UN ANGELO PER CAPELLO

 

 

 

C’è chi usa una matita per nascondere la stempiatura,
chi rinuncia a fare il bagno e a indossare il casco.
La calvizie però non è invincibile: negli ultimi dieci anni
gli autotrapianti di capelli sono aumentati del 231 per cento.
Ma attenzione alle truffe

di Alessio Di Sauro e Samuele Finetti

«Io non mi considero calvo, sono solo un po’ più alto dei miei capelli». Lo scrittore e umorista britannico Tom Sharpe amava scherzare sulla sua generosa calvizie, e sull’ancor più generoso riporto con cui tentava di dissimularla. Potere dell’autoironia. Non tutti gli uomini però reagiscono al responso dello specchio con la stessa serenità. Anzi.

Sono molte le persone che la mattina, al risveglio, guardano con orrore il proprio cuscino. Sono le stesse che, ad ogni shampoo, vedono accumularsi sul piatto della doccia non solo dei semplici capelli, ma una parte fondamentale della propria persona. Quella che in alcuni casi dà forma stessa alla loro personalità. E ne soffrono. In silenzio, il più delle volte. Perché parlarne con qualcuno mette imbarazzo. Significa in primo luogo ammettere di avere perso una guerra, quella con l’alopecia, che hanno combattuto per anni e che in ogni battaglia ha drenato energie, pensieri e, quasi sempre, soldi. Tantissimi soldi. Ogni seduta dal barbiere diventa una ferita. È allora che provano a correre ai ripari, a volte con soluzioni artigianali tra le più disparate (e disperate): pettinature funamboliche, polverine trico-cosmetiche. Fino ai parrucchini e agli autotrapianti, in drastico aumento negli ultimi tempi. All’occorrenza viene buono anche l’eyeliner della fidanzata o della moglie, per tingere alla bell’e meglio il cuoio capelluto. Possono avere vent’anni come sessanta, essere studenti universitari o professionisti affermati: il malessere che avvelena la loro serenità è identico. Subdolo. Si annida in quei gesti quotidiani che, a volte inconsapevolmente, si sono iniziati a evitare con il passare del tempo. Indossare un casco. Fare un bagno al mare. Mostrarsi in intimità. In una parola: vivere.

«L’unica cosa che può arrestare la caduta dei capelli è il pavimento. Se si è geneticamente predisposti, non ci sono fiale, lozioni o integratore che tengano». Il dottor Piero Rosati è un chirurgo tricologo, tra i più apprezzati in Italia. Ha rinfoltito la chioma, tra gli altri, all’ex premier Silvio Berlusconi e all’allenatore Antonio Conte, e lascia poche illusioni ai cultori del fai-da-te. La via per recuperare i capelli perduti esiste, ma non prevede scorciatoie. «L’unica soluzione è l’autotrapianto!», chiosa. Una consapevolezza che negli scarsocriniti di tutto il mondo ha attecchito sempre di più: sono più di 700mila i pazienti che ogni anno decidono di ricorrere al bisturi. Numeri che si sono impennati nell’ultimo decennio, grazie anche ai progressi della medicina: i dati registrano un incremento del 192 per cento nel mondo e del 231 per cento in Europa, con un picco dell’812 per cento in Africa e Medio Oriente.

Autotrapianti di capelli nel mondo (2019)

Pubblicità, occhio al fake

Il numero degli interventi effettuato cresce, dunque. Ma è comunque lontano da quello pubblicizzati su molti siti internet, che a volte non aiutano i pazienti ad orientarsi al meglio nell’universo della tricologia. L’Istituto Helvetico Sanders, una delle più note realtà del settore, (condannato nel 2009 dall’Agcm per pubblicità ingannevole, con sentenza definitiva del Consiglio di Stato del 2017), sostiene nelle sue pagine web che «in Italia circa 100mila persone hanno scelto di fare un trapianto di capelli nel 2019». Una cifra vertiginosa: in pratica significherebbe che, solo in quell’anno, circa un italiano maschio su 300 si sarebbe sottoposto all’intervento, includendo bambini e anziani. Secondo il dottor Vincenzo Gambino, referente italiano ed ex presidente dell’International society of hair restoration surgery, (Ishrs) il numero reale di trapianti, in Italia, sarebbe assai inferiore: tra i cinquemila e gli ottomila. Contattato da La Sestina, l’Istituto ha cercato di documentare le sue stime allegando un report dello stesso Ishrs e uno dell’International society of aesthetic and plastic surgery (Isaps). Né l’uno né l’altro sembrerebbero confermare i numeri di Sanders: nel primo non vi è menzione del numero di interventi eseguiti su scala nazionale, mentre il secondo si limita a segnalare circa 100mila interventi al mondo di “hair removal” (sic): ovvero di epilazione laser.

