PISTOLE TRICOLORI

Quando l'arma salva o uccide, visioni opposte sotto la stessa bandiera

Pistole Tricolori

Dic 23, 2023

di Alessandra Neri e Matteo Pedrazzoli

Un fucile può essere usato da una finestra di Dallas per sparare a un presidente, oppure da un Inuit per cacciare renne e foche, uniche sue fonti di sostentamento. Una pistola può essere usata per uccidere una persona oppure per difendere la propria famiglia dai malviventi. Per l’arma, invece, uno sparo equivale a un altro. Premi il grilletto e spara: semplice meccanica. Le armi non sono né buone né cattive, ma degli strumenti che, come tali, rispondono alla volontà di chi le impugna. Oggi pistole e fucili sono acquistabili in Italia con una semplice licenza. Mezzi capaci di togliere una vita in una frazione di secondo. 

Secondo un’indagine dello Small Arms Survey (organizzazione che vigila sulla diffusione di armi nel mondo) l’Italia, dopo gli Stati Uniti, sarebbe il Paese del G7 con il più alto numero di morti per armi da fuoco in rapporto alla popolazione. Interrogarsi su questo fatto è d’obbligo, eppure nel nostro Paese non si parla mai di armi, se non dopo l’ennesimo caso di cronaca o, più recentemente, per discutere l’opportunità di trasferire materiale bellico in aiuto a una Nazione invasa. Nondimeno l’Italia è uno dei primi produttori mondiali di armi e vanta nomi che sono storia, come Beretta e Benelli. Il comparto armiero offre lavoro, considerando anche l’indotto, a circa 19 mila persone, per un fatturato complessivo che si aggira intorno ai 600 milioni di euro. Numeri significativi che non possono essere liquidati nell’indifferenza.

Avere una visione neutra e non influenzata su un argomento spinoso come le armi da fuoco è arduo. Ma l’unica via per comprendere pienamente questo mondo è esaminarlo in ogni sua forma: chi utilizza le armi per cacciare, chi le produce, chi le vende, chi l’ha usata una sola volta per difendere la propria famiglia e chi evidenzia i pericoli intrinsechi del possesso, sostenendo che i rischi sono nettamente più alti dei benefici. Ma prima di vedere tutto questo bisogna esaminare i numeri relativi alle armi in Italia.

NUMERI IN INCOGNITO

In un mondo sempre più digitalizzato, dove tutto è connesso e reperibile con un solo “click”, è se non altro bizzarro credere che in Italia non si possa avere un numero ufficiale riguardo ai porti d’armi e alle armi legalmente detenute. Eppure, è così. Sappiamo che nel nostro Paese ci sono 5.993.015 bovini, 121.529 pizzerie e 38.731.069 persone abilitate a guidare un’auto, ma non quante armi ci sono. Riguardo alle patenti, poi, accedendo a un sito del ministero dei Trasporti si possono vedere molti più dati nello specifico: dov’è stata rilasciata, il comune di residenza del proprietario e i punti rimasti. Il ministero rilascia anche altri numeri come quello degli esami non superati, il tutto con cadenza annuale e suddiviso per regione. Se raccogliere i dati dalle motorizzazioni non è una mission impossibile, perché dovrebbe essere farlo dalle questure?

Le armi sono un argomento delicato che polarizza i dibattiti, per cui si preferisce non parlarne, o farlo il meno possibile, per evitare di crearsi delle inimicizie da una o dall’altra parte. Spetta alla politica il compito di dare indicazioni agli apparati preposti dallo Stato per rendere pubblici i dati. A ben vedere, quasi segretamente, la polizia condivide dei numeri relativi ai porti d’armi: la rivista delle forze dell’ordine “Polizia Moderna” ogni mese di aprile, in occasione dell’anniversario della fondazione della Polizia di Stato, pubblica i numeri del proprio lavoro relativi all’anno precedente. Tra queste 70 pagine di numeri c’è una piccola tabella anonima, senza nessuna spiegazione, che riporta il numero di porti d’armi con un bell’asterisco sotto per specificare che i dati “non sono consolidati”, senza dare però nessun dettaglio.

