IL SOGNO ITALIANO
L’altra faccia dell’immigrazione. Quattro storie di stranieri che in Italia hanno trovato l’Americadi Nicola Baroni e Giacomo Detomaso
Sono immigrati e potrebbero dormire in un hotel a cinque stelle. Ma in tal caso se lo pagherebbero loro. In Italia hanno fondato aziende, aperto ristoranti di successo o raggiunto ruoli di vertice in multinazionali. Sono arrivati per caso o per scelta, si sono innamorati del nostro Paese e qui sono riusciti a trovare il successo, o quantomeno la stabilità economica. Imad, Olga, Shiro e Ashanka in Italia ce l’hanno fatta. Immigrati di prima generazione che hanno superato le difficoltà tipiche di chi cambia Paese, la lontananza dalla famiglia, i pregiudizi e le difficoltà economiche. Il tutto senza bisogno di sussidi statali. Non hanno “rubato il lavoro agli italiani”, anzi in certi casi gliel’hanno dato. Per loro, il nostro Paese è l’America.
1. Il sogno di Imad
«Lavoravo come barista in una delle discoteche più grandi di Beirut, quella sera c’erano mille persone. Avevo il subwoofer sotto di me, il voom voom dei bassi mi faceva tremare la pancia. Alzo la testa al cielo e inizio a pregare Dio: “Ho aiutato la mia famiglia sin da bambino. Ora voglio studiare, voglio avere un’opportunità per cambiare la mia vita”. Quando abbasso lo sguardo, i miei occhi incrociano quelli di un cliente abituale. Veniva lì ogni sera, ordinava la sua bottiglia di vino e restava in silenzio. Quella volta mi chiama e mi dice: “Di solito sorridi, perché oggi sei triste?”».
C’è sempre un momento di svolta nelle vite dei protagonisti del Sogno Italiano. Imad El Kanj del suo ha un ricordo vividissimo. Libanese di 35 anni, fondatore di Moodalisa, un portale che permette ai brand di moda italiani di vendere i propri capi in Medioriente, è arrivato nel nostro Paese nel 2005. L’Università Bicocca di Milano aveva accettato la sua domanda d’iscrizione a un corso di marketing ma l’ambasciata italiana gli aveva chiesto, come garanzia, la disponibilità di circa 6.500 euro. Lui ne aveva solo 200. Stipendio e mance servivano per aiutare la madre e per pagare gli studi alle tre sorelle. Poi, l’incontro con quell’uomo misterioso, che dopo averlo ascoltato accreditò sul conto in banca di Imad tutti i soldi necessari per raggiungere l’Italia. «Non voglio che tu me li restituisca», gli disse. «Ma voglio vedere la tua laurea».
Imad non poteva tradire la fiducia dell’uomo, doveva riuscire a laurearsi, superando ogni ostacolo. «Arrivato a Milano, non sapevo dove andare. Ho dormito per tre giorni in stazione perché dei soldi ricevuti potevo prelevare solo 900 euro al mese. Il terzo giorno, girando in piazza Duomo con le valigie, ho incontrato un altro ragazzo libanese. Conosceva degli amici in città. Grazie a qualche chiamata, siamo riusciti a trovare un trilocale da condividere con dieci persone. Era un casino!». Anche l’approccio alle aule universitarie non fu facile: «Il primo corso che seguii era di diritto privato. Dovevo registrare le lezioni e ascoltarle tre-quattro volte per capirci qualcosa. Nel secondo semestre incontrai una ragazza camerunese che mi insegnò a studiare: faceva dei disegni per trasmettermi il senso dei capitoli. Da allora fu tutto più facile».
