicodone, la buprenorfina. Quando le pene superano ogni limite di sopportazione, arrivano i composti nati in laboratorio come il metadone, il tramadolo, il fentanil e derivati: hanno una potenza che supera da 100 a 10mila volte quella della morfina

Le vendite in Italia stanno avendo un boom paragonabile, seppur in scala ridotta, a quanto successo negli Stati Uniti più di vent’anni fa. Nel 1996 la storica casa farmaceutica americana Purdue Pharma ha lanciato sul mercato un farmaco contro il dolore fino a quel momento non disponibile. Nome in codice OxyContin, parente molto stretto delle vecchie pillole di morfina, ma a base di ossicodone.

Il nuovo medicinale, approvato dalla Food and Drug Administration, prometteva di “controllare il dolore” per circa 12 ore.

«Ricorda, per un sollievo efficace ne servono solo due», veniva pubblicizzato nelle campagne di marketing dell’epoca. I manager della Purdue non avevano dubbi: l’OxyContin avrebbe avuto successo sul mercato e tra i pazienti. Avrebbe fatto scuola.

Per promuoverlo non si badava a spese: conferenze a pagamento, lussuosi viaggi premio, regalie importanti a medici e specialisti del settore. Strategie che avevano la finalità di dissuadere dai rischi già noti dei pain killers e convincere i medici a prescriverli senza troppe remore anche per patologie banali.

E il successo è arrivato, non solo per l’OxyContin, ma per tutta la famiglia degli oppiacei. Dal 2006 al 2014, sono state vendute 4,9 miliardi di pillole di solo Percocet (ossicodone),15 per ogni cittadino americano. Le stesse dinamiche si sono ripetute per il fentanil.

Pubblicità oltre le righe della legge, che negli Stati Uniti hanno portato a condanne con maxi risarcimenti. Come nel caso della famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma, che a settembre 2019 è stata costretta a cedere il controllo dell’azienda e a pagare tra i 10 e i 12 miliardi di dollari a 24 stati, oltre 2000 città e contee statunitensi per chiudere le migliaia di cause in corso. Poi ha dichiarato bancarotta. O come la Johnson & Johnson, obbligata a fine agosto 2019 dai giudici dell’Oklahoma a risarcire con 572 milioni di dollari lo Stato per aver promosso campagne di marketing «false, ingannevoli e pericolose».

La dipendenza sconosciuta

“Così te li porti al lavoro, a scuola, al colloquio con i professori di tuo figlio, ovunque perché sai già che ti serviranno”.

Angela, 50 anni, a proposito degli oppioidi e della sua dipendenza

Lo sanno bene Angela e Carla, anche se «quando te li danno la prima volta non te lo dicono». A un certo punto gli oppioidi smettono di uccidere il dolore. Il male resta, ma il bisogno cresce, con la paura costante di non averne abbastanza o di non farcela senza. 

Quando ci se ne accorge si è già dentro fino al collo. Si è in pieno iperdosaggio. Un abuso, se pur legalizzato dal medico che per combattere il dolore non ha scelta: darne ancora e ancora, condannando il paziente a una vita in bilico tra astinenza e overdose. 

Se negli Stati Uniti su 12 milioni di persone che ne fanno uso quasi la metà sono caduti nella spirale della dipendenza e l’80 per cento dei tossicodipendenti ha iniziato con gli antidolorifici prescritti dai medici, in Italia i dati non ci sono

Un vuoto che sta tentando di colmare il professor Oscar Corli, Capo dell’Unità di Ricerca nel Dolore e Cure Palliative dell’Istituto Mario Negri di Milano. Insieme ai colleghi del Dipartimento Ambiente e Salute, punta a rilevare il legame tra il numero delle prescrizioni e la percentuale di casi di dipendenza dalla concentrazione di oppioidi studiando le acque reflue della Lombardia. Corli ne è convinto: solo evidenziando la portata del problema puoi evitare che, a distanza di 15 anni, l’ “epidemia” degli oppioidi arrivi anche qui. Dagli Usa, ancora una volta, come successe con l’eroina negli anni Ottanta quando l’aumento sottovalutato dei tassi di dipendenza e i decessi per overdose hanno cancellato un’intera generazione.

Spacciatori, truffatori e malati di dolore

“Alla fine entri come la droga in un circuito in cui tu sai che ogni quattro ore, o ce n’è bisogno o non ce n’è bisogno, tu te li devi prendere”

Carla, 48 anni, a proposito del suo rapporto con gli oppioidi

Poi se il bisogno aumenta e le ricette mediche non bastano, il mercato nero, fiutato l’affare, risponde. In un attimo si passa dal medico allo spacciatore

In Nord America i cartelli della droga hanno inondato città e aree rurali con oppioidi sintetici importati sottocosto dalla Cina e dal Messico. Il risultato è un’epidemia inarrestabile da 75mila morti l’anno, 1 ogni 12 minuti.