Per provare a trovare una risposta alle due domande principali riguardanti i numeri sulle armi – ovvero: quante sono quelle legalmente detenute e quante sono le persone con un porto d’armi in Italia – abbiamo deciso di rivolgerci sia alle questure che al ministero dell’Interno. Alle prime spetta il compito di rilasciare i porti d’armi e al secondo di vigilare sulla corretta applicazione delle direttive e raccogliere le informazioni provenienti dal territorio. Ci siamo rivolti alle 106 questure disseminate su tutta la Nazione. Le risposte che abbiamo avuto sono state le più disparate possibili: chi ci ha risposto dicendo che non ci fossero “i requisiti di ostensibilità”, chi ci ha ricontattato per avere maggiori informazioni, chi (e sono veramente tanti) non ci ha proprio mai risposto, chi ci ha chiesto di compilare la FOIA (un modulo della pubblica amministrazione per richiedere ufficialmente l’accesso agli atti pubblici) e chi, molto pochi, ci ha comunicato i dati richiesti riguardanti i porti d’armi. In generale quello che abbiamo riscontrato è stato il silenzio delle questure su questo argomento.

Eravamo sconfortati per il tanto lavoro fatto e per le risposte deludenti ricevute che ci impedivano di avere una visione d’insieme, fino a quando un pomeriggio veniamo contattati da un numero di Roma: il ministero. Ci chiama perché due questure l’hanno interpellato per chiedere se potessero condividere i dati richiesti. Dall’altra parte del telefono, forse per la prima volta, parliamo con una persona e non con un’istituzione. Una volta spiegati i motivi della nostra ricerca, discutiamo sulla diversità delle risposte ottenute alle nostre domande. Com’è possibile che ogni questura risponda in modo diverso? «Capisco quello che state dicendo, ma ho le mani legate più di questo non posso fare. Non dipende da me», ci ha spiegato il funzionario del Viminale. Grazie al suo intervento riceviamo comunque dal ministero degli Interni il numero di porti d’armi da fuoco dal 2018 al 2022 diviso per questura e per tipologia. Niente da fare invece per il numero di armi legalmente detenute: l’ufficio che se ne occupa ha ritenuto che diffondere il numero avrebbe posto dei problemi di sicurezza.

Scopriamo come nel 2022 risultano in Italia 1.238.494 porti d’armi, divisi per queste categorie: 11.890 per difesa personale con arma corta, 223 per difesa personale con arma lunga, 609.527 per attività venatoria, 574.842 a uso sportivo, guardia giurata arma corta 41.438 e guardia giurata arma lunga 574. In base ai numeri ottenuti vediamo che le licenze maggiormente concesse sono quelle per l’attività sportiva e la caccia. I cinque anni presi in esame parlano di un numero totale di porti d’armi rimasto sostanzialmente stabile, con un picco di 1.343.393 nel 2018 e un minimo di 1.238.494 proprio nel 2022. La diffusione sul territorio è omogenea, con la provincia di Firenze che ha il rapporto più alto tra popolazione e porto d’armi. Più in generale il nord-ovest – con le provincie di Asti, Vercelli, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Aosta – è la zona d’Italia con i numeri più alti di persone abilitate al possesso di armi da fuoco. Il fatto che siano zone alpine potrebbe far credere che i numeri più alti siano dovuti all’attività di caccia, che in quelle zone è più attiva che altrove. Ma solo a Novara (4.391 contro 3.775) e ad Aosta (1.766 contro 1.377) i porti d’armi rilasciati per attività venatoria sono superiori a quelli per uso sportivo. Al contrario, nelle altre provincie il numero di licenze per il tiro al volo è assai più alto: Asti (3.989 contro 1.160), Vercelli (1.539 contro 2.548) e Verbano-Cusio-Ossola (1.721 contro 2.136).

Possiamo essere soddisfatti dei dati ricevuti? La più grande mancanza riguarda il numero delle armi. Le questure e le stazioni dei carabinieri fanno delle verifiche occasionali ai possessori per controllare che siano tenute secondo le norme, oltre a ritirarle se il proprietario muore e nessuno con un porto d’armi le vuole ereditare. Tutte queste informazioni derivano da un database, che contiene quindi anche il famigerato numero totale di armi da fuoco. Una cifra che lo Stato ha, ma non vuole diffondere.

L’altro punto ancora oscuro riguarda i nullaosta – che autorizzano l’acquisto e la detenzione di armi a persone prive di un porto d’armi in corso di validità. Questo particolare permesso può essere rilasciato dai commissariati e dalle stazioni dei carabinieri. Così i dati vengono raccolti da due organi diversi che non comunicano un dato aggregato. Perciò non è corretto sostenere che nel 2022 in Italia siano 1.238.494 le persone autorizzate a possedere un’arma, perché questo numero considera solo i porti d’armi e non comprende i nullaosta. Una giungla di numeri e possibilità per nascondere la vera grandezza del fenomeno.