Ottenuta la laurea, la sua vita prese una piega che sarebbe stata impossibile da prevedere. Quando vide la luce, infatti, in Libano c’era la guerra civile, un conflitto iniziato 6 anni prima della sua nascita e che sarebbe durato fino al 1990. Andare a scuola, quando si poteva, lo rendeva felice. Al piccolo Imad piaceva studiare e giocare a pallone. Ma già a 13 anni dovette iniziare a lavorare. Dalle sue parti un signore aveva recintato un grande pezzo di terra. «Era diventato una specie di eBay delle auto usate, però… reale. Chi voleva vendere la sua macchina, la parcheggiava lì. Se fosse riuscito a trovare un acquirente, avrebbe dovuto pagare una somma di denaro al proprietario della terra. Presto, però, venditori e compratori iniziarono a prendere accordi di nascosto per evitare di pagare la commissione. Il proprietario del terreno ebbe l’idea di assumere alcuni bambini dai 6 anni in su per sorvegliare l’area circostante: quando intuivano che si stava per concludere un affare fuori dal recinto, correvano ad avvisarlo». Imad era uno di quei bambini. Da allora avrebbe anche lavorato in una pasticceria e in una palestra. Avrebbe fatto il fattorino e il cameriere, assemblato computer e preparato cocktail. Ma quel primo lavoretto, insieme alla passione per la moda, anni dopo gli avrebbe fatto venire l’idea giusta.
Dopo la laurea e uno stage in General Electric, Imad decise di mettersi in proprio. Nel 2015 fondò Italy’s Got Style, una start up incubata dall’Università Bocconi attraverso Speed Me Up. Di fatto, la versione 1.0 di quello che due anni dopo sarebbe diventato Moodalisa: un e-commerce di abbigliamento interamente dedicato al mondo arabo. Per marchi di moda italiani di livello medio-alto – come Trussardi Jeans, Pomikaki e Pinko – è un modo per testare un mercato non facile da raggiungere. Nei primi 4 mesi dal lancio della piattaforma, Imad e i suoi quattro dipendenti sono riusciti a vendere oltre 2500 capi. È solo il progetto principale di un ecosistema che comprende anche Mia, una rivista online di moda, e Hala Italia, un’app che funge da guida per turisti di lingua araba. In cantiere c’è ora l’idea di aprire un fast food di cibo libanese a Milano. «L’Italia mi ha dato quello che non trovavo nel mio Paese. In Libano nessuno sa chi sono. Sono felice di aver dato qualcosa in cambio, ma sicuramente per sdebitarmi dovrei fare molto di più».
2. Il sogno di Olga
«Olga è tornata», ha urlato la regista Marina Spada quando alle selezioni della scuola civica di Milano si è trovata davanti Olga Kozaresca, che subito le ha fatto pensare a quella Olga, pure ucraina, protagonista del suo film Come ombra. Non si trattava della stessa persona ovviamente, ma Spada non sbagliava, perché anche Olga Kozaresca nella sua vita è spesso “tornata”: è venuta a Roma in vacanza e pochi mesi dopo è tornata per viverci, ha iniziato a esportare in Ucraina nel mondo beauty e poi è tornata nel settore aprendo una boutique estetica unica nel suo genere in zona Montenapoleone. Ha portato in Ucraina un brand di make up italiani per il cinema e poi è tornata nella galassia del cinema con le sue coproduzioni. Solo nella sua città natale Olga non è mai più ritornata, quella Zaporoji da cui se ne è andata giovanissima, a 6 anni, per trasferirsi con la famiglia a Pryp”jat’, nella zona di Chernobyl, dove a quel tempo c’era abbondanza di posti di lavoro.
«Avevo 14 anni quando è successa la catastrofe: siamo stati evacuati da Chernobyl a Kyev. Trasferirmi in una città più grande mi ha reso più curiosa e mi ha aiutato a non legarmi a un posto fisso». Già, perché da allora la vita di Olga non ha smesso di cambiare, ogni volta una nuova città e una nuova sfida: quando non arrivavano loro era lei a cercarle. A cominciare dal trasferimento in Italia, dove arriva per caso, grazie a un viaggio estivo a 23 anni che subito si prolunga per quattro mesi: «Un amico di amici mi invitò a Roma, era la mia prima volta in Europa. Non sapevo ancora che ci sarei venuta a vivere, ma feci comunque i documenti per poter tornare: ottenere i visti da zero sarebbe stato molto difficile». Tornata in Ucraina Olga comincia a pensare a cosa fare da grande e si rende conto che Roma può essere un buon luogo dove vivere. La situazione economica del suo Paese di origine e della sua famiglia sono difficili e anche se in Italia parte da zero, le sembra che qui possano esserci per lei maggiori opportunità di lavoro.
