UNA STORIA SBAGLIATA

La vicenda giudiziaria di Stefano Binda. E di oltre 30mila persone in carcere da innocenti

di Chiara Evangelista Lorenzo Stasi

Può accadere per un’intercettazione scritta male. Per una “t” al posto di una “s”. Può accadere per una testimonianza falsa, per uno scambio di persona, per un numero di telefono sbagliato. E può succedere a chiunque. Può succedere a un pastore sardo, Beniamino Zuncheddu, accusato di un triplice omicidio che non ha mai commesso. O a un ex calciatore della Juventus, Michele Padovano, che si è ritrovato dal tetto d’ Europa al carcere di Cuneo. L’accusa? Un traffico di droga a cui era estraneo. Può succedere a un muratore, Giuseppe Gulotta, che sotto tortura ha confessato un delitto di cui non era responsabile. Ed è quello che è successo finora, dal 1991, a oltre 30.000 persone.

L’ARRESTO

Il suono di un campanello taglia il silenzio nell’alba di un venerdì che deve ancora affacciarsi. È il 15 gennaio 2016Stefano Binda si alza dal letto per andare ad aprire la porta. Non sospetta niente, non aspetta nessuno. Gira il pomello e sull’uscio di casa si trova davanti due poliziotti della questura di Varese. «Mi arrestate?», chiede Stefano, all’epoca quasi cinquantenne. «Sì», rispondono in modo deciso gli agenti. In un attimo la sua mente ricollega e si perde nello smarrimento. È per quella storia, quella per cui è stato iscritto l’anno precedente nel registro degli indagati: l’omicidio di Lidia Macchi, una studentessa di 21 anni uccisa il 5 gennaio del 1987 con 29 coltellate.

Lui e la ragazza si conoscevano perché frequentavano la stessa scuola, il liceo classico di Varese, e gli ambienti di Gioventù studentesca, il movimento giovanile di Comunione e Liberazione. Una conoscenza, dunque. Non stretta. Per Stefano, il loro rapporto non era nulla più di questo. Per la Procura di Varese, però, a quasi 30 anni dall’omicidio ora le prove sono sufficienti per chiedere un rinvio a giudizio. Stefano Binda per la pubblica accusa è l’uomo che ha stuprato e ucciso Lidia Macchi. Per questo viene condannato all’ergastolo in primo grado dal Tribunale di Varese. Finché il 24 luglio 2019 la sentenza viene ribaltata in secondo grado. La Corte d’Appello di Milano lo assolve con formula piena, “per non aver commesso il fatto”.  Dopo 1.286 giorni (3 anni, 6 mesi e 8 giorni) viene scarcerato. Nel gennaio 2021 la Cassazione conferma la decisione dei giudici in Appello. La sentenza diviene definitiva: Stefano Binda è innocente.

IL CARCERE

«Fin da subito ho avuto la percezione di essere in pericolo per le accuse infamanti per cui ero stato arrestato». Stefano ricorda ancora quella sensazione dopo l’arresto. E un particolare: la polizia scientifica aveva filmato il momento in cui aveva lasciato la questura per essere condotto in carcere. L’intento dei poliziotti era documentare che non avesse subito violenze durante l’interrogatorio e che da quel momento non avrebbero più risposto di quanto sarebbe accaduto dietro le sbarre. 

Il primo ingresso nel carcere di Varese è scolpito nella mente di Stefano. «Era la prima volta che dormivo vestito sotto due coperte e con addosso un giubbotto. Ricordo che per il freddo si condensava il fiato. Un gelo pazzesco». I giorni successivi di detenzione sono stati vissuti nel senso dell’utilità. «Ognuno si vive il suo carcere. Io ho cercato di vivermelo dando una mano. Sono stato in tre istituti penitenziari. A San Vittore ero assistente bibliotecario. A Busto Arsizio facevo quello che potrebbe definirsi lo “sportello amico”, aiutavo a compilare le domande». Farsi conoscere come una persona utile, non come lo stupratore assassino. Nel tempo in cella, invece, Stefano leggeva la maggior parte del tempo. Da Céline a Sant’Agostino. «Evitavo la musica. Era un pertugio che rischiava di aprire una diga»

In alcuni giorni il pensiero verso i suoi cari si affacciava in modo più prepotente. «Avevo sempre presente il peso che viveva la mia famiglia. L’idea che mia madre in paese venisse additata come la madre dell’assassino e stupratore. L’idea che mia sorella e mio nipote provassero ad avere una vita normale, nonostante quelle notizie su di me. La strada in cui abitavo chiusa perché sotto casa c’erano le troupe televisive. Tutto questo me lo vivevo come un senso di colpa».

Il momento del primo incontro in carcere con sua madre Stefano lo ricorda come una violazione della sua intimità. «L’idea che per entrare in carcere l’avessero perquisita, che le avessero messo le mani addosso, è un coacervo di emozioni. Tra persone che si vogliono bene c’è sempre l’intenzione di farsi vedere forte per sostenere l’altro. Anche in una situazione del genere c’era questa tenerezza implicita»

L’ASSOLUZIONE

Una delle prove per cui Stefano è stato condannato all’ergastolo in primo grado è una lettera recapitata qualche giorno dopo la scomparsa di Lidia Macchi in forma anonima alla famiglia. È la prova regina della Procura. Quello scritto per gli inquirenti contiene informazioni sulla morte della ragazza che solo l’autore di quella lettera poteva conoscere. In Appello, però, l’elemento probatorio viene meno. Un avvocato, Piergiorgio Vittorini, dichiara in aula che uno dei suoi assistiti è l’autore di quella lettera. Il suo cliente, secondo quanto riferito dal penalista, è rimasto nell’ombra perché non è in grado di fornire un alibi per la sera del delitto. Da lì il castello probatorio inizia a sgretolarsi.