FIREARMS VALLEY

Tre frecce con alla base altrettanti cerchi, il tutto racchiuso in un tondo ancora più grande. Questo è il simbolo che ti accoglie a Gardone Val Trompia, paese di circa 11.000 abitanti in provincia di Brescia. Sui ponti, sulle giacche degli abitanti, perfino sugli zaini di alcuni studenti. Ovunque ti giri, lo stemma della Beretta – nota azienda italiana produttrice di armi da fuoco – è lì, quasi a ricordarti che stai attraversando la Firearms Valley italiana.

«Lei possiede un’arma?», chiediamo al sindaco Pierangelo Lancellotti. «A Gardone Val Trompia chi nasce ha in media 20 fucili», risponde. «Essendo il primo maschio di una famiglia molto grande, ho dovuto fare una stanza blindata solo per quello» risponde ridendo. Tra le strade del comune si alternano armerie e aziende produttrici di armi. Una tradizione che però, sottolinea il primo cittadino, avviene in modo controllato e sicuro. «Rispetto a 30 anni fa, quando vedevi la gente girare in bicicletta con le canne dei fucili legate che andavano al Banco di prova a farle controllare, ci siamo adattati».

La fabbricazione del territorio riguarda soprattutto le armi destinate all’uso sportivo e venatorio. E, nonostante il numero dei cacciatori sia sempre inferiore, «il comparto armiero esce da due anni eccellenti in termini di vendita».

Un andamento definito altalenante e che nei prossimi anni potrebbe attraversare una fase di crisi. Ma non c’è da allarmarsi. Poiché la produzione di armi implica spesso anche la presenza di un’officina meccanica dove costruire gli ingranaggi più piccoli, molti potranno reinventarsi in altri ambiti. A influire su questo potenziale cambiamento, potrebbero essere in primis la concorrenza con la Turchia – definito come principale competitor nel settore – o l’incapacità di attrarre nuove persone nel comune. «Non siamo capaci di sviluppare un turismo per le armi», spiega il sindaco. «Le imprese più grosse hanno i loro spazi dedicati ma un tempo era più facile. Una volta c’era la fiera Exa a Brescia ed era comodo. Magari veniva il cliente importante e lo portavi anche in azienda».

Un meccanismo diverso da quello attuale. Oggi succede che il maestro d’armi – ovvero l’addetto al reperimento dei fucili o delle pistole di scena nei film – ti contatti direttamente per telefono. È quello che è successo alla Davide Pedersoli. «Un giorno ci contatta la produzione del film “The Revenant” con Leonardo DiCaprio per chiederci una ventina di prodotti del nostro catalogo», spiega Stefano Pedersoli, membro della terza generazione della famiglia.

Fondata nel 1957 come azienda di produzione di armi ad uso sportivo e venatorio, oggi si occupa principalmente di riproduzioni storiche e pistole o fucili ad avancarica.

«La cinematografia dà sicuramente lustro alla società ma in termini di vendite si tratta di poca roba», continua l’armaiolo, ripensando ai numerosi film in cui i suoi prodotti sono comparsi. Ma c’è un momento che Stefano Pedersoli ricorda quasi emozionandosi, ovvero la partecipazione a una puntata di “Superquark”. «Sentire Piero Angela che ci definisce “una delle più grandi aziende di produzione” mi ha fatto quasi piangere».

Il business comincia a fruttare dagli anni ’80 e ’90, quando l’impresa riesce a inserirsi nel mercato estero. Dalla Francia, alla Germania fino all’Australia e il Sud Africa. Ma a permettere all’azienda di avere oggi 50 dipendenti e un fatturato annuo di circa otto milioni di euro sono soprattutto gli appassionati di storia e i rievocatori americani. «Noi copriamo molto bene il ramo della guerra d’indipendenza americana e di quella civile», spiega l’erede dell’azienda. A valutare l’idoneità dell’arma negli Stati Uniti è la North-South Skirmish Association (N-SSA), un’organizzazione che raduna oltre 200.000 iscritti, pronti a riprodurre battaglie passate grazie all’uso di fucili e pistole originali o replicate. Tra i fattori esaminati dalla commissione: dimensioni, calibro, distanze tra le componenti e peso dell’arma. Buona parte delle vendite è anche destinata all’ambito venatorio, sempre americano. «Nel Paese ci sono circa sei milioni di cacciatori all’avancarica. Durante la stagione, alcune settimane sono dedicate a loro».