Proprio a Roma nel giro di pochi anni, oltre a conoscere il suo primo marito, Olga scopre Cinecittà, una linea di make-up professionale per produttori di cinema che comincia a esportare in Ucraina. È il suo primo progetto imprenditoriale e interseca il beauty e il cinema: due binari destinati a ripresentarsi continuamente negli anni successivi. «Volevo dare al mio Paese d’origine qualcosa che là non c’era. Acquistai anche un grande stock di collant di seta di Christian Dior, in moltissimi pezzi, coinvolgendo tutti i miei amici nella vendita», racconta divertita ricordando i suoi esperimenti imprenditoriali.
Il primo trasferimento a 6 anni, poi a 14, a 26, e infine nel 2002 quello da Roma a Milano, che le ha fatto scoprire una città ancora diversa: «Mi sembrava fatta su misura per me. Per caso, partecipando a una fiera, ho conosciuto un editore che diventerà mio secondo marito e padre del terzo figlio. Con lui ho cominciato a lavorare nell’editoria, sempre occupandomi di Russia e Ucraina».
Ma tutto questo ancora non basta a Olga. «A 35 anni mi arriva la crisi, avevo provato diverse attività ma ero insoddisfatta. Volevo più responsabilità, quindi creai un piccolo format video dedicato al beauty. In poco tempo scopro che questo è un vero e proprio mestiere e improvvisare è impossibile». La soluzione è la scuola di cinema, a Milano c’è la Civica: «Dentro di me speravo che non mi ammettessero, avevo tre bambini piccoli e mi sembrava impossibile conciliare le due cose. Invece entrai». Qui Olga si appassiona al cinema: entrata per poter creare piccoli format video personali scopre il mondo delle coproduzioni. È del 2016 il primo film in coproduzione, girato a Genova. Poi un progetto di coproduzione in Albania e uno in cantiere per un film di Yuri Arabov e Aleksandr Sokurov.
«Prima partivo dall’idea di portare in Ucraina qualcosa che là mancasse. Usavo me stessa come filtro per capire istintivamente se qualcosa poteva interessare nel mio Paese di origine. Poi a un certo punto ho scoperto che esisteva anche là qualcosa che poteva essere importato in Italia. Era già successo in parte con il cinema coprodotto e l’anno scorso me l’ha confermato Brow Bar, una catena di negozi monoservizio dedicati alle sopracciglia aperta da un’amica in Ucraina. In Italia non esisteva nulla di simile». Aprire un Brow Bar anche nel nostro Paese era una sfida, farlo a Milano, in zona Montenapoleone un azzardo pericoloso. Servizio di lusso, accoglienza, caffè, tè e spumante, quattro postazioni con sei ragazze truccatrici e due che si alternano nel ruolo di direttrici di negozio. Trattamenti a partire da 45 euro per clienti che vengono da tutta Italia. «Siamo aperti da un anno e abbiamo già tre proposte di apertura in Italia e in Svizzera. La burocrazia e le leggi non ci aiutano, ma abbiamo già superato molte difficoltà».
3. Il sogno di Shiro
Per tutti è Shiro, che in giapponese significa “bianco”, come il colore della divisa che indossa ogni giorno e come lasciò il compito alle scuole medie, senza neanche aver scritto il suo nome: «Perché è bianco?», aveva chiesto il professore guardando proprio lui. La pagina era vuota perché Minoru Hirazawa era stanchissimo: la sua famiglia era molto povera e per aiutarla Shiro durante il giorno lavorava in una fabbrica di componenti tecnologiche della sua città e la sera frequentava la scuola. Il suo destino cambiò grazie alla prestigiosa scuola di cucina di Osaka e alla missione che gli affidò il suo leggendario maestro, Sizuo Tsuji: portare il sushi in Italia.