«Ho trent’anni e da nove mi tingo la testa con la matita»

Federico (nome di fantasia) ha trent’anni, vive a Siena e fa l’impiegato. Ha cominciato a perdere i capelli che ne aveva ventuno. Quando esce di casa porta sempre con sé uno specchietto e una matita scura per gli occhi. Non vuole rivelare il suo vero nome, perché ha un segreto da custodire. Nessuno, nemmeno tra i suoi amici più stretti, sa che la sua capigliatura è il frutto di un articolato make up. «Tutti i giorni mi tingo la testa con la matita. In questo modo, oltre a colorare la cute e a mascherare la calvizie, finisco per “sporcare” con la grafite i restanti capelli, in modo da ispessirli, così che sembrano essere molto più folti. Sembra ridicolo, e probabilmente lo è. Ma funziona». Federico, in pratica, è un falso calvo. Non riesce a scendere a patti con la sua stempiatura, e probabilmente non lo farà mai: «Da ragazzino portavo i capelli molto lunghi. Per me rappresentavano una forte componente identitaria», aggiunge, «per via della lunghezza non mi resi immediatamente conto del diradamento. Senonché un giorno decisi di tagliarli, e i nodi vennero al pettine, letteralmente. Percepii tutto all’improvviso. Fu uno shock». Da allora è iniziato un percorso di visite, terapie, trattamenti. Invano. «Per anni ho assunto un farmaco (la Finasteride, ndr) che inizialmente ha arrestato il problema. Oltre alle spese elevate (una confezione da 84 compresse costa 150 euro), a un certo punto ho riscontrato degli effetti collaterali, tra cui un calo della libido sessuale. Allora ho dovuto interrompere la cura». Federico ha quindi virato sul “trucco e parrucco”: «Un giorno, vedendo la mia ragazza truccarsi, ho avuto l’idea. Nessuno se ne è mai accorto, anche perché inizialmente la mia era una calvizie limitata. La mattina impiego circa un quarto d’ora per completare l’operazione, e porto sempre con me specchietto e matita in caso di imprevisti». Una storia che potrebbe sembrare grottesca, se non fosse per il disagio psicologico che porta con sé.
«Non so quanto potrò andare avanti con questo espediente, ma nel frattempo mi aiuta a stare meglio con me stesso. Molte volte si ride di chi ammette di avere un parrucchino, o si riempie di scherno chi è sospettato di usare stratagemmi per combattere la calvizie. La società spesso ti fa sentire in imbarazzo al solo pensiero di parlare con qualcuno di questo problema. Pensate a un ragazzo di vent’anni che a un tratto vede il suo volto che cambia. Io semplicemente non riuscivo ad accettarlo».

La scala di Norwood-Hamilton classifica le sette fasi della perdita dei capelli. Si va dal grado I (leggera stempiatura) al grado VII (calvizie estesa)

«Perdere i capelli? È come un lutto»