Una tradizione lunga oltre sessant’anni che rischia di essere messa a rischio. «Realizzare un’arma ha in sé uno studio importante relativo alla ricerca e allo sviluppo ma anche a livello di design», continua Stefano Pedersoli, sottolineando l’importanza del Made in Italy anche in questo settore. «La competizione al giorno d’oggi arriva dal Pakistan, dall’India dove la produzione non è provata presso un banco». Molte delle riproduzioni – vendute a un prezzo sotto la media e perciò appetibili per i clienti meno esperti – vengono importate come “beni da decoro” ma spesso sono utilizzati anche per sparare, rendendo, da un lato, l’arma tutto fuorché sicura e, dall’altro, togliendo qualità alla merce più pregiata. «Il design è importantissimo per rendere un prodotto bello e ricercato», conclude il venditore. «L’Italia è piena di menti geniali, anche nel mondo delle armi».

GIUSTIZIA ARMATA

“Ha fatto bene”, “meritava l’ergastolo”, “giustizia fatta”. Quando si parla di legittima difesa è facile leggere o ascoltare commenti contrastanti. Sui social, alla televisione, per strada. Il confine tra giusto e sbagliato, atto eroico o crimine diventa spesso sottile.
Tra le storie di chi con quelle opinioni ci ha dovuto convivere, troviamo anche Rodolfo Corazzo. Un gioielliere che il 24 novembre 2015, durante una rapina nella sua abitazione a Rodano (nel Milanese), spara per difendere la sua famiglia – la moglie e la figlia di dieci anni – uccidendo uno dei ladri. La vittima: Valentin Frrokaj, 37enne, plurievaso di origini albanesi. Da lì comincia il procedimento giudiziario, insieme alla gogna mediatica. Grazie all’affiancamento del suo avvocato Pietro Porciani, la battaglia legale si concluderà due anni più tardi, con l’archiviazione del caso.

Rodolfo è cintura nera di karate, campione europeo e attraverso dei corsi di difesa insegna a creare automatismi per evitare di bloccarsi di fronte a una potenziale minaccia. Ma quella notte, nonostante i cinquant’anni di esperienza nel combattimento, è stato lui stesso a non riuscire a reagire. «Mi sono bloccato» racconta, quasi incredulo. «Fino a quando non hanno provato a legarmi le mani. In quel momento, li ho spinti via. Se lo avessero fatto, sarebbe finita».

Un’ora e venti. Dall’irruzione, alle minacce fino agli spari – prima di avvertimento e poi per difesa – e infine la fuga dei malviventi. Ad oggi Corazzo convive ancora con la paura che l’avvenimento si ripeta. «Ho vissuto i primi quattro mesi attaccato al video delle telecamere di notte, dormendo pochissimo», racconta l’ex campione di karate. «Poi ho imparato a spostare questi pensieri. A volte mi viene ancora l’istinto di farlo ma mi dico no, perché dovrei?».

Scelte incontrollate, causate da un evento che lo stesso Corazzo dice di non aver dimenticato a distanza di anni. «Una situazione di questo tipo provoca delle ripercussioni di tipo traumatico non soltanto per la vittima, se sopravvive, ma anche in chi agisce», spiega Marco Monzani, docente dello Iusve e criminologo. «Rimane spesso un senso di colpa, il dubbio di aver potuto agire diversamente senza uccidere una persona o che sarebbe stato sufficiente colpirla in una zona non vitale del corpo. Sono domande che accompagnano una persona per tutta la vita in una sorta di ruminazione continua». Razionalizzare l’accaduto, accettare l’atto commesso, non è mai semplice. Possono entrare in gioco meccanismi di difesa, come la negazione o in casi estremi anche amnesie selettive.

Monzani menziona il caso del gioielliere Mario Roggero: l’uomo condannato in primo grado a 17 anni di carcere, dopo aver sparato e ucciso due dei tre ladri che assaltarono il suo negozio nel cuneese il 28 aprile del 2021. Il suo caso è stato a lungo al centro del dibattito nazionale. Mentre una parte sostiene la sua legittima difesa, giustificando l’atto per via dello stato emotivo alterato e della necessità, in quell’occasione, di difendere la sua famiglia; dall’altro in molti sono convinti della sua colpevolezza. Soprattutto, in seguito alla pubblicazione di un video che lo vede rincorrere gli aggressori e sparargli, anche quando la minaccia immediata era ormai sparita. Indipendentemente dalle credenze personali, l’articolo 90 del nostro codice penale stabilisce che “Gli stati emotivi o passionali, pur potendo incidere in maniera più o meno massiccia sulla lucidità mentale di un soggetto, sono per espressa disposizione legislativa inidonei ad escludere l’imputabilità”. O meglio, lo stato emotivo può «incidere sulla quantificazione della pena ma non sul se punire o non punire», continua Monzani. «Prima o poi [il gioielliere] dovrà fare i conti con la consapevolezza di ciò che ha fatto. E in quel momento sarà importante la presenza di qualche esperto nell’ambito psicologico».

