Una realtà non basta più

Tra digital resurrection, telepresenze e ologrammi in sala operatoria.
Quando il mondo virtuale invade quello materiale

di Federico Baccini e Marco Bottiglieri

Siete chiusi in casa da settimane. La pandemia di coronavirus ha paralizzato l’Italia e per lavorare, studiare o tenervi in contatto con amici e parenti dovete tenere gli occhi incollati su uno schermo. Lo chiamano telelavoro, videochiamata, smart-working. In realtà è stress per gli occhi, sovraccarico per il cervello, mal di testa prima di addormentarsi. Non sarebbe tutto più semplice se poteste avere i vostri capi, le vostre professoresse di matematica, i vostri migliori amici proprio lì, rimpiccioliti sulla scrivania mentre vi parlano? Sembra Star Wars, ma il mondo degli ologrammi è ormai nella vita di tutti i giorni, dalle sale operatorie ai palchi dove cantanti defunti possono “risorgere” digitalmente: una realtà virtuale che integra, si mescola e amplifica ciò che vediamo con gli occhi. La porta d’ingresso di un mondo che supera ogni barriera fisica e ci proietta nel futuro. Proprio come in Star Wars.

Un disegno totale

 

Avete presente quando appoggiate il telefono sul cruscotto e il vetro del parabrezza proietta un riflesso tridimensionale dello schermo? Quello è un ologramma. E quella filigrana 3D stampata sugli euro che abbiamo in tasca? Anche quello è un ologramma. Per capire il fenomeno è utile partire dall’etimologia. “Olografia” deriva dal greco antico holos, “tutto”, e grafè, “scrittura”. Possiamo tradurlo con “immagine del tutto”. È il fenomeno ottico che ci permette di vedere la tridimensionalità di qualcosa che altrimenti sarebbe bidimensionale.  Una sorta di “disegno totale”. Un gioco di percezione creato ad hoc per dare l’illusione delle tre dimensioni.

Alla base di ogni ologramma c’è un’interferenza. Per creare artificialmente un’immagine olografica si proietta un fascio di luce laser sia verso l’oggetto da riprodurre, sia verso una lastra di materiale sensibile. Grazie a un gioco di specchi, la luce che arriva dalla sorgente interferisce con quella riflessa dall’oggetto. Sulla lastra si formano quindi delle linee, chiamate frange di interferenza: queste contengono l’informazione sulla tridimensionalità. Quando poi bisognerà proiettare l’immagine olografica, basterà illuminare la lastra con un altro fascio di luce laser. Ed ecco che avremo l’illusione della tridimensionalità.

Questo è il principio di base per le immagini statiche. L’invenzione dell’ologramma valse all’ungherese Dennis Gabor il premio Nobel per la fisica del 1971. Ma se oggi potessimo già trasmettere un ologramma di noi stessi, che si muove e parla in tempo reale? La nostra percezione della realtà non è mai stata così in mano alla tecnologia.

Ologrammi in tempo reale

 

«Non si può sparare una luce dal basso verso l’alto e avere una persona che parla live. Gli ologrammi oggi non si fanno come in Star Wars, servono dei set olografici o dei visori di realtà mista». Sabrina Baggioni, head of 5G and tribe lead products, services and platforms di Vodafone, spiega perché sia necessario spingere sull’investimento nella tecnologia 5G, «il massimo prima di poter arrivare ai livelli dei film». Quando si parla di 5G si intendono le tecnologie di ultima generazione (5th generation, quinta generazione), con i più alti standard di velocità e prestazione. «Abbiamo iniziato a investirci all’inizio del 2018. A giugno 2019 le città di Milano, Roma, Bologna, Napoli e Torino erano già coperte da una rete nazionale. Sarà il 2021 l’anno in cui potremo dire che il 5G è in tutto il Paese: due grossi operatori come Vodafone e Tim saranno attivi su più di 100 città e il numero di terminali con questa tecnologia sarà più significativo, grazie a  un costo più accessibile per un mercato di massa».

