Sulla punta della lingua

Alle persone che balbettano una parola che si blocca può costare caro. A volte anche il posto di lavoro ambito. In Italia i concorsi pubblici cercano di stare al passo con la ricerca scientifica, ma le Forze Armate sono ancora troppo lente. Tutto questo, però, è solo la parte visibile di un iceberg fatto di stigma e pregiudizi

di Filippo Menci ed Enrico Spaccini
(illustrazioni di Alessandra Veccia)

 

Quota stabile a 6mila metri, velocità mai sotto i 500 chilometri all’ora, manovre coordinate al millimetro e tempismo che spacca il secondo. Servono due anni di preparazione prima di pilotare un’aerocisterna dell’esercito americano, i velivoli che riforniscono di carburante i caccia bombardieri in azione tra un’incursione e l’altra.

In esercitazione negli spazi aerei d’Europa, e sopra i cieli di Iraq e Afghanistan, in combattimento, il Maggiore Ben Hodgdon ha ripetuto questa operazione migliaia di volte. La sonda per il travaso di benzina deve essere manovrata come un bisturi in sala operatoria. «Non puoi sbagliare in quei momenti», racconta dalla sua casa in Pennsylvania. Quarant’anni passati da poco, capelli biondo cenere e l’espressione abbottonata, Hodgdon parla senza scucire un’emozione. Ha volato sopra mezzo mondo, ma non ha mai messo piede in Italia. Chiede informazioni sul Paese, ogni tanto inciampa sulle parole. «Se mi è capitato di balbettare in servizio? Certo che sì, ma non ho mai perso il controllo della situazione. Nemmeno ci sono andato vicino, la balbuzie non è mai stata di intralcio alla mia capacità di comunicare».

L’esperienza del Maggiore Hodgdon sarebbe irripetibile in Italia. Non perché al nostro Paese manchino buoni piloti, ma perché la balbuzie – «Anche nella sua forma più lieve», recitano i bandi per l’arruolamento – può essere ancora motivo di esclusione a priori dalle Forze Armate. Carabinieri, Esercito, Aeronautica, Marina e Guardia di Finanza: il minimo tremore nella voce e sei fuori.

Questione di sicurezza

Andrea (nome di fantasia) si è scontrato con questa realtà a più riprese. Ventenne, studia all’università, ma sogna di fare il carabiniere. La divisa nella sua famiglia se la sono passata di generazione in generazione, ma una lievissima balbuzie, quasi impercettibile al telefono, potrebbe interrompere la tradizione e ad oggi gli ha sbarrato la strada già tre volte. Il copione è sempre lo stesso: «Brillo nel test di cultura generale, eccello nelle prove fisiche, arrivo all’ultimo colloquio e vengo scartato», ricorda Andrea, che non si è dato per vinto e proverà anche quest’anno. “Se balbetta è ansioso, le persone ansiose non reggono la tensione e se non reggi la tensione non puoi fare il soldato”, è in sintesi il sillogismo alla base del verdetto di inidoneità. «Ma non è così», spiega Andrea, «le pause che faccio quando parlo non sono collegate al mio stato d’animo. I miei blocchi non riflettono nulla di ciò che sono».

Si chiama Persomil l’organo del ministero della Difesa responsabile per la stesura dei bandi dì concorso. Come un’agenzia delle risorse umane, Persomil non ha potere decisionale, riceve le indicazioni dei diversi gruppi militari e traduce idee, valori e parametri in criteri di selezione.

È la singola Forza Armata a dettare le condizioni di accesso. Il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri ha preferito non spiegare perché i candidati che balbettano non sono idonei a vestire la divisa e a distanza di due settimane dalla richiesta di intervista, risponde con una nota: «La clausola di non idoneità è stata espunta dai bandi di concorso pubblicati a partire dal mese di agosto 2021». In realtà, l’ultimo bando per il reclutamento di orchestrali dell’Arma pubblicato sul Gazzettino Ufficiale il 21 dicembre scorso continua a dichiarare non idonei i candidati con «disturbi della parola anche se in forma lieve (balbuzie e disartria)». In merito, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri risponde in data 21 febbraio 2022 che si tratta di «un mero errore di trascrizione in corso di rettifica». Il concorso, però, si è concluso a gennaio.