GUN STOR(I)ES

«È indubbio che le armi più ricercate siano quelle presenti nei film. La 44 magnum dell’ispettore Callaghan, piuttosto che la Walther PPK di James Bond, insieme ai revolver sono gli articoli che vendiamo di più. La gente le vede in televisione e dice “Voglio anch’io quella pistola!”. Così, quando decidono di comprare un’arma, arrivano da noi già con le idee chiare. Sono armi che non hanno bisogno di essere vendute, si vendono da sole». A raccontarlo è Massimo di Martino, proprietario del Gun Store Bunker, un’armeria di Milano. Il suo negozio è diverso da tutti gli altri in città perché non si trova sulla strada, ma come dice lo stesso nome è un bunker nel seminterrato di un palazzo.

Per entrarci bisogna farsi aprire dal portiere di un complesso residenziale e girare tra i porticati delle palazzine inseguendo le insegne del Gun Store. Dopo aver superato l’ennesima telecamera di sicurezza disseminata sul percorso si arriva davanti alla porta d’ingresso: blindata e chiusa dall’interno. Per entrare bisogna citofonare e farsi aprire.

Finito? Non esattamente. Oltrepassata la soglia c’è una piccola anticamera circondata da barre bianche di metallo, come una cella di una prigione. Solo dopo il contatto visivo con i gestori del negozio e l’assoluta sicurezza che non ci siano malintenzionati dall’altra parte si può accedere. Un sistema niente male, perché la sicurezza viene prima di tutto, soprattutto quando hai a che fare con le armi. «È successo solo una volta che non abbiamo aperto la gabbia. Un uomo si è presentato qui per fare degli acquisti e l’abbiamo fatto entrare dalla porta, ma prima di aprire l’ultimo livello di sicurezza gli abbiamo chiesto se avesse il porto d’armi e cosa ci facesse qui, dato che non l’avevamo mai visto prima. Ci ha risposto che ci avrebbe spiegato tutto una volta entrato. Ovviamente non ha mai messo un’unghia oltre l’anticamera. Non so cosa volesse, ma non ci sembrava il caso di scoprirlo».

Tra i clienti delle armerie c’è un po’ di tutto: cacciatori che cercano munizioni e nuovi fucili, guardie giurate e forze dell’ordine, persone che temono per la propria sicurezza e ritengono di tutelarsi con un’arma, sportivi che comprano carabine e pistole per il tiro al bersaglio, ma anche gente comune. «Non vendiamo solo armi», racconta Massimo. «Facciamo anche un servizio alla comunità tenendo gli spray al peperoncino. Molte ragazze si sentono insicure a girare per Milano di notte e preferiscono avere con sé una piccola deterrenza. Noi su questi prodotti non guadagniamo nulla ma credo sia coretto offrire questa possibilità».

L’armeria ha tra i suoi prodotti anche i giubbotti antiproiettili. A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina ne sono aumentate le richieste: «Molte donne ucraine che lavorano qui in Italia sono venute per comparare i giubbotti antiproiettile di livello IV (il più alto standard di sicurezza, capace di resistere al colpo di un mitragliatore pesante, ndr) da mandare ai parenti sul fronte. Non abbiamo potuto venderli perché per questi specifici giubbotti serve un’autorizzazione speciale da parte del prefetto. Lo stesso problema vale per i giornalisti che cercano un giubbotto prima di andare a seguire la guerra sul campo».

Buzzini è un’istituzione tra le armerie. Il proprietario Angelo Buzzini, classe 1935, è conosciuto e rispettato da tutti. Competitor e fornitori parlano di lui come un brav’uomo che ha dedicato la vita al suo lavoro: le armi. Angelo gestisce l’armeria, situata davanti alla stazione di Lambrate a Milano, insieme alla moglie Maria Rosa Pravettoni. I suoi genitori l’hanno aperta nel 1947, e Angelo ha iniziato a lavorarci appena tre anni dopo, nel 1950.

