VITA CHIAMA ORGANI

Sono quasi otto mila i pazienti in lista di attesa: persone in sospeso che aspettano solo un donatore

Di Alice De Luca e Matteo Gentili

«In questo modo la morte di mio marito non è stata vana», è la frase che una donna si ripete, seduta in un reparto di terapia intensiva, dopo che ha acconsentito alla donazione degli organi del suo compagno. Poco dopo un agente di polizia viene chiamato: oggi dovrà trasportare un polmone e sente la tensione salire. In un’altra città, il telefono di un chirurgo squilla: un organo è in arrivo e bisognerà trapiantarlo, è urgente, che venga subito in ospedale. La macchina della donazione di organi somiglia molto a questo: una straordinaria convergenza di storie, un allineamento che unisce destini votati a unico scopo, una missione che è, ogni volta, un piccolo miracolo. 

Mentre tutto questo succede, una donna, che non sa ancora nulla, si chiede preoccupata: «E se non faccio in tempo? Se un polmone per me non arriva? Se poi non va bene?». Cecilia si è fatta più volte domande come queste. Oggi lei ha 65 anni e nel salotto di casa sua racconta la sua storia, che è anche, ma non solo, quella della sua malattia. Una fibrosi polmonare che le ha tolto pian piano il respiro fino a quando l’ha costretta a sottoporsi a un trapianto d’organo.

I dati

Sono passati undici anni da quell’operazione e l’attesa di Cecilia si è conclusa con un sospiro di sollievo. Ma le persone che si trovano oggi in quel limbo di paura e angoscia, aspettando un’operazione che potrebbe migliorare se non salvare loro la vita, sono molte. In Italia, per la precisione, le liste oscillano attorno agli 8mila pazienti, con tempi di attesa che, secondo il Sistema Informativo Trapianti (SIT) del ministero della Salute, vanno da 1,7 a 6,2 anni a seconda dell’organo.

Questo avviene nonostante il 2023 sia stato un anno record per i trapianti in Italia. Con 4.462 operazioni effettuate, si è infatti raggiunto un traguardo mai toccato prima, che ha segnato un aumento del 15,1% sui 3.876 trapianti del 2022. Questo risultato è stato possibile anche grazie all’incremento di donatori, che per ogni milione di abitanti (pmp) sono saliti dai 24,6 del 2022 ai 28,2 dello scorso anno. Numeri storici, che secondo il SIT collocano la penisola al secondo posto tra i paesi europei più generosi, dietro la Spagna.

Le liste di attesa, tuttavia, continuano ad essere affollate. Stando alla Newsletter Transplant, il più recente report disponibile a livello europeo, nel 2022 l’Italia era il quinto paese per numero di persone in lista di attesa, con 135,4 pazienti per milione di abitanti. I primi quattro posti erano occupati, in ordine, da Romania, Portogallo, Francia e Bulgaria. Sebbene le informazioni siano abbastanza obsolete e non tengano conto dei progressi fatti nel 2023, è comunque plausibile pensare che il dato più recente non si discosti più di tanto da quello del 2022. Ricavandolo dalle rilevazioni disponibili, infatti, al momento risultano in attesa ancora esattamente 135,4 pazienti pmp*

*Dato ottenuto dividendo il totale delle liste di attesa al 1° febbraio 2024, che registrano 7990 pazienti secondo il SIT, con il numero dei residenti risultati all’ultimo censimento Istat disponibile, circa 59 milioni.

Ecco perché, nonostante i progressi del settore, trovare nuovi donatori rimane un’urgenza se si vogliono accorciare le liste di attesa e fare ripartire tante vite rimaste in sospeso. Una rinascita che riguarda non solo i riceventi come Cecilia, ma anche i donatori e i loro familiari, come Doriana.

Doriana ha 64 anni e vive a Torino insieme al figlio Alessandro. Conobbe il suo compagno all’età di quindici anni e al suo fianco ha trascorso la vita fino a quando, nel 2016, lui venne a mancare a causa di un incidente sul lavoro. Doriana e Alessandro, interpellati dai medici, decisero di acconsentire alla donazione di organi. «Sono stati momenti terribili – racconta Doriana –  ma sono contenta della scelta che ho fatto. So che i riceventi godono di ottima salute e che gli organi funzionano tutti bene».