Quello di Federico non è un caso isolato. «Per alcuni la caduta dei capelli rappresenta una perdita emotiva equiparabile a quella che si prova in occasione di un lutto o di una separazione», sostiene la dottoressa Cristiana Zippi, psicologa e psicoterapeuta. «I capelli hanno da sempre un grande valore identitario: danno fisionomia al volto, connotano i nostri tratti fin dall’infanzia. La calvizie non è un mero inestetismo: oltre all’immagine, modifica la percezione di se stessi. A volte possono verificarsi veri e propri casi di dismorfofobia: un diradamento anche lieve può essere ingigantito all’occhio esasperato del paziente, con le conseguenze psicologiche del caso. Un po’ come avviene per l’anoressia». Nel caso della calvizie, soprattutto in età giovanile, le conseguenze possono includere depressione e attacchi di panico. Spesso ne derivano anche difficoltà in ambito lavorativo. Massimiliano Malerba, recruiter e consulente del lavoro, sottolinea le difficoltà di chi fatica a convivere con la propria immagine: «In nessun colloquio di assunzione sarà mai valutato l’aspetto meramente estetico di un candidato a scapito del suo curriculum», afferma Malerba, «ma spesso accade che persone convinte di essere esteticamente poco attraenti sviluppino comportamenti remissivi dovuti alla scarsa autostima, che riverberano i loro effetti anche nel contesto professionale». Nei casi più estremi si può arrivare al completo isolamento sociale: «Basti pensare a quanto spesso cambiamo acconciatura per assecondare un determinato umore», continua Zippi, «ad esempio attribuendo valore simbolico a un drastico taglio di capelli dopo la fine di una relazione. La calvizie determina un vincolo di scelta che può fare molto male: quasi una rinuncia a essere se stessi». È allora che correre ai ripari diventa una necessità. Perché la calvizie non è invincibile.

«Salve, sono Cesare Ragazzi!»

In principio fu Cesare Ragazzi. Il “calvo che si mise in testa un’idea meravigliosa”, come recitava lo spot che negli anni Ottanta lo rese uno dei volti più riconoscibili del piccolo schermo. E che volto: baffi fluenti sormontati da una vera e propria criniera, non esattamente farina del suo sacco. O forse sì, a seconda dei punti di vista. L’idea di Ragazzi, oltre che “meravigliosa”, era semplice: costruire e vendere protesi tricologiche su larga scala, non prima di averle sperimentate su se stesso. «Ma guai a chiamarli parrucchini!», tuona Ragazzi, 80 anni e non sentirli, accento bolognese che negli anni ruggenti della tv veniva ingentilito dal doppiaggio. «La mia era un’invenzione rivoluzionaria, depositai sei brevetti. Prendevamo il calco della testa del paziente, quindi provvedevamo a inserire manualmente i capelli nella sommità della protesi, come avviene negli autotrapianti. Capelli veri. Infine fissavamo il tutto al cuoio capelluto con del collante in poliuretano. Un risultato straordinario». Un pioniere, a modo suo. Da una cantina di Zola Predosa all’Italia intera il passo fu breve. Merito del boom delle televisioni private degli anni Ottanta: il suo «Salve, sono Cesare Ragazzi» in favore di telecamera divenne un intercalare nel gergo quotidiano. «In effetti ero più famoso del Papa», si schernisce, «la tv mi ha dato notorietà, ma io offrivo anche un prodotto valido. Date a Cesare quel che è di Cesare». Personaggi famosi, gente comune: Ragazzi ha fatto i capelli a chiunque e le scarpe a più d’uno. «Vendevamo più di 16mila impianti all’anno, aprimmo 28 punti vendita. Gli altri centri specializzati non potevano competere, in breve dovettero chiudere».

A seconda del grado di foltezza richiesto e della calvizie pregressa, una protesi poteva arrivare a costare anche venti milioni delle vecchie lire, una cifra astronomica per l’epoca: «Presi…per i capelli!», denunciavano a Mi manda Rai3 alcuni clienti che si ritrovarono per le mani l’ingiunzione di pagamento, «non avevamo capito quello per cui avevamo firmato». Ma Cesare non ci sta: «I contratti erano scritti chiari e tondi, la gente sapeva cosa firmava, inutile lamentarsi dopo. E poi vuoi mettere, con me potevano tranquillamente andare a sciare, mettersi il casco, passarsi le mani tra i capelli, addirittura fare il bagno. Per questo mi feci affiancare da una sirena nello spot: volevo mettere a tacere le malelingue e dimostrare a tutti che con i miei capelli si poteva persino nuotare, cosa impensabile per le tecnologie posticce del tempo». A sentir lui, avere dei bei capelli era un gioco: «Da Ragazzi!», sogghigna da sotto il baffone. Una condanna a due anni e otto mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta patteggiata nel 2017 non ne ha intaccato dinamismo ed estro creativo: «Continuo a fare ricerca, a imparare dai miei errori. E sì, sono ancora il re dei capelli. Anzi, l’imperatore». Da anni però il suo trono è insidiato da pericolosi pretendenti: i chirurghi tricologi. Che offrono un’altra arma nella lotta contro la calvizie: l’autotrapianto di capelli.