Da allora è sempre rimasto lì, punto di riferimento in una città che è cambiata sotto i suoi occhi. Dal boom economico del secondo dopoguerra agli anni di piombo, fino al periodo complicato di “Mani pulite”, quando imprenditori e politici si toglievano la vita per non affrontare giustizia e gogna mediatica. Chiunque voglia comprare un’arma sa che Buzzini ha la soluzione giusta. La passione per il suo lavoro non è diminuita con gli anni, tant’è che una volta a settimana raggiunge la Val Trompia per chiacchierare con i produttori e discutere di affari. Devoto cacciatore, anche se con l’avanzare dell’età ha dovuto rinunciare alla pratica, conosce ancora tutti i segreti dei fucili per l’uso venatorio, dai più comuni a quelli fatti artigianalmente. L’esperienza di Buzzini nel mondo della caccia è riconosciuta anche dallo Stato, dato che Regione Lombardia gli ha affidato il ruolo di esaminatore per l’abilitazione all’attività venatoria: «Nel corso degli anni la caccia è molto cambiata.

Quand’ero giovane non si faceva troppa attenzione e si sparava un po’ a tutto quello che passava: non si guardavano l’età dell’animale o altre caratteristiche. Mi sembra però che con il passare degli anni abbiamo fatto molti passi avanti. Poi ogni settore ha i suoi problemi». Buzzini è stato anche presidente di “Assoarmieri” (l’associazione di categoria che raccoglie i commercianti nel mondo di caccia, pesca e sport) per diversi anni e fa tuttora parte del consiglio direttivo. Si può quindi dire che la sua conoscenza sul mondo delle armi sia completa a 360 gradi.

Il negozio di Buzzini non vende solo armi, ma anche altri oggetti che spesso vengono comprati insieme, come mimetiche, zaini e cannocchiali per la caccia, oltre ad articoli per la pesca e altri hobby da praticare all’aperto. L’accoglienza nel negozio è comunque assicurata dalla vetrina dietro il bancone, con i fucili legati al muro che ti guardano: non si tratta di una bottega come un’altra, ma di un’armeria. «Il mercato si è trasformato molto nel corso dei miei anni di attività», spiega Buzzini. «La caccia ora avviene praticamente solo con fucili a canne rigate e non più lisce (quelli a canne rigate hanno mediamente una gittata maggiore, ndr). Anche il mondo del collezionismo è cambiato. Una volta Milano ne era ricca. Facevano a gara per accaparrarsi un’arma. Ora i figli si sono trovati in eredità tutti questi fucili, ma non hanno più la passione. Il collezionismo esiste ancora su certe armi, come quelle delle guerre, ma è sempre più in diminuzione e non vedo come questa tendenza possa fermarsi».

CACCIANDO S’IMPARA

Davide Ciapponi è un cacciatore da più di dieci anni, ma la sua passione nasce molto prima. Cresciuto nel piccolo paese di Castione, in Valtellina, ha imparato sin da bambino ad apprezzare e onorare la montagna. Andare a caccia per lui non è il mero abbattimento dell’animale, ma una questione di rispetto. Rispetto che ogni vero cacciatore degno di questo nome ha per l’animale e per la terra che ospita preda e predatore. Andare a caccia è prendersi cura della montagna, tenendo puliti i sentieri che altrimenti andrebbero perduti: un patrimonio lasciatoci in eredità dai nostri avi, troppo prezioso per essere dissipato. Finita una battuta di caccia si torna a casa felici se si è passata una bella giornata, se il tempo è stato clemente, perché a 2000 metri può cambiare rapidamente, e se la natura ha mostrato tutto il suo splendore, prendere la preda, nel caso di Davide il cervo, è un dettaglio. Certo, tornare a casa a mani vuote o meno fa differenza, ma non è la sola ragione che spinge Davide, e chi come lui, ad alzarsi prima dell’alba e uscire con un fucile.

Se l’abbattimento del cervo fosse l’unico obbiettivo non si spiegherebbe perché durante tutto l’anno Davide vada in alta montagna per osservare i cervi in amore a settembre, per cercare le corna che perdono a marzo e per guardare i piccoli appena nati a giugno. Proprio riguardo alle corna, Davide racconta che grazie a queste è possibile identificare la famiglia dell’animale: «Una volta durante una battuta di caccia ho preso un cervo e, la primavera seguente, mi è capitato di trovare un palco uguale a quello del cervo che avevo abbattuto qualche mese prima. Guardando le due coppie di corna era del tutto evidente che si trattasse di due fratelli». Per comprendere gli animali bisogna osservarli e conoscere le loro abitudini: quando riposano, quando mangiano, dove vanno tra ottobre e novembre quando iniziano ad arrivare i primi freddi, con la neve che inizia a scendere sulle cime, e si apre la stagione della caccia.