A distanza di qualche anno dall’incidente, Doriana è riuscita a conoscere una delle persone trapiantate con un organo del suo compagno. La legge italiana, tuttavia, vieta ai donatori di sapere l’identità dei riceventi, e viceversa. «Lo si fa perché c’è il rischio – spiega la dottoressa Elisabetta Masturzo, Responsabile del Coordinamento locale del prelievo di organi e tessuti all’ospedale Niguarda di Milano – che dopo la donazione si instaurino forme di ricatto economico, morale o affettivo tra le parti. La legge ha voluto garantire che non ci fosse nella donazione nessuna forma di mercimonio». 

Facciamo chiarezza: una lezione sul trapianto

La donazione degli organi può avvenire in due modi: da vivente o da cadavere. I trapianti del primo tipo, che si verificano per lo più tra persone legate da vincoli parentali, possono riguardare un rene, una porzione di fegato o di polmoni. La donazione da cadavere, invece, non può avvenire senza avere effettuato prima l’accertamento di morte della persona. Questa è, quindi, una condizione imprescindibile per il prelievo e può avvenire tramite criteri neurologici o cardiologici, due modalità di abbreviazione dei tempi classici dell’accertamento che, per il Regolamento nazionale di Polizia mortuaria, deve avvenire tra la 15esima e la 30esima ora dalla constatazione del decesso.

I DUE CRITERI PER ACCERTARE LA MORTE

Universalmente il decesso è definito dalla cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello. La morte quindi è una sola, quella che varia è la modalità dell’accertamento, rispettivamente con criteri cardiologici o neurologici nei pazienti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie.

L’accertamento di morte con criteri neurologici riguarda soggetti collegati a respiratori automatici. Nonostante in questi pazienti la circolazione sia mantenuta attiva da una respirazione artificiale, il cervello è morto perché privo di ogni attività. Ma come esserne certi? «L’accertamento di morte con criteri neurologici è eseguito da un collegio medico composto da tre profili differenti, ossia un neurologo, un medico legale o medico di direzione sanitaria e infine un rianimatore», racconta Elisabetta Masturzo. «Il collegio deve accertare per due volte nell’arco di sei ore minime una serie di parametri fissi: l’assenza di riflessi del tronco encefalico e di respiro spontaneo, l’assenza di stato di coscienza e il silenzio elettrico cerebrale tramite encefalogramma. Tutte le condizioni devono essere presenti contemporaneamente». Dichiarata la morte si staccano le macchine a supporto delle funzioni vitali.

«Nel caso dell’accertamento con criteri cardiologici, i medici eseguono un elettrocardiogramma protratto per venti minuti: questo è il tempo di anossia che determina un’irreversibile perdita delle funzioni dell’encefalo e quindi la morte dell’individuo», continua Masturzo. Quando il cuore smette di battere, il sangue non arriva più al cervello provocando il decesso. Ecco perché la morte, in un caso o nell’altro, è sempre connessa all’encefalo.
Questi venti minuti di attesa sono una particolarità del nostro paese la cui legislazione è molto garantista a riguardo. Mentre in altri Stati bastano anche cinque minuti per confermare il decesso di un paziente attraverso i criteri cardiologici, i nostri venti sono stabiliti dall’articolo 2, comma 1, della legge 29 dicembre 1993 sulla definizione di morte.

IN SALA OPERATORIA

A seconda dell’età del donatore e del suo stato di salute, si prelevano diversi organi. Al di là dei cinque più comuni (cuore, polmoni, reni, fegato e pancreas), la lista di ciò che si può asportare è lunga: eccone una grafica. 