Sul bando per il reclutamento di allievi bilingui dello scorso anno, la clausola non è esplicitata. Ma il divieto esce dalla porta e rientra dalla finestra. Il testo rimanda al Decreto ministeriale del 4 giugno 2014, dove sono elencate le imperfezioni che sono causa di inidoneità. Tra queste figura la dislalia funzionale, un termine molto generico che include un’ampia gamma di difetti della pronuncia. O almeno dovrebbe. «Dislalia si riferiva a una disabilità fonetica che spesso si associa anche alla balbuzie. Ma oggi questo termine non si usa più», spiega la dottoressa Tiziana Rossetto, presidente della Federazione logopedisti italiani (Fli).

La fluenza rimane una qualità imprescindibile anche per le altre Forze Armate. Andrea non l’ha ricevuta in dote, ma compensa questa mancanza che l’Arma considera come un difetto con coraggio raro. La sua storia non è un caso isolato, sono numerosi gli aspiranti militari che, come Andrea, balbettano ma che al contrario di lui preferiscono non esporsi, nemmeno in forma anonima. Troppo alto il rischio di rendersi riconoscibili e dire addio alle proprie ambizioni. Troppo grande, ancora, lo stigma che circonda questa condizione nella cerchia delle Forze Armate. C’è chi ha gettato la spugna, chi paga il logopedista in nero per non lasciare traccia e chi addirittura è riuscito a entrare dissimulando, coprendo le piccole pause e ripetizioni di sillabe con colpetti di tosse.

Per paura di non fare carriera, è difficile convincere a parlare anche gli agenti di Polizia, nonostante nella maggior parte dei bandi la balbuzie non sia più indicata tra le cause di inidoneità. In passato lo era, ricorda Paolo Vidili, impiegato in pubblica amministrazione: «Erano gli anni ‘90, ricordo ancora che ritirai il bando in Comune e appena lessi la clausola sulla balbuzie lascia perdere».

«Il pregiudizio però rimane», racconta una psicologa che fa parte della commissione per la selezione della Polizia Penitenziaria che preferisce rimanere anonima. «C’è la percezione che una persona disfluente possa compromettere la credibilità e la sicurezza degli altri colleghi, mettendo in pericolo la squadra. Succede tra i militari, ma anche nelle forze di Polizia». E prosegue: «Ricordo che arrivò al colloquio finale un giovane con una balbuzie piuttosto evidente, eravamo indecisi se ammetterlo o meno e non ricordo cosa decidemmo alla fine. Non dubitavamo della sua stabilità psicologica, temevamo che dargli il lavoro lo avrebbe esposto a ritorsioni, da parte di detenuti e colleghi. Abbiamo ponderato l’idea di escluderlo per proteggerlo dal pregiudizio degli altri».

Nicola Resmini balbetta, non cerca di nasconderlo e il mese scorso ha passato l’esame per entrare nella Polizia Locale. «Sono arrivato terzo al concorso e allo scorrere della graduatoria saprò a quale Comune sono stato assegnato», racconta orgoglioso. E prosegue: «Vivo nella provincia di Bergamo, ma so che in altre zone il divieto nei confronti di chi balbetta ancora esiste». Resiste nei Regolamenti speciali per la Polizia Locale di Venezia e Pompei, ad esempio, vecchi e mai aggiornati. «Spesso alle amministrazioni locali mancano le competenze, a volte anche culturali, per stilare bandi che rispecchiano evidenze scientifiche e sensibilità corrente. La presenza di simili divieti è lo specchio del pregiudizio che ancora esiste nella società», spiega la psicologa della commissione.

Se le cose in Polizia stanno cambiando, salvo qualche eccezione nei bandi a livello locale, è anche merito del lavoro dei sindacati: nelle Forze Armate sono stati istituiti solo nel 2017 ma mancano ancora i decreti attuativi necessari a renderli operativi. Proprio per questo motivo guardare ai progressi dei corpi civili è da sempre una buona previsione di ciò che accadrà – o dovrebbe accadere – anche nelle forze a ordinamento militare.

Spesso, anche guardare all’estero aiuta. Non solo l’esercito più potente al mondo conta già tra le sue fila militari che, come il Maggiore Hodgdon balbettano. Sono sempre più numerose le Forze Armate occidentali in cui parlare di balbuzie non è più tabù.

Il primato spetta a quello inglese. Nell’esercito di Sua Maestà, nel 2014 i militari che balbettano, e già da tempo in servizio, fondano Stamma Defence. «Una rete per supportare, ispirare e celebrare i militari disfluenti. Sappiamo che è la prima e unica iniziativa di questo genere al mondo», raccontano. Oltre alla sensibilizzazione, Stamma Defence ha raggiunto obiettivi concreti: la Difesa inglese ha stabilito criteri rigorosi per valutare la balbuzie e istituito programmi per assistere i militari che desiderano migliorare la propria fluenza.