In Italia, i morti di overdose accertata da oppioidi per ora sono due, ma i casi di cronaca, dai sequestri ai furti, dimostrano che un traffico illegale, nato su una domanda in crescita, c’è eccome

Li vendono fuori dalle scuole, a 10 euro a pasticca, ai ragazzini che vogliono stordirsi, si ordinano su internet e ti arrivano comodamente a casa per posta o corriere. Basta cercare su Google “vendita fentanil” (o qualsiasi altro farmaco) e scegliere tra una delle tante “farmacie” online, veri e propri pusher virtuali che non richiedono di certo la ricetta del medico. 

Si manda una mail per stabilire un primo contatto e dal Camerun rispondono con un dettagliato listino prezzi e rassicurazioni sul perfetto imballaggio in tungsteno per saltare i controlli agli aeroporti. Un sistema troppo semplice e così diffuso che la polizia postale non riesce a stargli dietro.  Ad allarmare politica e istituzioni però è il legame tra l’aumento esponenziale delle overdose fatali (76 da agosto a novembre 2019) e il calo dei prezzi dell’eroina (5 euro per il cosiddetto ‘punto di nera’). Ciò fa pensare che venga tagliata con la sua versione sintetica, molto più economica e molto più potente come il fentanil e i suoi derivati, quasi impossibili da rintracciare  in assenza della molecola standard per il confronto.

Questo non è che l’esito estremo e visibile di un fenomeno sommerso di cui non si parla: la dipendenza che cresce nell’uso di oppioidi prescritti legalmente dal medico. Il problema, dice Paolo Notaro, Direttore del Centro della Terapia del Dolore dell’Ospedale Niguarda di Milano, è che contro il dolore cronico per ora alternative non ce ne sono e, quando gli oppioidi prescritti non fanno più effetto, i medici possono solo aumentare le dosi o passare per gradi a qualcosa di più forte. E le case farmaceutiche di certo non hanno investito per eliminare un effetto collaterale che è garanzia di profitto.

Inchieste giudiziarie nel solco di quelle americane sono arrivate anche in Italia, come la Pasimafi. Promossa nel 2015 dalla Procura di Parma, tre anni dopo ha portato a processo medici, dirigenti ospedalieri e manager di 10 case farmaceutiche. Secondo l’ordinanza di custodia cautelare del 2017, una vera e propria «associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al riciclaggio, attuata nel campo della sperimentazione sanitaria e nella divulgazione scientifica per favorire le attività commerciali di imprese farmaceutiche nazionali ed estere, attraverso la commissione altresì dei reati di abuso d’ufficio, peculato, truffa aggravata e trasferimento fraudolento di valori». 

La figura chiave di questa «fitta rete di interessi» era Guido Fanelli: un luminare della terapia del dolore, padre della legge 38/2010, che ha lo «yacht (il Pasimafi V) con il logo della Mundipharma sulla poppa», regalo dell’azienda farmaceutica che grazie a lui ha incassato «40 milioni col farmaco Targin (ossicodone): sopra ci sono le mie iniziali», dice il professore intercettato dai magistrati. Soldi e yacht in cambio di una promozione entusiasta dei prodotti delle ditte “amiche” ai danni di pazienti inconsapevoli dei rischi.

La strategia funziona. I consumi si impennano e i profitti anche, peccato che i big del farmaco non abbiano messo in conto l’effetto collaterale che tanto si sono dati da fare per nascondere: la dipendenza micidiale in cui è difficile non cadere e che negli Usa dal 1999 ha falciato 400 mila vite.
Per chi è costretto a prendere gli oppioidi a vita per scendere dal letto, il destino si gioca nel rapporto con il medico. Informare il paziente a cosa va incontro, monitorarne gli effetti collaterali in modo costante, aumentare le dosi con cautela e preferire i farmaci a lento rilascio, sono la base per contenere il rischio di eccesso. Ma non basta. Se il paziente, come è successo a Angela e Carla, cade nell’abuso, non puntare il dito è essenziale. «Perché oltre al danno, subire anche la beffa della condanna da chi quei farmaci te li ha dati, ti umilia».

Spostare l’obiettivo dalla lotta contro il dolore a tutti costi alla tutela di chi soffre: così si può evitare a chi vive tutti i giorni con il male che picchia forte di precipitare nel buco nero della dipendenza da oppioidi

«Quando per te la vita diventa un orologio, che scorre con la paura di non riuscire a superare quelle quattro ore che ti separano dalla prossima dose. Non riesci a parlare, non riesci a far niente nel quotidiano, perché ti buttano talmente giù che ti distruggono tutto».