A 26 anni, nel 1972, Shiro si trasferisce a Roma e qui lavora come cuoco al Tokyo di piazza di Spagna, il primo ristorante giapponese del Paese. Interrompe il lavoro per qualche anno per andare a studiare in una scuola di cucina in Francia e nel 1977 torna in Italia, ma questa volta a Milano, dove apre un minimarket giapponese. Lo chiama Poporoya, cioè Casa (“ya”) del Popolo. Nel 1984 il grande passo: aprire il primo sushi bar italiano. C’erano già due ristoranti giapponesi in città, ma Shiro decide di inaugurare un locale in pieno stile nipponico: bancone, pochi tavolini, coda per sedersi, un pranzo veloce e alzarsi per lasciare il posto al cliente successivo.
Le difficoltà all’inizio sono molte, a partire dalla materia prima: il riso italiano va bene per il risotto, non per il sushi, il pesce fresco non è sempre adatto e la salsa di soia si importa in container troppo grandi, che creano deposito sul fondo. Anche il banco frigo ha caratteristiche particolari e non se ne trovano in Italia: il signor Amino del ristorante Tokyo lo aveva importato dal Giappone e lo stesso è costretto a fare lui. Una volta trovata la materia prima migliore, il problema sono i clienti: molti tra i giapponesi di passaggio in città, ma nessun italiano. Shiro ha ancora vivida nella mente la scena dei primi clienti italiani: l’uomo si era seduto da solo, raggiunto poco dopo dalla moglie che lo aveva trascinato via di peso urlando. In quegli anni era diffusa la psicosi in seguito ad alcune morti a causa di avvelenamento da pesce spada e nessuno si fidava ad assaggiare pesce crudo.
Oggi Shiro è presidente dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi, che rilascia una certificazione di autenticità a tutti gli associati, a cui è richiesto di avere almeno un cuoco che si è formato in Giappone o presso un maestro che a sua volta si è formato in terra nipponica. Solo una decina dei più di trecento ristoranti giapponesi di Milano rispetta questi parametri.
Shiro ha contribuito a diffondere il sushi nelle catene della grande distribuzione facendo da consulente a un’importante catena di supermercati per vendere il sushi nei banchi frigo. In tutto ha aperto cinque ristoranti giapponesi: ogni nuova apertura era una soddisfazione ma anche nuove sfortune e nuovi problemi burocratici ed economici. In via Piccini un’esplosione dopo l’installazione del nuovo sistema cittadino di tubature a gas distrusse il locale. In piazzale delle Bande Nere una volta depositata la caparra scoprì i moltissimi debiti accumulati dai precedenti proprietari del locale. Lo hanno sempre aiutato la moglie, i figli e gli amici e colleghi italiani che gli davano e continuano a dargli una mano per districarsi tra burocrazia e permessi. Col passare del tempo Shiro ha deciso di vendere tre locali e concentrarsi sui primi due: il sushi bar Poporoya, dove continua a lavorare, e il ristorante giapponese di fronte.
I clienti vengono per il sushi ma anche per lui, che da dietro il bancone grida «Come sta?», «Tutto bene?» e fa lunghi discorsi in un italiano stentato che solo i frequentatori abituali si sono allenati a decifrare. Per imparare l’italiano c’è tempo, dice mostrando il sussidiario elementare di lingua italiana e spiegando che quando sarà in pensione si metterà a studiarlo. Ma a giudicare dall’energia e dall’entusiasmo con cui a 73 anni si racconta, il sussidiario dovrà aspettare ancora molto tempo nell’armadietto sopra il bancone, prima di venire aperto.