In Inghilterra, un aspirante soldato che balbetta viene valutato, e se considerato idoneo può accedere all’aiuto necessario per imparare a gestire la balbuzie. In Italia è scartato a priori per motivi di sicurezza: poco conta che in caso di conflitto, i soldati italiani si troverebbero a combattere fianco a fianco agli alleati inglesi e americani, dove anche i militari che balbettano ormai ricoprono gradi di comando.

Non sempre il solco tracciato oltre i confini nazionali rappresenta la retta via, serve tempo per giudicare un cambiamento come progresso o involuzione. Tuttavia, sfogliando le tabelle Nato che documentano la rappresentanza femminile negli eserciti dell’Alleanza, all’anno 2000 l’Italia ha il triste primato di non aver ancora arruolato nemmeno una donna. Rileggendo le cronache dell’epoca, le motivazioni combaciano con quelle che oggi tengono fuori le persone che balbettano: questione di sicurezza.

Le conseguenze dello stigma

Se la situazione nei bandi pubblici delle Forze Armate italiane dovesse cambiare, il merito sarebbe in parte anche di Stamma.

Fino a luglio 2021, digitando la parola balbuzie sui device Apple di tutto il mondo appariva come suggerimento automatico una faccina “woozy”, stordita. Stamma protesta ufficialmente e dai canali social dell’associazione inglese, il tam-tam sul web diventa globale. Apple non si scusa ufficialmente, ma nel giro di ventiquattr’ore il link scompare da oltre 1.8 miliardi di dispositivi attivi. Vittoria.

In Italia l’appello di Stamma è raccolto da Giovanni Muscarà, fondatore di Vivavoce, centro medico che da 11 anni assiste le persone che balbettano. Ma la vittoria contro il colosso di Cupertino non è sufficiente. «Quella di luglio è stata una buona occasione per richiamare l’attenzione sul tema dei diritti delle persone che balbettano nel nostro Paese», racconta nel suo ufficio di Milano a pochi passi da piazzale Loreto. «Come associazione abbiamo deciso di creare un dossier che raccolga tutte le discriminazioni nei confronti di chi balbetta contenuti nei bandi pubblici per poi presentare una proposta di legge che li cancelli». Il lavoro è ancora in fase embrionale, ma grazie alla visibilità della scorsa estate due parlamentari si sono rese disponibili a considerarlo, una volta terminato.

L’attivismo di Vivavoce non è dell’ultim’ora. Muscarà fa i conti con la balbuzie da quando ha imparato a parlare e in 39 anni non ci è mai sceso a compromessi. «Entrare nel mondo del lavoro è stato difficilissimo. Gli intervistatori mi sentivano parlare e non credevano che io fossi il giovane brillante del curriculum. Il mio primo lavoro è stato in banca Leonardo, il manager che mi ha assunto si chiamava Alessandro Falzone. Lo ricordo ancora, al colloquio anche lui cercava di nascondere la sua balbuzie».

È sufficiente fare un giro nei gruppi di supporto su Facebook per capire che l’esperienza di Muscarà è condivisa e ancora attuale. Anche Gabriele Tomba, 22 anni, romano, alla fine un lavoro come tecnico informatico lo ha trovato: «Ma ho dovuto ridimensionare i miei sogni, modellarli sulle aspettative che la società ha nei confronti delle persone che balbettano», racconta. «La discriminazione che subiamo è velata. Fatta di sguardi, di colloqui tecnici andati benissimo a cui nessuno da seguito. La balbuzie è un difetto ma non è una disabilità, quindi puoi essere scartato ma non hai diritto a nessuna tutela», conclude.

Una storia da sola non è sufficiente a definire una tendenza, ma 14mila raccolte e analizzate nel corso di quasi due decenni fanno una statistica. È questo il campione analizzato dalla dottoressa Hope Gerlach, logopedista e ricercatrice della Western Michigan University che ha messo al centro dei suoi studi la componente sociale della balbuzie, per comparare la performance sul mercato del lavoro negli Usa di persone che balbettano (person who stutter, pws) e persone che non balbettano (person who not stutter, pwns). «Il nostro studio mostra subito che i salari delle persone che balbettano sono molto più bassi. In media un uomo guadagna 10mila dollari in meno all’anno, una donna fino a 12mila», spiega Gerlach via Zoom. «I dati che abbiamo analizzato sono così robusti che ci hanno permesso di controllare e scremare molte variabili che incidono sulla ricchezza personale. Ed è qui che viene il bello», prosegue Gerlach. «Larga parte di questo gap salariale non è spiegabile razionalmente», come attraverso ruolo e ore lavorative, oppure educazione e background sociale. «Questo è tipico delle differenze causate dalla discriminazione, agli uomini costa circa mille dollari mentre alle donne più di 8mila. Inoltre», conclude la dottoressa, «abbiamo scoperto che mentre gli uomini che balbettano hanno maggiori probabilità di rimanere disoccupati, le donne sono demansionate e costrette ad accettare lavori inferiori rispetto alle loro competenze».