Prelievi e trapianti sono interventi chirurgici, le cui problematiche tecniche variano in base agli organi. «Per esempio quello di rene è particolare perché l’organo malato non viene rimosso, ma rimane nella sua sede originale dato che quello nuovo viene impiantato nella zona inguinale, dove si ha un accesso più facile ai vasi sanguigni», sostiene Luciano Gregorio De Carlis, professore e chirurgo dei trapianti dell’Ospedale Niguarda di Milano. «Nel trapianto di fegato invece la fase più delicata è la rimozione dell’unità malata che lascia la sua sede scoperta. Qui si devono chiudere più in fretta possibile i vasi che vanno al fegato per evitare il rischio di congestione degli altri organi. Insomma, sebbene ogni intervento abbia una storia a sé, esiste anche una linea comune: togliere l’organo malato dal circolo sanguigno, tagliando le connessioni vascolari, e trapiantare quello sano».

Una volta prelevati, gli organi di un paziente vengono messi in una soluzione a quattro gradi di temperatura capace di abbassare il metabolismo per evitare la proliferazione di reazioni chimiche al loro interno. Così, favorendone la conservazione, si mantengono senza danni. Il trapianto viene completato quando, con un lavoro da sarto, si ricongiungono i vasi sanguigni del paziente con l’organo impiantato tramite dei fili di materiale sintetico. La riperfusione, cioè quando l’organo riprende il flusso sanguigno, è il momento della verità che indica se l’operazione è andata a buon fine.
Oltre a quella tecnica c’è anche una problematica di carattere immunologico. «Gli organi devono andare a una persona compatibile in grado di accettarli senza generare il cosiddetto rigetto, ovvero l’incapacità dell’organismo di riconoscere l’organo trapiantato come suo», continua De Carlis. Infatti, il nostro sistema immunitario individua i vari virus, i germi patogeni e li uccide prima che possano creare danni e quando non li riconosce come propri cerca di espellerli generando un’azione difensiva. Il trapianto, dunque, deve tenere considerazione anche di questo fattore.

Il chirurgo è solo la punta di diamante di un percorso che coinvolge nuclei diversi: coordinamento locale del prelievo di organi e tessuti, approvvigionamenti, farmacie, banche dei tessuti, servizi diagnostici, il 118 e talvolta anche le Forze dell’ordine che, grazie alle supercar, trasportano gli organi attraverso l’Italia quando incombe un’urgenza. In dotazione alla Polizia di Stato ci sono attualmente due Lamborghini Huracan e una Urus Performante, entrata in servizio dal 2024 e dotata di un frigo portatile per il trasporto degli organi supportato da display e datalogger per monitorare costantemente la temperatura interna. Il suv (con 666 CV, una velocità massima di 306 km/h e in grado di andare da 0 a 100 in 3.3 secondi) è il sesto esemplare Lamborghini a entrare nel garage della Polizia stradale grazie alla collaborazione con la casa di Sant’Agata Bolognese che dura da oltre venti anni. La prima vettura, una Gallardo, fu consegnata dall’azienda automobilistica nel 2004, poi sostituita nel 2015 con le Huracan ancora in servizio a Roma e Bologna. In due decenni la Polizia ha effettuato con i bolidi Lamborghini 242 trasporti di organi e oltre 380 servizi operativi su strade e autostrade.

In questo video due agenti della Polizia stradale di Roma, incaricati del trasporto di organi, raccontano come avviene il traferimento e le emozioni che si provano durante il viaggio.

 

 

Paure e reticenze, gli ostacoli della donazione

Tutto questo non sarebbe possibile senza i donatori, che però non soddisfano ancora l’alta domanda di trapianti. Un dato interessante che il SIT ha rilevato riguarda il numero di coloro che si oppongono alla donazione, che rispetto allo scorso anno sono rimasti invariati. Il tasso di rifiuto nelle rianimazioni è del 30,5%, mentre le opposizioni tra chi si è espresso in fase di rinnovo della carta d’identità elettronica sono il 31,5%. Ciò dimostra che l’aumento dei donatori registrato nel 2023, di cui si è parlato all’inizio, si deve a un maggiore consenso tra chi non si era ancora espresso e non a un ripensamento di chi si è opposto, che invece rimane uno zoccolo duro della popolazione. Vale la pena di approfondire, a questo punto, da cosa dipendano la mancata dichiarazione delle volontà e la resistenza alla donazione.