«Ho fatto il trapianto, è stato come rinascere»

Giordano ha 58 anni e gestisce una nota agenzia immobiliare a Monza. Sfoggia con orgoglio la sua nuova chioma, frutto di due interventi chirurgici. Spesso è ospite in qualità di opinionista in alcuni canali televisivi locali: non si può dire, dunque, che sia reticente a mostrarsi in pubblico. Non più, almeno. Giordano ha convissuto per anni con un cruccio. La perdita dei capelli anteriori, la fronte che si innalzava sempre di più. «I primi diradamenti sono iniziati a diciotto anni, poi il problema è peggiorato. Mio fratello è felicemente calvo, io invece ne ho fatto una questione personale». Visite dermatologiche, terapie laser. Persino un trapianto di capelli artificiali, nel 1985, che gli ha lasciato in eredità una vistosa cicatrice. Nel 2007 ha giocato l’ultima carta: l’autotrapianto di capelli. E ha vinto la scommessa. «In famiglia erano scettici», racconta, «credevano fosse l’ennesimo tentativo destinato a fallire. Il chirurgo che mi ha operato, il dottor Vincenzo Gambino, non mi promise nulla: la mia zona donatrice di capelli, mi disse, poteva essere inaridita da anni di trattamenti sbagliati. Invece ce l’ha fatta. E io con lui. Dopo novanta giorni dall’intervento sono spuntati i primi capelli. È stato come rinascere».

I casi celebri

Giordano, dunque, ma non solo. Dal magnate Elon Musk al calciatore Wayne Rooney, passando per il fu inquilino della Casa Bianca Donald Trump, sono in molti ad essere passati sotto i ferri per infoltire la criniera. Di Silvio Berlusconi, negli ultimi tempi, è stata constatata una certa mutevolezza della chioma, più o meno folta a seconda delle circostanze: sul web alcuni ipotizzano che il risultato dell’intervento sia “rinforzato” grazie a sedute di cosmesi e all’applicazione di fibre di cheratina che, legandosi elettrostaticamente ai capelli diradati, sono in grado di nascondere in pochi istanti le zone lucide del cuoio capelluto. Ma non secondo Rosati: «Il problema di Berlusconi è che si pettina all’indietro. Se lasciasse i capelli liberi otterrebbe un effetto migliore a mio avviso. Operarlo è stata una enorme soddisfazione professionale, ma non è l’unico capo di governo o di Stato che si è rivolto a me». In questo casi i nomi, però, sono rigorosamente top secret, a differenza dell’ex ct della Nazionale Antonio Conte: «Con lui fu più facile, era un paziente molto più giovane», ricorda Rosati, «gli rimaneva inoltre quel ciuffettino che quando giocava ricordano tutti i tifosi, juventini e non».

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La percentuale di follicoli da trapiantare sufficiente per ottenere un buon risultato

Lunga vita ai capelli posteriori

«Sulla testa di ogni uomo», spiega il dottor Gambino, «ci sono circa 100mila capelli. Questi si distinguono in due categorie: quelli laterali e posteriori, permanenti, e quelli superiori e della regione anteriore, che invece possono cadere». I primi sono i nostri principali alleati: mancano infatti dei recettori del diidrotestosterone, il metabolita responsabile della calvizie maschile. Nelle persone geneticamente predisposte (il lato materno è quello dominante) questo interferisce con il bulbo pilifero del capello, atrofizzandolo. «Ora, se si prende un capello permanente e lo si trasferisce altrove, questo non cadrà proprio perché insensibile agli ormoni», rassicura Gambino. È il principio della cosiddetta donor dominance, teorizzata per la prima volta negli anni Cinquanta dal dermatologo statunitense Norman Orentreich: i capelli mantengono le caratteristiche proprie dell’area da cui provengono, piuttosto di quella in cui vengono trapiantati. Proprio per il fatto che i bulbi che vengono trapiantati provengono dallo stesso paziente, l’operazione è chiamata “autotrapianto”. È possibile intervenire anche su calvizie molto estese: «Per ottenere buoni risultati», aggiunge il dottor Rosati, «è sufficiente trapiantare nelle zone glabre il 30-35 per cento dei capelli che sono caduti».