4. Il sogno di Ashanka
«Il momento in cui la mia vita è cambiata? Quando sono arrivato in Italia. Questo è il Paese delle Meraviglie. Avete una storia millenaria, strade pulite e uno dei migliori sistemi sanitari del mondo».
È domenica mattina: il salotto di Ashanka Sen, ricoperto di tappeti, si riempie di note. Lui, seduto a gambe incrociate con i piedi scalzi, insegna a suonare il sitar, un enorme strumento a corde della tradizione indiana, ai suoi studenti. Ci vuole tanta pazienza, ma non perde mai il sorriso. «Il segreto è tutto qua» dice agli allievi, indicando la testa. Nell’aria c’è profumo di incenso. Su una mensola, una miniatura in carta del Taj Mahal: l’ha fatta lui, a mano, per la moglie quando si sono sposati.
Sembra Nuova Delhi ma siamo a Cimiano, quartiere nordorientale di Milano. Sono quasi tutti italiani i sitaristi in erba allevati da Ashanka, maestro di musica nel weekend, senior analyst di un importantissimo gruppo di credito europeo nel resto della settimana. Musicista come la madre, ingegnere come il padre, ha trovato in Italia il posto ideale per esprimersi al meglio in entrambi i settori, godendo di uno stile di vita che lui ritiene unico: «Mi sono innamorato subito di questo Paese. Prima di ricevere la prima offerta di lavoro qui a Milano, nel 1995, ho studiato a Mumbai e vissuto brevemente a Londra e a Singapore. C’è troppa confusione lì. Voi sì che sapete godervi la vita». Come dire, l’India gli ha insegnato l’arte della meditazione, ma è in Italia che la sua pace interiore si riflette nell’ambiente circostante: «Se si vuole crescere solo economicamente, ci sono nazioni che offrono più opportunità. Ma per crescere come persona, non ci sono Paesi migliori del vostro».
Nel suo caso, anche le opportunità di lavoro non sono mai mancate. Laureato in ingegneria all’Indian Institute of Technology di Mumbai, in Italia ha sempre lavorato nel settore informatico di grandi gruppi. La fiducia da parte dei suoi colleghi è sempre stata totale. Il passaporto, infatti, invece di ostacolarlo, lo avvantaggia, grazie a un pregiudizio positivo che riguarda la gente della sua terra: «Quando le persone capiscono che sono indiano danno per scontate le mie competenze informatiche». E a sentir lui, anche fuori dall’ufficio le cose non cambiano: «Se non fossi dovuto andare in questura a rinnovare il permesso di soggiorno, non mi sarei mai nemmeno reso conto di essere straniero».
Ashanka ha anche partecipato a una delle istituzioni canore del nostro Paese, lo Zecchino D’Oro. La canzone che si è classificata al secondo posto nel 2001, Piove, piove, è stata scritta e composta da lui. Quando è arrivato in Europa, aveva già 15 anni di esperienza musicale alle spalle. Col suo sitar ha girato il vecchio continente, facendo concerti – da solista o in gruppo – in tutta Italia, ma anche in Svizzera, Francia e Spagna. Attualmente è uno dei componenti del trio Oikos, con il percussionista Sebiano Failla e il chitarrista Mario De Leo, che canta in dialetto pugliese. E poi ci sono le lezioni di sitar, impartite ogni domenica mattina a un gruppo di volenterosi allievi di tutte le età, in maggioranza italiani. Le frequentano chitarristi alla ricerca di nuovi stimoli e appassionati di yoga e cultura indiana. «In passato una ragazza, dopo aver imparato a suonare il sitar con me, è partita per l’India e non è più tornata in Italia».
Il signor Sen, invece, non pensa minimamente di tornare a vivere in India. Sposato con una donna del suo Paese e padre di un bambino che frequenta la British School a Lambrate e parla già quattro lingue, in Italia si sente a casa. Da indiano, però, qualche consiglio agli italiani si sente di darlo: «Siate più orgogliosi di essere italiani. Non abbandonate le vostre radici. Solo conoscendo davvero la propria cultura si possono apprezzare le altre».