Davide conserva con orgoglio, nel solaio di casa, tutte le corna trovate in anni di giri in montagna. Ci sono quelle scheggiate dalle lotte durante la stagione dell’amore, quelle dalle forme più disparate: lunghissime e senza ramificazione. Ma la soddisfazione più grande è riuscire a trovare una coppia di corna, dato che non sempre i cervi le perdono vicine. A fianco di tutti questi cimeli c’è l’armadietto, chiuso a chiave, con i fucili usati per la caccia. Ogni fucile ha le sue caratteristiche: da quello di piccolo calibro, micidiale nel tiro ravvicinato, che si smonta e si mette nello zaino in 30 secondi, alla carabina Blaser con ottica Swarovski, in grado di colpire un bersaglio tra i 200 e i 700 metri.

La scelta dell’arma da usare durante la caccia è fondamentale. Come un pittore decide attentamente quale pennello utilizzare per dipingere un quadro, così il cacciatore mette la stessa concentrazione nella scelta del fucile. Il mezzo utilizzato rimane tale, ma usarne uno piuttosto che un altro può cambiare radicalmente il risultato: immaginate la Gioconda dipinta da Leonardo con un rullo da imbianchino? Ecco, avrebbe lo stesso effetto di cacciare cervi con un calibro 5.

Normalmente i cacciatori hanno diversi fucili, ma non per forza li usano tutti. Davide non fa eccezione: «Questa carabina era di mio zio, l’ha lasciata a me in eredità. La usava per cacciare le anatre. Io non l’ho mai usata, ho solo controllato che fosse scarica e l’ho chiusa nell’armadietto. Non so come spara, anzi non saprei nemmeno se spara ancora».

IL CAMBIAMENTO È FACILE

Luci e ombre di un argomento ancora spesso considerato un tabù. Nonostante l’impegno dei detentori a rispettare fedelmente le regole imposte dalla legge sul trattamento e l’utilizzo delle armi da fuoco, molti rimangono i punti che i più scettici chiedono di revisionare a gran voce. In prima linea, per realizzare nuove riforme, troviamo Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni. A non convincere del tutto il ricercatore è in primis l’assenza di dati sull’export, gli omicidi con armi legalmente detenute e la diffusione delle licenze. Beretta sottolinea come spesso la mancanza di informazioni precise porti al convincimento di false credenze. Nonostante secondo i dati Istat il numero di crimini non abbia subito variazioni importanti negli ultimi anni, la percezione degli italiani è spesso quella di paura e ansia. Per questo si armano. Un’impressione di insicurezza alimentata anche dalle televisioni. Trasmissioni di cronaca nera o telegiornali nazionali riportano spesso notizie di questo tipo, creando una “spettacolarizzazione” e una “serializzazione” dell’evento.

«Ma l’arma non rappresenta una sicurezza», afferma Beretta, sottolineando la necessità di effettuare maggiori accertamenti sui richiedenti e le regole attualmente in vigore. «Per prima cosa devono essere richiesti controlli psichiatrici annuali», continua. «Così come analisi cliniche-tossicologiche per verificare che non ci siano abusi di sostanze stupefacenti o di alcol. Per molti porti d’armi il rinnovo è ogni cinque anni, tante cose possono cambiare. Magari cinque anni fa ero un imprenditore di successo e ora sono in fallimento. Forse, cinque anni fa avevo una famiglia perfetta e ora sto affrontando una causa di separazione». Verifiche che potrebbero essere facilitate senza dubbio anche da una migliore cooperazione tra aziende sanitarie locali e questure. Solo attraverso la tempestiva notifica di eventuali diagnosi psichiatriche, le forze dell’ordine possono provvedere a sospendere o ritirare la licenza.

Tra le proposte di riforme che il ricercatore difende, ce n’è una in particolare che sembra essere molto attuale. Il rilascio del nulla osta o di regolare porto d’armi dovrebbe essere comunicato ai conviventi maggiorenni, anche diversi dai familiari (incluso il convivente more uxorio). «Il problema è che le forze dell’ordine non possono verificare che la norma venga applicata, perché lederebbe la privacy», spiega Beretta. «Anche se un modo volendo ci sarebbe. Basterebbe che i carabinieri si presentassero a casa dell’interessato poco dopo il rilascio della licenza e dicessero ai familiari di essere lì per controllare che l’arma sia detenuta in modo corretto». In questo modo, secondo l’analista, i conviventi non ancora a conoscenza potrebbero farlo presente alle autorità. Una voce piena, energica, quasi a sottolineare quanto facile sarebbe prevenire determinate situazioni, con solo qualche accorgimento in più. Beretta ci racconta dei casi di omicidio avvenuti con armi legalmente detenute, di come le sue proposte avrebbero potuto forse evitare il peggio e di quanto la legge italiana faccia di tutto per favorire la vendita e la proliferazione di armi. «Secondo Lei è possibile che anche nel nostro Paese nasca una cultura delle armi simile a quella americana?», gli chiediamo alla fine. «No, questo non credo», ci rassicura. «Le nostre condizioni di vita e la nostra istruzione sono molto diverse, non penso che nemmeno con gli attuali governi, molto attenti al problema della sicurezza, si voglia arrivare a tanto».