«L’intervento? È solo l’ultimo passo»

I progressi della chirurgia non implicano che chiunque si possa sottoporre all’intervento in qualsiasi momento. Anzi. Le porte della sala operatoria si aprono solo alla fine di un iter in cui è fondamentale la valutazione medica. Anzitutto, vengono valutate le cause del problema: «La calvizie», spiega Piero Tesauro, presidente della Società italiana di tricologia, «è spesso causata dall’alopecia androgenetica, la principale causa della perdita dei capelli. Ma non solo: questa può essere dovuta anche allo stress o tutt’altri fattori come diabete o patologie autoimmunitarie». L’autotrapianto è solo l’ultimo passo. Prima vengono le cure con farmaci (in primis la Finasteride, che inibisce l’azione del diidrotestosterone) e integratori per impedire alla calvizie di progredire. Solo allora si potrà operare. In pratica, bisogna “recintare” l’area nella quale si andrà a intervenire chirurgicamente. «Le cure pre-trapianto sono necessarie per supportare l’operazione. Molte persone guardano con disillusione alle terapie farmacologiche, ma è bene ricordare che il loro scopo non è quello di far ricrescere i capelli perduti, bensì di impedire agli altri di cadere. Servono per stabilizzare la situazione». Umberto, suo paziente, è stato in cura per tre anni prima che gli fosse concesso il via libera per l’intervento. «Ma non sempre si tratta di farmaci», precisa Tesauro, «immaginate un giovane che dai venticinque ai trentadue anni ha fatto sistematicamente le ore piccole: in quel caso può bastare una book therapy e un po’ di digital detox per ottenere dei risultati validi. Per curarsi bene, in ogni ambito, occorre molta energia: non si possono scegliere à la carte solo le soluzioni in grado di offrire un elevato valore aggiunto, senza sforzarsi di seguire l’intero pacchetto di cura. Questo non vale solo per i capelli: esiste gente che diventa cieca perché ha curato molto male una patologia grave come il diabete. Io per scelta non accetto pazienti di età inferiore a 28 anni».

Quando a un mio paziente dicono: «Che bel trapianto!» per me è una sconfitta. Al massimo si deve commentare: «Ti trovo meglio»

Dott. Vincenzo Gambino

«L’autotrapianto migliore? Quello che passa inosservato»

C’è poi il problema delle aspettative. Quelle di alcuni pazienti sono irrealistiche e costringono il chirurgo a opporre un diniego rispetto alla richiesta di donar loro attaccature fin troppo giovanili. Per questo il compito di chi opera, sottolinea il professor Vincenzo Gambino, referente italiano ed ex presidente dell’Ishrs, «è quello di far capire al paziente ciò che davvero si può ottenere grazie al trapianto, e tenere presente che il risultato non conta solo nell’immediato, ma anche per i decenni successivi». Secondo Gambino il trapianto migliore non è quello più bello, ma quello che passa maggiormente inosservato: «Una delle mie più grandi soddisfazioni professionali risale a quando un giovane paziente venne in visita da me. Gli chiesi se in famiglia avessero o meno i capelli. Rispose che il padre e il nonno erano calvi, mentre il fratello non aveva mai lamentato problemi di sorta. Ebbene, il fratello lo avevo operato io, ma lui non se ne è mai accorto».
I paletti però non sono solo estetici. La zona da cui si possono prelevare i bulbi, la cosiddetta safe donor area, è limitata ed esiste un’alta probabilità che i capelli, se estratti all’esterno di questa zona, una volta trapiantati finiscano per cadere. Nel dubbio è necessario adottare un approccio conservativo, soprattutto nel caso di pazienti giovani. Anche perché i capelli trapiantati sono permanenti, ma i rimanenti saranno soggetti alla naturale progressione della calvizie. Per questo bisogna continuare a seguire le terapie di supporto e, eventualmente, sottoporsi a un ulteriore intervento.