 

Non esistono studi equivalenti sul mercato del lavoro italiano, ma un articolo pubblicato sul Journal of communication disorders indica che molto probabilmente i risultati sarebbero simili. Alla ricerca, ultimata nel 2016, hanno contribuito 17 centri di ricerca europei, tra cui la romana Crc Balbuzie, guidata dalla dottoressa Donatella Tomaiuoli. «È emerso che l’atteggiamento nei confronti delle persone che balbettano in Italia è molto più negativo della media europea», spiega Tomaiuoli. E prosegue: «In Italia la balbuzie è considerata alla stregua del ritardo mentale, anche se non è assolutamente così. E parte della responsabilità è anche della rappresentazione fatta dai media e dal mondo della cultura».

Uno stigma che pesa come un macigno. Francesca Prinzivalli se l’è portato sulle spalle fin dalle elementari, poi a 14 anni l’intuizione: «Studiando inglese mi sono accorta che non balbettavo e ho subito pianificato la fuga. A 18 anni sono partita per l’Inghilterra. Sono fuggita dalla mia lingua. Poi però, acquisendo sempre più padronanza ho iniziato a balbettare anche in inglese». Gli stereotipi non sono un problema solo italiano: «Qualche sguardo ti taglia in due. Esprime imbarazzo e allo stesso tempo diffidenza, l’ho incontrato lavorando in Inghilterra, Lettonia e Malta. Il pregiudizio appartiene un po’ a tutti».

Dall’altra parte della barricata anche i datori di lavoro ammettono che il problema esiste. «Le minoranze o le categorie più fragili, conquistano diritti grazie al lavoro di lobby. Ma non ne esiste una dei balbuzienti», spiega Andrea Rubera, manager per l’inclusione e cura delle persone di Tim. «Per questo motivo il tema non è nemmeno preso in considerazione dalle aziende, incluso la nostra». Anche Rubera balbetta e conosce da vicino le difficoltà che questa condizione può causare sul posto di lavoro: «La discriminazione non è mai ufficiale e spesso nemmeno intenzionale. A parità di curriculum viene preferita una persona fluente rispetto a una che balbetta, un uomo rispetto a una donna che potrebbe rimanere incinta, e questo è vero soprattutto per la selezione di manager e dirigenti». E continua: «Spesso le persone che balbettano sono considerate emotivamente fragili, si tratta di un bias, esiste. Per combatterlo è necessario fare lavoro di sensibilizzazione, scoprire cosa dice la scienza a riguardo. È così che si smontano i pregiudizi e si abbatte lo stigma».

La percezione della balbuzie nella storia

Non serve una cura a una non-malattia

«Voglio essere chiara: la balbuzie non è un disturbo psichiatrico, non è nemmeno causato dall’ansia». Soo-Eun Chang è professoressa associata al dipartimento di psichiatria della Michigan University e studia la balbuzie da oltre 10 anni. Esperta di neuroimaging, indaga sulle origini biologiche e neurali della disfluenza mappando il cervello. «L’idea che la balbuzie sia dovuta a un qualche tipo di instabilità emotiva non poggia su basi scientifiche, molte di queste idee sono state smontate dalla ricerca», continua Chang, «io credo sia proprio l’opposto. Non è l’ansia che fa balbettare, è balbettare che a volte fa diventare le persone ansiose per timore del giudizio degli altri. Oggi la balbuzie è considerata un disturbo del neurosviluppo, dovuto a un’anomalia che avviene durante la crescita. Ed è questo che ancora non conosciamo, l’origine dell’anomalia».

Un’interpretazione scientifica riconosciuta ormai a livello internazionale. Come confermato dalla dottoressa Annamaria Zambarbieri, logopedista nello studio ParLAMi (Parole linguaggio ascolto Milano): «Le evidenze scientifiche in questi ultimi 25 anni hanno portato a una definizione precisa, la balbuzie è un disturbo del neurosviluppo complesso e multifattoriale».