Va innanzitutto segnalato che la donazione di organi dipende da un sistema di prestazione del consenso che è regolato in modo diverso nei vari Stati. Esistono, in particolare, due modalità di intenderlo: il consenso esplicito e il silenzio assenso. Il primo, adottato in paesi come l’Olanda, la Germania e l’Irlanda, presuppone che una persona sia considerata donatrice solo se dichiara espressamente la sua disponibilità a diventarlo. Nel secondo caso, invece, tutti i cittadini sono considerati donatori a meno che non esplicitino il loro rifiuto. Il silenzio assenso vale ad esempio in Portogallo, Spagna, Belgio, Austria, Svezia e, almeno teoricamente, anche in Italia, secondo la legge 91 del 1999. Nei fatti, tuttavia, l’Italia adotta un sistema suo: per diventare donatore post mortem serve il consenso esplicito dell’interessato oppure, in assenza di un dichiarato dissenso, è necessaria l’autorizzazione dei familiari. 

I primi problemi sorgono proprio nel momento della dichiarazione delle volontà, che spesso, semplicemente, non avviene, sia in positivo che in negativo. Il sito del Centro Nazionale Trapianti riporta che hanno espresso il loro consenso o dissenso, nel 2022, poco più della metà dei cittadini che hanno rinnovato la carta d’identità all’anagrafe (il 55,5% per la precisione). C’è dunque una grande fetta della popolazione, il 44,5%, che formalmente non si è pronunciata in merito ma nella quale figura anche un’importante quantità di persone a favore della donazione. Lo potremmo chiamare un “consenso sommerso”. E questo, in effetti, è confermato da quanto emerge in un’indagine autonoma che abbiamo svolto attraverso un Google Form. Alle nostre domande hanno risposto 231 persone. Il 92,2% del campione si dichiara favorevole alla donazione di organi ma il 48,8% di chi si dice disponibile non ha formalmente espresso la sua volontà positiva. 

Al problema del consenso sommerso si aggiunge poi, come si è detto, quello del rifiuto alla donazione. Stando ai dati del Sistema Informativo Trapianti, al 29 gennaio 2024 il 31,5% delle volontà depositate presso i comuni sono opposizioni, mentre nelle Asl la percentuale si abbassa al 12,3% . Il dissenso rimane alto soprattutto nelle regioni meridionali, dove in alcuni casi oscilla attorno al 40%, e nelle due fasce di età estreme, quella tra i 18 e 30 anni e quella over 60.

A indagare quali siano le principali resistenze alla donazione è stata la professoressa Sabrina Cipolletta, ricercatrice in psicologia all’università di Padova e coordinatrice del gruppo di lavoro da cui è nato lo studio “Life beyond life: perceptions of post-mortem organ donation and consent to donate – a focus group study in Italy”. L’indagine, promossa dal Centro Nazionale Trapianti in collaborazione con l’università di Padova, è stata condotta con lo scopo di misurare come la percezione, le credenze culturali e il livello di conoscenza possano influire sulla donazione di organi.

Ne è emerso che esistono diversi motivi di resistenza alla donazione. «Uno riguarda quello che abbiamo chiamato “l’enigma della morte” – spiega la professoressa Cipolletta – e consiste nel timore che il donatore possa non essere veramente morto al momento dell’espianto o che il decesso venga dichiarato in funzione della donazione. Questa credenza dipende da una sfiducia nel sistema sanitario e da una scarsa conoscenza delle procedure mediche». Un altro dilemma riguarda invece la volontà di mantenere integro il corpo, legata spesso a credenze religiose o spirituali secondo le quali ci sarebbe una vita dopo la morte. La religione, però, può agire anche come facilitatore alla donazione, «Secondo i principi cattolici ad esempio – nota Cipolletta – il dono è un atto di bene». 