L’impatto del 5G sul mondo degli ologrammi è decisivo, soprattutto nello sviluppo della sua ultima frontiera: la telepresenza. «Per consentire l’interazione in tempo reale tra ologrammi e persone in carne e ossa, c’è bisogno di due prerogative imprescindibili del 5G: banda molto elevata e latenza bassissima», continua Baggioni. «Banda elevata significa far passare istantaneamente da un posto a un altro una mole di dati enorme per garantire la proiezione». Perché l’ologramma è una proiezione tridimensionale nitidissima, ma pur sempre una proiezione. «Latenza bassa significa invece quasi azzerare il tempo tra invio e ricezione del segnale, perché il flusso video sia il più sincronizzato possibile con il flusso audio. È così che nel 2019 abbiamo potuto portare Gianna Nannini sul palco di X-Factor a Milano mentre lei si esibiva a Berlino. Tutto grazie a un ologramma live, reso possibile dalla tecnologia 5G».

C’è poi anche un altro ambito di interesse per la tecnologia 5G: la mixed reality. Il termine è stato coniato da Microsoft quando nel 2016 ha presentato i visori Hololens: è in questo caso gli ologrammi sono oggetti virtuali tridimensionali, che rispondono direttamente ai movimenti dell’utente. «Far interagire realtà fisica e realtà virtuale aumenterà significativamente l’efficacia e le competenze del personale tecnico». Basti pensare a un qualsiasi intervento di manutenzione meccanica, idraulica o elettrica, per non parlare degli interventi chirurgici: «Con il supporto della realtà mista si possono seguire interattivamente tutte le fasi di un’operazione e attraverso gli occhiali visualizzare i modelli tridimensionali che devono essere applicati concretamente».

Materializzarsi sul palco

 

«Il mondo si sta rendendo conto della grande forza degli ologrammi». Federica Palma, executive director di Studio Tangram, intravede già come potrebbe essere il futuro della comunicazione: «Si parte dall’idea che il livello di partecipazione dipende dal senso di completezza nell’interazione. Perché non ci si accontenta di ascoltare la musica a casa, ma si va ai concerti? Il pregio degli ologrammi è quello di non isolare la persona nel mondo virtuale, ma farle percepire anche tutto ciò che fa parte della sua realtà».

Studio Tangram da più di dieci anni realizza ologrammi nel settore della comunicazione e di servizi per l’intrattenimento. L’elemento cardine è la realizzazione di teatri olografici: «Per la costruzione di una struttura che ospiti un ologramma a dimensioni reali c’è bisogno di almeno una decina di tecnici. Devono essere installati una sorgente d’immagine e un impianto audio», continua Palma. Una volta realizzato il teatro, si può procedere a mettere in scena l’ologramma live, cioè la telepresenza: «Nel nostro studio di registrazione viene configurato e lanciato un segnale, che ricevono i teatri olografici installati anche a migliaia di chilometri di distanza. Si riesce così a materializzare il soggetto: sul palco il pubblico vede “qualcuno” che in realtà non c’è». Con la telepresenza chiunque può esibirsi simultaneamente su molti palchi. Anche un politico: «Nel 2014 in India il premier Nerendra Modi ci ha contattati per sfruttare questo mezzo nella sua campagna elettorale. Ha potuto comparire in tempo reale su 154 palchi in tutto il Paese, raggiungendo anche zone di difficile accesso e rendendo la sua comunicazione politica altrettanto efficace». Gli esperti del settore sanno che sono due i fattori che contano davvero in un ologramma: le dimensioni e l’interazione. «Un conto è avere un ologramma piccolo, un altro averlo a dimensioni reali. Cambia completamente la percezione e la sua capacità comunicativa». Ma non basta, serve anche un rapporto diretto con l’ologramma: «Le persone in carne e ossa che gli stanno affianco sul palco hanno due punti di riferimento, uno di fronte e uno a terra. In questo modo si possono spostare e parlargli, come se se si trovasse realmente al loro fianco». 