Due tecniche, un unico risultato

I primi, sperimentali trapianti di capelli umani di cui si ha notizia risalgono agli anni Venti dell’Ottocento, tuttavia è solo dopo la seconda guerra mondiale che questi hanno assunto la forma attuale. La tecnica più antica è la Fut, Follicolar unit transplatation. Dopo avere dominato il panorama chirurgico per anni, a partire dal 2002 la tecnica Fut è stata però insidiata dalla Fue, Follicolar unit excision, solo teoricamente più semplice da eseguire. «La relativa semplicità di esecuzione della Fue – sottolinea il dottor Tesauro – ha determinato una proliferazione degli attori in scena, non sempre sufficientemente qualificati. Si è iniziato a ritenere che la Fue fosse più facile, quindi chiunque ha creduto di poterla eseguire, come se un autista di autobus si improvvisasse elettricista. Sono addirittura i pazienti stessi a richiederla espressamente, ritenendola meno invasiva». È stato persino necessario cambiarne il nome: inizialmente Fue era l’acronimo di Follicolar Unit Extraction, poi quest’ultima si è trasformata in Excision, per rendere più evidente il fatto che si trattava comunque di una soluzione chirurgica.

Follicolar Unit Transplantation

Non richiede la rasatura dei capelli. Una piccola striscia di cuoio capelluto viene prelevata. La striscia viene posta sotto microscopio, le unità follicolari vengono prelevate lasciando il grasso attorno al bulbo e poi impiantate sull’area glabra. Questa tecnica garantisce un attecchimento al 98%. Dopo l’operazione, sull’area occipitale resta una sottile cicatrice.

Follicolar Unit Excision

Con un cilindro rotante, del diametro di 8micron, viene eseguito un “carotaggio” della singola unità follicolare. La quantità di tessuto adiposo disponibile è inferiore, perciò la percentuale di attecchimento ne può risentire. Sulla testa restano tante microcicatrici quante sono le unità follicolari prelevate. Le crosticine cadono nel giro di 6-10 giorni.

Un paziente prima di essere operato dal dott. Vincenzo Gambino e, a destra, a 18 mesi dall’intervento di autotrapianto

«Se i vip sono calvi, che possibilità ho io di riavere i capelli?»

Un grande punto a favore della Fut è che non prevede la necessità di radere i capelli prima dell’intervento. E non è un aspetto secondario. Anzi. Perché, al contrario, si è sempre costretti a rivelare al mondo che ci si è sottoposti all’autotrapianto. C’è chi, come Umberto, 39enne di Pagani, nel Salernitano, non ha avuto alcun problema a farlo: «Per me il trapianto era l’unica soluzione, perciò l’ho presa con filosofia. Non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo, perché non ho fatto niente di male». La maggior parte dei pazienti, però, fa il possibile (e, a volte, l’impossibile), per nasconderlo. Come Marco, (nome di fantasia), 46 anni: è stato operato dal professor Tesauro nei primi giorni del novembre 2021, ma ha scelto di non raccontare a nessuno dell’intervento. Le uniche persone a cui lo ha rivelato sono la madre e due cari amici. Pur non escludendo che un giorno parlerà del proprio trapianto a tutti i conoscenti, per ora ha preferito tenerlo nascosto: «Prima voglio essere certo dei risultati: all’inizio ero diffidente, perché osservando molte celebrità calve mi sono detto: “Se non ci riescono loro, con i soldi e i mezzi di cui dispongono, vuol dire che è impossibile”. Poi ho deciso di tentare. A 46 anni non mi restava molto tempo per prendere questa decisione». La reticenza di Marco a parlare della sua scelta di operarsi rappresenta la norma, più che l’eccezione.
Lo psicologo e psicoterapeuta Alberto Migliore, autore di studi sulla cosiddetta “sindrome Post Finasteride”, racconta di come molti dei suoi pazienti maschi evidenzino criticità psicologiche ricollegabili anche al trapianto di capelli. «Ma solo dopo molte sedute di terapia riescono a vincere l’imbarazzo e a parlare della cosa, quasi la calvizie possa essere socialmente considerata una questione “futile”. Questo spiega anche la reticenza di molte persone ad ammettere di essersi sottoposte a un trapianto di capelli. Con altri tipi di interventi estetici è diverso: in molti tendono a giustificare una rinoplastica affermando di avere difficoltà respiratorie».