Altri dissuasori, infine, sono la difficoltà di comunicazione e la poca preparazione sia dei cittadini che del personale preposto alla registrazione delle volontà. Molti, infatti, hanno sostenuto che essere interrogati sul consenso al momento del rinnovo della carta d’identità possa lasciare “spiazzati”. Le persone non si aspettano questa domanda, non si sentono adeguatamente informate o a loro agio e questo, unito al poco tempo per riflettere, le spinge a dire di no o a evitare di rispondere. Lo conferma anche la nostra indagine tramite Google Form. Interrogati sul perché non abbiano espresso la loro volontà pur essendo favorevoli alla donazione, due intervistati hanno risposto:

Nel momento in cui ho fatto la carta d’identità elettronica mi è stato chiesto, ma ero giovane e non sapevo che cosa rispondere

Quando me lo hanno chiesto in comune, non ho saputo cosa rispondere, ero anche più piccol* e non sapevo nulla a riguardo, ora acconsentirei

La difficoltà di questi scambi emerge nella ricerca di Cipolletta anche da parte del personale preposto alla raccolta delle volontà. «Gli operatori dell’anagrafe – nota la ricercatrice – hanno portato alla nostra attenzione proprio la difficoltà del loro ruolo e il senso di impreparazione, perché spesso trovano persone che fanno loro domande a cui non sanno rispondere». Lo segnalano anche gli operatori sanitari, che non sempre trovano facile chiedere il consenso alla donazione degli organi ai familiari di una persona da poco deceduta (qualora non si sia espressa in vita). 

La soluzione più ovvia alla maggior parte di queste resistenze sembra stare comunque nella necessità di una maggiore istruzione e sensibilizzazione sul tema. Una formazione scientificamente fondata che, secondo gli studi della professoressa Cipolletta, potrebbe essere affidata «al medico di medicina generale, che rappresenta un punto di riferimento per la persona e che quindi potrebbe anche essere la figura più idonea a raccogliere le volontà dei pazienti».

 

Passato, presente e futuro dei trapianti

A conclusione di questo lavoro vale la pena approfondire uno degli argomenti chiave iniziali per poter parlare anche delle innovazioni del settore e del futuro della donazione. Un futuro che si realizzerà grazie ai progressi della medicina, che va avanti dal terzo secolo dopo Cristo quando, secondo la mitologia, due santi e medici romani, Cosma e Damiano restituirono una gamba a un loro sacrestano prendendo quella di un uomo deceduto poco prima.
Prosegue spedita dai primi anni del Novecento, quando il medico Alexis Carrel trovò la tecnica giusta per congiungere due vasi sanguigni che gli valse il premio Nobel nel 1912, fino ai grandi traguardi raggiunti dalla metà del secolo in avanti. Il primo trapianto di organo della storia moderna risale al 1954 e, da quel momento in poi, sono state salvate innumerevoli vite. Ma non finisce qui.
Si è detto, infatti, che il 2023 è stato un anno record per il numero di trapianti effettuati. Ciò si deve a una maggiore disponibilità di organi che, secondo il SIT, è dipesa anche dall’aumento delle cosiddette “donazioni a cuore fermo” o “non battente”.

 

TRAPIANTO DI CUORE A CUORE FERMO

Per spiegare meglio di cosa si tratta è bene ricordare che il decesso si accerta in due modi: con criteri neurologici o con criteri cardiaci. Nell’ultimo caso, come si è detto, la dichiarazione di morte dipende da un elettrocardiogramma che deve restare piatto per almeno 20 minuti. «In questo lasso di tempo – spiega il professor De Carlis – se il cuore resta fermo, gli organi non vengono perfusi di sangue e il rischio è che nei 20 minuti di misurazione muoiano anche loro. Una volta trascorso questo intervallo e accertata la morte, quindi, utilizziamo una macchina di circolazione extra corporea per riperfondere il cadavere. In questo modo possiamo valutare se gli organi hanno avuto danni irreversibili o se possono ancora funzionare ed essere quindi donati». 