Significa letteralmente “a modo di moglie” e indica la condizione di due persone che convivono stabilmente senza aver contratto matrimonio.

DIRITTI E DOVERI DEI PORTI D’ARMI

Ma quanto è difficile acquistare, trasportare e utilizzare un’arma da fuoco in Italia? Il primo passo per chiunque si voglia approcciare a questo mondo è ottenere il porto d’armi. La legge italiana permette la concessione di diversi tipi di licenza a seconda dell’uso e delle necessità di chi le richiede. Tra i porti d’armi riservati ai civili, ci sono quelli per la difesa personale (arma corta o lunga), per uso da caccia, uso sportivo e la licenza da collezione.

Per tutti valgono gli stessi requisiti di base: maggiore età, assenza di condanne penali, certificato anamnestico rilasciato dal proprio medico o dall’Asl territorialmente competente – che attesti l’assenza di disturbi psichici o abusi di sostanze – e non essere stato riconosciuto obiettore di coscienza o di aver rinunciato a tale status. Ma per ogni categoria ci sono regole specifiche da rispettare.

Nel caso della difesa personale, solo le persone che dimostrano di essere esposte a possibili minacce possono ottenere la licenza. Ma è giusto fare una precisazione a riguardo. Esistono, infatti, due tipologie di questo porto d’armi. In primis, quello per le armi corte – principalmente pistole e rivoltelle – e quello per le armi lunghe – nonché fucili. Deve comunque sempre essere garantito il criterio della “necessità”. Tra i professionisti che ne fanno richiesta troviamo spesso gioiellieri, tabaccai, conduttori di furgoni porta-valori e gestori di negozi precedentemente colpiti da rapine o furti.

Discorso diverso per l’attività venatoria che obbliga l’interessato a conseguire l’abilitazione per la caccia tramite un esame negli uffici della provincia presso cui si fa richiesta. Mentre per gli appassionati di armi comuni o antiche – ovvero antecedenti al 1890 – è consigliata la licenza da collezione che permette la detenzione ma non il porto di massimo tre armi comuni da sparo e sei classificate come sportive oppure armi rare e artistiche in numero non superiore a otto.

Tuttavia, secondo gli esperti, è il porto d’armi sportivo quello «più facile da ottenere». A spiegarcelo è proprio Giorgio Beretta. La licenza conviene rispetto alle altre, perché non richiede la dimostrazione di un pericolo imminente – come previsto dal porto d’armi per difesa personale – ed evita di sostenere un esame specifico (vedi licenza per uso venatorio). Un procedimento, dunque, piuttosto immediato che alla fine dei procedimenti burocratici permette di tenere tre armi comuni da sparo, dodici per uso sportivo e illimitati fucili da caccia. Il tutto per un costo totale che si aggira attorno ai 300 euro. Il sistema è spesso criticato e ritenuto un escamotage per detenere armi nella propria abitazione in modo legale. Nel 2019 le licenze sportive registrate nel nostro Paese erano 548.470 mentre nel 2020 raggiungevano quota 582.531. Secondo il report “I numeri dello sport” redatto dal Coni negli stessi due anni, i tiratori iscritti a una delle associazioni ufficiali non erano più di 100mila – Unione italiana tiro a segno (Uits) 75.664, Federazione italiana tiro a volo (FITAV) 19.557 e Federazione italiana tiro dinamico sportivo (FITDS) 4.477. Supponendo che circa tra gli 80 e i 100mila civili si allenino presso poligoni privati, gli studiosi si chiedono in che modo i restanti detentori utilizzino le armi che legalmente possiedono. Si tratta dei cosiddetti “tiratori fantasmi”.

Secondo Giorgio Beretta, sarebbe ad esempio il caso di Luca Traini, attentatore di Macerata che il 3 febbraio 2018 esplose alcuni colpi di pistola dalla sua autovettura, ferendo diverse persone. «Sapete in quanto tempo ha ottenuto la licenza sportiva?», ci domanda il ricercatore. Silenzio. Proviamo a fare alcune ipotesi. «Un mese», rispondiamo pensando a una cifra a ribasso. «Diciotto giorni».