Chang studia il cervello dei bambini disfluenti per capire in cosa differisce da quello di chi non balbetta. La raccolta dati per misurare l’incidenza di questo disturbo nella popolazione mondiale è complicata: non esiste un unico modo di balbettare e trattandosi di informazioni sensibili non è possibile stilare un qualche tipo di registro. «Sappiamo per certo che la maggior parte dei bambini smette di balbettare crescendo»: i pochi dati disponibili ai ricercatori mostrano come almeno il 5% dei bambini balbetta, valore che tende a decrescere fino all’1% nella popolazione adulta. «Vogliamo scoprire quali dinamiche del neurosviluppo permettono alla balbuzie di scomparire con la crescita e perché in alcuni casi rimane».

Il laboratorio di neurofisiologia del Michigan ha condotto negli ultimi anni un esperimento unico nel suo genere. Confrontando le immagini del cervello ottenute con imaging a risonanza magnetica (Mri) di un gruppo di persone che balbettano con quelle dei cosiddetti normofluenti, sono emerse piccole differenze. «Nell’emisfero sinistro c’è una pista di materia bianca che funziona come un cavo dell’elettricità, connette le parti essenziali per la produzione del linguaggio», spiega Chang, «le immagini hanno mostrato che nel cervello di chi balbetta, questo cavo è meno efficiente. Altre alterazioni sono state individuate nell’area motoria supplementare, che è la parte responsabile per l’elaborazione delle tempistiche dei movimenti che ci permettono di parlare muovendo centinaia di muscoli nel modo esatto».

Se l’efficacia di questa pista è ridotta allora anche la comunicazione tra le diverse aree del cervello ne risente e qui entra in gioco la neuromodulazione: scosse elettriche a basso voltaggio indirizzate all’area motoria supplementare. Una tecnica sempre più comune, in fase di sperimentazione anche in italia. Dal 2020 il dottor Pierpaolo Busan guida una equipe di specialisti all’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) San Camillo di Venezia. «È dal 2009 che ho la possibilità di occuparmi delle basi neurofisiologiche della balbuzie», racconta. Nato a Trieste nel 1980, è ricercatore specializzato in neuropsicologia: «Mi definisco un balbuziente duro e puro, ma con il passare degli anni riesco a gestirmi sempre meglio. Ogni passo in avanti nella comprensione è un modo per ottenere nuovi suggerimenti su come controllarla». 

Solo grazie a un finanziamento di circa 350mila euro per la Ricerca finalizzata e giovani ricercatori messo in palio dal Ministero della Salute si è potuta costituire la squadra di specialisti del San Camillo. Il progetto terminerà nel 2023: «L’obiettivo è dimostrare che stimolando certe aree del cervello queste possano essere meglio predisposte all’apprendimento delle tecniche riabilitative».

«Non esistono interventi miracolosi», precisa Busan che oltre a guidare la sperimentazione fa anche parte del campione sperimentale. «Ci si aspetta che la neuromodulazione modifichi i circuiti e risolva ogni problema. La realtà, però, è più complessa di così». Per poter gestire la balbuzie, i logopedisti insegnano tecniche che permettono di parlare in modo più fluente. Tuttavia, non sono sempre facili da usare: «Emozioni e ansia sono conseguenza del disturbo, ma bisogna comunque tenerne conto per la corretta gestione». Attraverso la neuromodulazione si riesce a modificare l’attività dell’area motoria supplementare, ovvero «la porta d’uscita della balbuzie. Così riusciamo ad aumentarne l’eccitabilità e tutto il circuito può trarne vantaggio a cascata». Il problema, sia in Michigan che in Italia, è che «il motivo di questo malfunzionamento non è ancora chiaro. Quello che è certo è che, come accade anche per la sindrome di Tourette, ha una base genetica che va a colpire una serie di circuiti profondi, i nuclei della base». Sono questi piccoli nuclei che permettono di apprendere in modo corretto i comportamenti motori, quei piani che applichiamo in modo automatico come andare in bicicletta o, appunto, formulare frasi. Ed è poi proprio quel motore supplementare a raccogliere i vari input. «Sappiamo che ci sono degli squilibri nei nuclei della base di chi balbetta dal punto di vista della trasmissione di informazioni. Difficoltà che poi mettono in crisi il rilascio da parte dell’apparato motorio».