Il problema della mancata perfusione degli organi non si pone invece nelle morti accertate con criteri neurologici. In quei casi, infatti, il cuore continua a battere grazie alla ventilazione meccanica del paziente anche durante le 6 ore minime, necessarie per l’accertamento della morte. Gli organi sono irrorati fino all’ultimo e non rischiano danni durante il no-touch period. Ecco perché gran parte delle donazioni in Italia è ancora legata ai decessi di questo tipo.
Nei casi di morte accertata con criteri cardiologici, invece, i 20 minuti di osservazione possono compromettere la salute degli organi. Per questo la procedura si complica, come spiegato dal professor De Carlis, e il prelievo è più macchinoso.

Si tratta di un problema tutto italiano perché nessun altro paese ha tempi di accertamento così lunghi. Francia e Spagna, ad esempio, hanno un no-touch period di 5 minuti, durante i quali il rischio di danneggiamento degli organi è minimo.
Nonostante le difficoltà, la donazione a cuore fermo in Italia è stata praticata sempre di più nel corso degli anni e ha permesso un numero crescente di trapianti, che è passato dai 100 del 2018 ai 438 del 2023.

Una delle recenti frontiere aperte in questo campo riguarda la possibilità di trapiantare da un donatore a cuore fermo anche il cuore stesso. Fino a poco tempo fa, infatti, la procedura permetteva di prelevare soprattutto reni, fegato e polmoni, mentre non era mai stata effettuata per il cuore. «Si tratta di un organo estremamente vulnerabile – afferma la dottoressa Masturzo – per questo si pensava che dopo i 20 minuti di elettrocardiogramma piatto previsti dalla legge italiana il cuore fosse perso». Le nuove tecniche di riperfusione, invece, hanno permesso al professor Gino Gerosa e alla sua equipe dell’Ospedale di Padova di realizzare, nel maggio 2023, il primo trapianto di cuore da donatore a cuore fermo in Italia. L’intervento ha così aperto la possibilità di aumentare il numero di cuori disponibili per le donazioni.

CUORE ARTIFICIALE

Allo studio del professor Gino Gerosa c’è anche l’ipotesi di realizzare, nei prossimi anni, un cuore artificiale. In questo campo sono già stati fatti alcuni progressi, come spiega il professor De Carlis: «I primi erano delle grosse apparecchiature che, con dei tubi collegati al paziente, formavano una circolazione extra corporea. Era una soluzione molto scomoda, ma pian piano la tecnologia ha permesso di creare macchine sempre più piccole, trasportabili come valigette. Poi sono arrivati i cuori artificiali impiantabili, delle pompe miniaturizzate, ma si tratta di una procedura non definitiva, che viene adottata in attesa del trapianto. E anche nell’ipotesi di creare dispositivi più moderni ci sarebbero problemi legati, ad esempio, all’alimentazione energetica della macchina». 

CELLULE STAMINALI E STAMPA 3D

Un ambito di lavoro che invece potrebbe essere più fertile, secondo il professor De Carlis, è quello delle cellule staminali, ovvero cellule indifferenziate, in grado di trasformarsi in cellule di diversi tessuti o organi. «Abbiamo già la tecnologia per ricavare, a partire dalle staminali, delle cellule epatiche, renali o cardiache, ma poi queste devono essere messe insieme in modo tale da formare un organo che funzioni». È a questo punto che subentra la stampante 3d, che serve a creare la struttura dell’organo, l’impalcatura sulla quale le cellule staminali differenziate si possono impiantare. «Ci sono già delle esperienze di questo genere. Sarà un po’ il futuro ma non siamo ancora a livelli avanzati», commenta il professor De Carlis.

Quelli che si sono toccati fino a qui non sono che gli snodi principali di un tema, quello della donazione degli organi, che apre a molte possibilità di racconto. Crediamo, però, che quanto detto basti per capire la straordinarietà di questo gesto, nel quale vita e morte si accarezzano, si lasciano vicendevolmente spazio, e in una rinascita trovano pace. «So che mio marito vive in qualcuno» dice Doriana, e lo pensano, come lei, tante altre famiglie, che in mezzo al dolore della perdita hanno trovato sollievo nel dono. E c’è, infine, la rinascita di chi riceve, che è lì a dimostrare, più di ogni altra cosa, come la vita non sia solo un luogo da abbandonare ma un regalo che si può lasciare a qualcuno.