Dare moneta, avere capello

Il prezzo di un intervento di autotrapianto oscilla mediamente tra i sei e i diecimila euro a intervento, senza distinzione tra le due tecniche. «È il numero di follicoli prelevati che determina il costo», spiega il dottor Tesauro, «la mia tariffa è di quattro euro a follicolo per i primi duemila, e di due cadauno per i successivi». Per dare un’idea, un trapianto mediamente grande, da 2.700 unità follicolari, costerà in tutto 9.400 euro. «Ma spesso effettuiamo anche interventi pro bono totalmente gratuiti», aggiunge Tesauro, «collaborando con molti ospedali in casi di interventi ricostruttivi per cicatrici del cuoio capelluto, dovuti a traumi o radioterapie. Questo è avvenuto anche nel caso di Stefano Savi, uno dei ragazzi sfigurati da Alexander Boettcher e Martina Levato, la “coppia dell’acido”». Come altre branche della medicina – l’odontoiatria, ad esempio – la chirurgia del capello non ha mai attecchito in ambito pubblico: «La proliferazione del settore privato ha senz’altro incoraggiato lo sviluppo di soluzioni dall’elevato valore aggiunto», conclude Tesauro, «ma una maggiore regolamentazione da parte dello Stato sarebbe auspicabile. Non esiste un registro nazionale dei trapianti, le statistiche sono nebulose. Noi non ci limitiamo a eseguire trapianti di capelli, noi siamo responsabili della felicità delle persone che si rivolgono a noi. E forse il sistema sanitario nazionale non è del tutto in grado di gestire le implicazioni dell’infelicità causata da interventi male eseguiti: le conseguenze psicologiche per un’operazione che non va a buon fine possono essere gravissime».

Capelli, ma non solo

I costi elevati non sembrano scoraggiare i molti uomini che ogni anno vogliono risolvere le loro difficoltà con lo specchio: l’esplosione della chirurgia del capello segue di pari passo l’impennata degli interventi estetici maschili tout court: «Rispetto all’anno precedente, nel 2020 c’è stato un aumento del 25-30 per cento», evidenzia Pierfrancesco Cirillo, presidente dell’Aicpe, l’Associazione italiana chirurgia plastica estetica. «Il trapianto di capelli», prosegue, «è una voce importantissima per quanto riguarda il mondo maschile, anche se a livello mondiale non ha gli stessi numeri della blefaroplastica (l’eliminazione delle “borse” sotto agli occhi) o della rinoplastica (la ricostruzione del naso), ma sta appena dopo ed è una voce sempre in maggiore aumento».

Mamma li turchi

Numeri che generano un vero e proprio business, che vale globalmente 4,2 miliardi di euro all’anno. E, dove c’è business, c’è sempre il pericolo di uno sfruttamento quantomeno discutibile dal punto di vista scientifico. L’esempio più lampante è quello della Turchia. Centinaia, o più probabilmente migliaia – una stima in questo caso è impossibile – di italiani atterrano ogni anno a Istanbul per farsi operare, a cifre risibili rispetto a quelle nostrane, in cliniche rintracciate via web. Che ci siano dei bravi chirurghi anche laggiù è innegabile. «Ma i rischi sono elevati e non valgono quasi mai la differenza di prezzo. Spesso a maneggiare il bisturi non sono i medici, ma gli infermieri», tuona Rosati. «In alcuni casi a separare i capelli non sono neanche operatori delle professioni sanitarie: può capitare che il compito sia delegato a un tassista che vuole arrotondare lo stipendio». L’incognita maggiore riguarda il decorso post-operatorio: «Nel caso dell’autotrapianto di capelli, le complicazioni possono sorgere a distanza di settimane o addirittura mesi», rincara Tesauro «a quel punto, cercare di rimediare o di ottenere risarcimenti è assai complicato: per cominciare, occorrerebbe rivolgersi a un avvocato turco». Così chi ha scommesso sulla clinica sbagliata – e non sono pochi – è costretto a rivolgersi a chirurghi italiani. Chi sceglie la Turchia non è da biasimare. Uno dei vantaggi garantiti è la possibilità di avere tutto subito. Ma, a chi non ha la pazienza per aspettare i risultati, Giordano, felicemente operatosi in Italia, suggerisce un’unica soluzione: il parrucchino.