Il circuito di cui si parla è chiamato cortico-basale-talamo-corticale. È lui a essere responsabile dell’avviamento dei piani motori, anche quello del linguaggio: «Quando è stata preparata la parola che vogliamo dire, questo circuito ha già pronto il piano motorio e deve fare in modo di liberare quello corretto bloccando anche tutti quelli che non c’entrano in quel momento. In chi balbetta non viene attivata la sequenza giusta per parlare». La neuromodulazione potrebbe aiutare in tal senso. Ad ogni modo, più che di intervento terapeutico a sé, si tratta di intervenire per facilitare l’apprendimento, l’efficacia e la messa in pratica delle tecniche riabilitative già a nostra disposizione.

Come accade per la dislessia o il deficit di attenzione, anch’essi classificati come disturbi del neurosviluppo, il mondo scientifico non ha ancora trovato una causa scatenante univoca. Francesco e Riccardo sono due gemelli eterozigoti. A un primo sguardo sono identici, ma in realtà condividono il patrimonio genetico come fossero due fratelli. Cresciuti nella stessa casa, hanno frequentato la stessa scuola e condiviso sport e amicizie. Francesco balbetta, Riccardo no. «C’è di sicuro una base genetica all’origine della balbuzie», spiega Chang, «ma non si tratta di un singolo gene che possiamo spegnere o accendere quando vogliamo. Probabilmente sono migliaia e quindi le aree del cervello interessate più d’una». Inoltre, come aggiunge Busan: «Anche se il patrimonio genetico è identico, l’interpretazione di un’esperienza da parte dei geni può essere diverso». 

Non solo. «È risaputo come esistano casi di giovani che iniziano a balbettare dopo aver subito un forte trauma emotivo», spiega la dottoressa Zambarbieri, «ma anche come la componente familiare incide in qualche modo negli anni dello sviluppo di un bambino che impara a parlare come il genitore che balbetta».

L’iceberg della balbuzie

Un problema complesso richiede un trattamento complesso. L’origine multifattoriale della balbuzie implica la cooperazione di varie figure professionali e necessita di progressi in vari ambiti di ricerca per la sua gestione. «Da decenni si sta lavorando a delle terapie farmacologiche e ci sono stati segnali promettenti da almeno una ventina di studi». Scott Yaruss è professore di Scienze e Disturbi della Comunicazione. Dal 2017 è entrato a far parte della Michigan University per offrire ai logopedisti il suo supporto nel campo della balbuzie. «Il focus della mia ricerca è ridurre il fardello che chi balbetta è costretto a portarsi dietro», racconta. Negli ultimi anni sta seguendo da vicino i progressi di alcuni farmaci specifici. Tra questi, l’Ecopipam è quello in fase più avanzata. Brevettato da Emalex Biosciences, casa farmaceutica di Chicago nell’Illinois, già esperta nel trattamento della sindrome di Tourette, e il Pagoclone, brevettato nel 2005 dalla Indevus Pharmaceuticals di Lexington, in Massachusetts. «Questi farmaci non sono per tutti e bisogna sempre considerare l’effetto placebo: la sola idea di prendere qualcosa può influenzare le persone», precisa Yaruss. «Nella letteratura medica non esista una cura definitiva», ricorda il professore, «sono solo strumenti che possono aiutare le persone a vivere meglio».

La balbuzie, però, non è solo quello che vediamo: ci sono comportamenti, sentimenti e pensieri che crescono con la persona che balbetta. Tutti elementi che nessun farmaco può eliminare. «È probabile che anche se la balbuzie scomparisse del tutto, la persona che balbettava potrebbe continuare a risentire di un disagio nelle relazioni sociali». Per questo motivo la maggioranza dei clinici ritiene che anche se si dovesse trovare un farmaco efficace, bisognerà comunque applicarlo in congiunzione con una terapia psicologica.

La balbuzie è un iceberg: «Quello che vediamo, che può essere diverso per ogni persona, sono le caratteristiche udibili e visibili. Poi però devi valutare anche tutto ciò che è sommerso». Il dottor Dario Strangis, logopedista di Torino e certificato Efs (European fluency specialist) e persona che balbetta, ricorre spesso a questa metafora con chi si rivolge a lui. «La parte invisibile, quella nascosta dall’acqua, è fatta di emozioni, di pensieri e di reazioni istintive che portano a scappare da situazioni che possono creare un disagio. La persona che balbetta può affrontare le proprie difficoltà, diventando consapevole di cosa gli succede senza evitarlo e, anzi, mettendole allo scoperto. Anche semplicemente parlare apertamente della propria balbuzie è importante. E spesso è proprio il primo passo. In questo modo è come se il sole andasse a sciogliere direttamente il ghiaccio. Poi però l’acqua si può anche riscaldare». Ed è nell’acqua che circonda l’iceberg che troviamo i contesti in cui la persona che balbetta è costretta a tuffarsi ogni giorno: la scuola, la famiglia, il lavoro, l’opinione pubblica. «Attraverso un lavoro anche di sensibilizzazione, chi balbetta si potrà liberare gradualmente di tutti gli stereotipi e deu pregiudizi, anche di quelli che ha interiorizzato negli anni verso di sé e verso le persone che balbettano».