Le città raggiunte dal premier indiano Nerendra Modi con una sola telepresenza nel 2014 (record mondiale)

Questo concetto vale anche per un altro tipo di spettacolo: la digital resurrection, la resurrezione digitale. Sembra uno scenario distopico come nella serie Black Mirror, quando la manager di una cantante caduta in coma può continuare a organizzare concerti live grazie a un ologramma della cantante stessa e alla registrazione della sua estensione vocale. Ma da qualche anno è già realtà. «La corsa all’ologramma si scatena di solito nell’anniversario della morte di celebrità del mondo dello spettacolo e arrivano richieste per spettacoli di grandi cantanti defunti», racconta Palma. «Per realizzare una digital resurrection bisogna fare un’analisi sul materiale esistente in formato video e poi si applicano tecniche grafiche di ricostruzione tridimensionale. Bisogna realizzare al meglio la verosimiglianza e la possibilità di far interagire persone reali sul palco». Freddie Mercury, Michael Jackson, David Bowie. Ma il primo di tutti è stato il rapper Tupac, “risorto” digitalmente nel 2012 al Coachella Festival, a 16 anni dalla sua morte: il teatro olografico in cui si è esibito è stato realizzato proprio con la tecnica dello Studio Tangram.

Tra bisturi e proiezioni 3D

 

«Immagina di avere un cuore battente sulla scrivania, un menù a tendina sul muro e un menù per la manipolazione del modello proprio lì, vicino alla porta». Così descrive l’ultima frontiera degli ologrammi Filippo Piatti, uno dei fondatori della start-up Artiness. Con due colleghi di dottorato al Politecnico di Milano, Omar Pappalardo e Giovanni Rossini, dal marzo 2018 Filippo si è dedicato allo sviluppo di una tecnologia che ha un impatto pratico sulle operazioni in ospedale. «Abbiamo scoperto l’ologramma quasi per caso, quando Microsoft ha iniziato a rilasciare un po’ di informazioni sui visori Hololens. È stata un’illuminazione: abbiamo visto subito un potenziale enorme». 

Il procedimento di elaborazione olografica parte da dati e immagini che vengono acquisiti sul paziente: tac, risonanze magnetiche, radiografie. Questo linguaggio medicale viene poi tradotto in modelli tridimensionali, che hanno bisogno di un supporto. E qui entra in scena il visore di mixed reality. «La persona che lo indossa è come se avesse un occhiale che non gli ostacola la vista: può continuare a percepire il mondo che lo circonda, a interagire con le persone, a camminare», racconta Piatti. È un sistema che si definisce stand alone, cioè indipendente: praticamente è come avere un computer sugli occhiali. «Nello spazio in cui ci si muove si possono inserire elementi olografici tridimensionali. La tecnologia si basa su sensori di mapping tridimensionale della stanza e il software acquisisce informazioni sulla geometria del luogo in cui ci si trova». Ecco allora che il software riconosce quando ci guarda verso la porta, facendo comparire il menù di manipolazione, o quando ci si gira verso la scrivania per visualizzare il cuore battente del paziente.

I chirurghi dell'Ospedale San Donato Milanese sfruttano i visori di realtà mista durante un'operazione

I chirurghi dell’Ospedale San Donato Milanese sfruttano
i visori di realtà mista durante un’operazione al cuore

Non è un caso che Piatti parli proprio di ologrammi di cuori. Fin dal marzo 2018, non appena Artiness è diventata a tutti gli effetti una start-up, la ricerca è stata infatti portata avanti in collaborazione con l’equipe di bioingegneri all’ospedale di San Donato Milanese, come supporto all’attività di cardiochirurgia tumorale pediatrica. «L’ologramma serve nello studio preliminare all’intervento chirurgico, sia per le previsioni di criticità che per la pianificazione degli step dell’operazione». Ma è in sala operatoria che l’impatto può essere ancora più decisivo: «Molte operazioni chirurgiche, come quelle a cuore aperto, stanno diventando meno invasive. Si tende a non aprire più il petto del paziente, ma a inserire dispositivi medicali miniaturizzati nelle arterie. Queste nuove procedure limitano l’impatto sul paziente, ma durante l’intervento il medico non può più fisicamente vedere e manipolare il cuore. Con le ricostruzioni olografiche invece si può visualizzare ciò che sta succedendo all’interno del corpo del paziente». Dall’inizio del 2019 sono state supportate circa 30 operazioni chirurgiche in diversi ospedali milanesi ed europei. «A gennaio abbiamo sperimentato il primo ologramma durante un’operazione al San Donato. Poi a luglio c’è stato il caso di Melissa, la bambina di sei anni a cui è stato asportato un tumore al cuore, che ha portato grande attenzione mediatica sulla nostra realtà».