Un logopedista deve valutare tutti gli aspetti dell’iceberg, sia la parte visibile che quella più nascosta. Nel 2014 un gruppo di specialisti olandesi ha elaborato la prima guida per il trattamento clinico della balbuzie. In Italia è arrivata solo nel 2019, grazie a Fli che ne ha curato la traduzione. Dal punto di vista logopedico, «non importa di che natura essa sia, ereditaria, neurologica o genetica», spiega la dottoressa Zambarbieri. «Il nostro lavoro ha un unico e preciso obiettivo: cercare il più possibile la naturalezza. Il punto di partenza è la consapevolezza. Solo avendo chiare le mie difficoltà posso accettarle e magari iniziare a modificare alcuni comportamenti fino ad arrivare a una soluzione», racconta. Un logopedista può insegnare tecniche, come la pausa o il massimo e minimo contatto, che permettono a chi balbetta di uscire da un blocco. «Si lavora molto anche sull’articolazione delle parole: devo migliorare la gestione dei muscoli facciali, in modo da essere consapevole di ogni mio movimento». Gli esercizi sono tra loro simili, ma variano a seconda delle fasce d’età. Uno dei più comuni consiste nel pronunciare degli scioglilingua in condizioni anomale: come tenere la punta della lingua ferma sul palato, o tra i denti, oppure di taglio, cosa che permette di usare in modo più consapevole tutti gli altri muscoli. «A volte mi chiedono se la terapia per la balbuzie è noiosa. Be’, posso assicurare che non lo è. Anzi, è molto divertente e ti porta a capire sempre di più come funziona una cosa tanto elementare quanto il linguaggio».

Per un disturbo del neurosviluppo, la precocità d’intervento gioca un ruolo centrale. «Si può intervenire anche in età adolescenziale o adulta», spiega la presidente di Fli Rossetto, «ma se si aspettano tanti anni i meccanismi di difesa, come evitamento e fobie sociali, si consolidano nella persona e diventano più difficili da cambiare». I centri di eccellenza non mancano in Italia, ma sono tutti privati. Basti pensare che negli ospedali pubblici della città di Milano è presente una sola logopedista specializzata in balbuzie. La dottoressa Francesca Todaro ha 28 anni e lavora al Sacco: «La situazione è apocalittica. I tempi di attesa arrivano anche a un anno, sia negli ospedali che nelle Uonpia, le Unità operative di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. Inoltre, il mio è un ambulatorio di foniatria, quindi non ci sono psicologi. Il servizio che offriamo come Sistema sanitario nazionale a chi non può permettersi uno specialista privato è del tutto insufficiente».

Come dimostrato dagli studi di Gerlach, senza un’assistenza tempestiva chi balbetta sviluppa un istinto naturale di fuga da una società dove lo stigma è ancora molto marcato. La comunità ti ha fatto capire negli anni che il tuo difetto di pronuncia è sbagliato, per questo motivo sei costretto a nasconderti per proteggerti.

Strangis, oltre a occuparsi per lavoro di voce professionale e artistica, da qualche anno coordina nel suo tempo libero un gruppo di conversazione, attualmente gestito insieme alla logopedista Zaira Di Chiara, e Andrea Callegaro, insegnante di scuola elementare. Anche loro, persone che balbettano. Proprio per andare contro la tendenza a nascondersi, lo hanno chiamato: ‘Balbuzie allo scoperto!’. L’educatrice all’asilo nido Stefania, lo studente di medicina Michele, l’insegnante d’arte a Londra Roberta, il fumettista canadese Daniele, il geometra Luca, e tanti altri si ritrovano una volta alla settimana per parlare delle proprie esperienze e per scambiarsi consigli.

Uno degli incontri di "Balbuzie allo scoperto!"

Uno degli incontri di “Balbuzie allo scoperto!”

«Noi insistiamo nel dire che è bene essere diversi, ma in realtà è difficile esserlo». Quello che bisogna cambiare, secondo Yaruss, è il modo di ragionare non solo della comunità in generale, ma anche delle persone che balbettano. «Bisogna arrivare a un’accettazione radicale, a non pensare più che bisogna smettere di balbettare per essere a posto. Le persone che balbettano in tutto il mondo sono almeno 70 milioni e non tutte hanno accesso alle terapie. La balbuzie è una variante naturale della diversità verbale: un modo in cui le persone parlano, una specie di accento. Per questo l’accettazione è essenziale, e inoltre può raggiungere tutti».

La persona che balbetta non è un balbuziente

Vincenzo Russo è al terzo anno di Giurisprudenza, studia alla Bocconi, ama lo sport, il calcio, tifa Milan. Dei suoi sette anni ricorda di aver festeggiato in piazza Duomo la settima Champions League rossonera e di aver iniziato a balbettare. Russo balbetta ma non è un balbuziente: «All’inizio mi facevo problemi, ma adesso, prima di ogni esame, scrivo ai professori per avvertirli. La balbuzie per me non è un tabù, non mi nascondo e non me ne vergogno. Merito di essere valutato per quello che so, non per come lo dico».

Joe Biden, Alberto II principe di Monaco, Kylie Minogue, Jonathan Ive, ma anche gli italiani Paolo Bonolis, Gianmarco Pozzoli, Alessio Cragno, Antonio Bassolino. Come Russo sono tutte persone che balbettano. Ma non sono balbuzienti. «La differenza non è solo di linguaggio, non ha nulla a che vedere con il politicamente corretto», spiega Tomaiuoli: «Per un balbuziente la giornata va bene a seconda di quanto è riuscito a controllare la balbuzie. La sua vita ruota attorno a questo aspetto, la condiziona in modo profondo ed è una cosa che rappresenta una vera vulnerabilità». Non si tratta di una reazione esagerata, «è del tutto normale cercare di nascondere un’identità quando la società la stigmatizza come negativa. È tipico anche in altre minoranze», spiega Gerlach: «Nelle nostre ricerche abbiamo scoperto che la serenità delle persone non è correlata alla severità della balbuzie. L’energia che una persona impiega per nascondere la disfluenza è un indicatore che permette di predire la salute mentale in modo più accurato».

La fluenza non è l’antidoto alla balbuzie, e «le persone che balbettano possono essere ottimi comunicatori» è il consenso degli intervistati. «Quello di Biden, l’uomo più potente del mondo che balbetta, è un esempio forte ma va interpretato nel modo corretto», chiarisce Chang: «Il presidente americano riesce a controllarsi in modo pressoché impeccabile, e questo rischia di lanciare un messaggio controproducente: se anche tu non riesci a far scomparire la balbuzie, allora c’è qualcosa che non va».

Non è necessario trasformarsi in superstar, né tantomeno diventare perfettamente fluenti per essere a posto.  «Se potessi scegliere preferirei non balbettare, ma non ho questo potere. Ho ereditato questo modo di parlare da mio padre e l’ho trasmesso a mia figlia. Fa parte dì ciò che sono, l’ho accettato e crescendo ho deciso che la balbuzie non mi avrebbe fermato, che non mi sarei autolimitata», dice Vanessa Pinto, pubblico ministero della Corte dei Conti. Quando studiava Giurisprudenza a Bari i temi dell’inclusività per le persone balbuzienti non erano neppure contemplati e in questo senso Pinto è stata una pioniera, una apripista per gli studenti come Russo. «Durante l’esame dì Procedura Civile la balbuzie si fece così severa che non riuscivo a dire una parola. Il professore non si scompose, faceva domande, io scrivevo le risposte, presi 30 e lode». Anche grazie a episodi come questo, Pinto ha imparato a spostare la sua attenzione su ciò che dice, piuttosto che su come si esprime. «Quando sento che sto per fermarmi durante una presentazione ci scherzo su, ‘ecco l’effetto suspense dico’».  L’autoironia è stata fondamentale nel percorso di autoaccettazione di Pinto e di molte delle persone che balbettano, quelle che accettano questa peculiarità del loro modo di esprimersi come uno dei tanti elementi che le rendono uniche. «Se impari a ridere di te stesso fai breccia nell’interlocutore, conquisti chi ti ascolta e disarmi ogni tipo di attacco basato sul pregiudizio. Balbettare mi ha insegnato a concentrarmi sui contenuti, a prepararmi al meglio. Quello che voglio dire è importante e chi vuole sentirlo deve solo aspettare un po’ di più».