Sta aumentando la consapevolezza dei medici su questa tecnologia.
Fino a un anno fa era difficile anche far capire cos’è un ologramma e perché può essere utile

Filippo Piatti

Artiness

Ma cosa succederebbe se la realtà virtuale si spingesse oltre, mescolandosi in maniera ancora più omogenea con la realtà fisica? E se al posto di un cuore in ologramma trovaste d’improvviso davanti a voi una persona cara, defunta ormai da anni?

Dimenticare o rivivere per sempre

 

In un episodio della serie fantascientifica Westworld uno dei protagonisti chiede ad una donna androide appena incontrata se questa sia «reale». Lei risponde con una domanda: «Se non riesci a capirlo, è così importante?». Siamo ancora lontani da un mondo in cui è impossibile distinguere una persona da un robot iper-realistico. Ma siamo su quella strada. La tecnologia è già in grado di riprodurre la realtà umana e “ingannare” il nostro cervello.

Proprio attraverso questo “inganno” nel 2020 Jang Ji-sung ha potuto incontrare la figlia piccola morta alcuni anni fa per una grave malattia, all’età di 7 anni. È successo in Corea del Sud, grazie a un esperimento che non ha precedenti: la bambina è stata ricreata digitalmente da un’intelligenza artificiale che ha elaborato foto, video e registrazioni della voce della piccola. Tutto ciò che potesse rendere riconoscibile la piccola Na-yeon è stato riprodotto digitalmente, dalle espressioni facciali alla postura. Alla donna è bastato indossare un visore e dei guanti per la realtà virtuale per incontrare quello che per un computer era una semplice stringa di codici, ma per lei la figlia in tutto e per tutto. Il percorso della donna e dei ricercatori che hanno partecipato al progetto sono stati raccontati nel documentario Meeting you.

Lee Hyun-Suk, direttore dell’azienda sudcoreana Vive Studios, si è occupato del progetto. A suo dire l’esperimento della piccola dimostra che la “fredda” tecnologia, se usata correttamente, può dare quasi del calore umano. O per lo meno aiutarci nella gestione dei traumi psicologici. La realtà virtuale in particolare viene sperimentata da anni nella gestione del Ptsd, o stress post-traumatico. Già nel 1997 i ricercatori della Georgia Tech hanno creato la prima versione di realtà virtuale di ambientazione vietnamita dedicata a quei veterani che a vent’anni dalla fine della conflitto riportavano ancora i sintomi dello stress post-traumatico. Come spiega lo psicologo André Quaderi, «il concetto chiave è l’esposizione. Se il paziente ha paura dei ragni di solito si affronta il trauma mettendogli davanti, in una situazione controllata, un ragno vero. Ma come si espone al trauma chi, per esempio, ha paura di volare? La realtà virtuale può riprodurre l’interno di un aereo». Quanto all’esperimento realizzato in Corea dai Vive Studios, Quaderi si mostra positivo, ma con un grosso “ma”.

«Dimenticare è fondamentale». Una tecnologia fuori controllo può portarci a non dimenticare mai, ad abbattere quelle barriere che ci rendono umani. Ancora una volta, come nella serie Black Mirror, nell’episodio Torna da me, quando la giovane Martha perde il suo fidanzato Ash in un incidente e si rivolge a un’azienda che ricrea digitalmente la personalità dei defunti grazie alla mole di dati che questi hanno lasciato in vita sui social network. Martha comincia a chattare il suo Ash riprodotto artificialmente, ma ben presto si rende conto che non le basta, che vuole passare alla versione “premium” della resurrezione digitale. L’episodio, neanche a dirlo, finisce molto male.