Secondo una perizia, la saliva sulla busta della lettera non appartiene all’imputato. Allo stesso risultato si arriva tramite altri accertamenti sulla salma di Lidia Macchi. Non ci sono tracce del dna di Stefano sul corpo. Dopo varie udienze, arriva la sentenza: assoluzione per non aver commesso il fatto. Dopo la lettura del dispositivo, Stefano alza gli occhi. Nell’aula c’è un mosaico di Mario Sironi. È raffigurata la giustizia, ma non bendata, come rappresentata di solito. Ha il volto scoperto per valutare e saper distinguere caso per caso. Ecco in quel momento, dopo la lettura del dispositivo, Stefano pensa che Sironi abbia ragione. Un sistema non può affidarsi a una giustizia cieca, bendata. Non ci si può ritenere fortunati a non essere condannati quando si è innocenti.

DOPO IL CARCERE

«La prima cosa che ho fatto non appena mi hanno scarcerato è stato andare in un bar. C’era un uomo accanto a me che mescolava lo zucchero nel caffè. Non ero più abituato a quel tintinnio del cucchiaino contro la tazzina in porcellana. In carcere abbiamo posate in plastica. Ecco, se dovessi dire cos’è per me il suono della libertà, direi che è proprio il suono del cucchiaino con cui si mescola il caffè». Da lì per Stefano è iniziata la riconquista della sua normalità, della sua vita precedente. Prima di quel 15 gennaio 2016, trascorreva le sue giornate dando una mano in parrocchia e aiutando gli stranieri a imparare l’italiano all’interno di un’associazione. Una volta scarcerato, trovare un lavoro è stata la preoccupazione di Stefano. Dopo 8 anni è ancora disoccupato. Ora è presidente de “La valle di Ezechiele”, un’associazione che si occupa di reinserire gli ex detenuti nella società.

Per me il suono della libertà
è quello del cucchiaino
con cui si mescola il caffè

Stefano Binda

Per la Corte d’Appello di Milano l’uomo avrebbe diritto ad essere risarcito di oltre 300 mila euro per l’ingiusta detenzione che ha subito. Non è della stessa opinione la Procura Generale, che ha fatto ricorso contro l’ordinanza dei giudici di secondo grado perché “con i suoi silenzi” Binda avrebbe “contribuito all’errore sulla sua carcerazione”. Dunque, non avrebbe diritto al risarcimento. La Cassazione si è pronunciata sul caso, rinviando gli atti alla Corte d’Appello che dovrà quindi regolamentare le spese tra le parti. 

L’assoluzione per Stefano è significato anche depurare la sua immagine pubblica. «Il mio è stato un processo mediatico e, come ogni processo mediatico, c’è stata una distorsione del mio caso. La cosa peggiore, però, è stata che, dopo il martellamento per anni, non tutti i giornali hanno riportato la mia assoluzione. Alcune testate o trasmissioni hanno detto solo: “L’unico imputato del caso Macchi è stato scarcerato”. È diverso da dire “Stefano Binda è stato assolto”».

ERRORI GIUDIZIARI E INGIUSTE DETENZIONI: STORIE E NUMERI

Quella di Stefano Binda non è una storia isolata. Ha le sue peculiarità e le sue sofferenze specifiche, ma non è un caso a sé. Può succedere a chiunque. Ed è quello che è successo, negli ultimi 30 anni, a 30.778 persone. Sono gli impressionanti numeri raccolti da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, giornalisti che da anni studiano il fenomeno e che hanno fondato errorigiudiziari.com, la prima banca dati completa sugli innocenti in manette nel nostro Paese. «Uno dei motivi per cui insistevamo nel cercare di ottenere questi numeri sta nel fatto che gli addetti ai lavori, anche i magistrati, si meravigliavano quando parlavamo con loro dell’ampiezza del fenomeno», spiegano i due, che aggiungono: «Dalla parte delle istituzioni, però, c’era una sempre maggiore ritrosia a cedere questi numeri perché è un modo tramite il quale lo Stato afferma l’esistenza di una situazione emergenziale, per dire che la giustizia non funziona».

Le ingiuste detenzioni dal 1991 al 2022

Gli errori giudiziari dal 1991 al 2022

Gli euro di risarcimento versati dallo Stato

Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi hanno raccolto i numeri degli innocenti in manette tra mille difficoltà, perché non esiste alcun report pubblico e ufficiale sul fenomeno. «Abbiamo chiesto al ministero della Giustizia che ci ha girato verso il ministero dell’Economia perché è quello che materialmente provvede alla liquidazione degli importi dei risarcimenti e degli indennizzi», spiegano i due. I numeri che errorigiudiziari.com riesce a fornire derivano dagli importi erogati dall’Ufficio IX del ministero dell’Economia e ricostruiscono indirettamente più di 30mila casi di persone finite in carcere e poi assolte dal 1991, il primo anno in cui sono stati contabilizzati gli indennizzi, fino al 31 dicembre del 2022, a cui risalgono gli ultimi dati disponibili. All’interno di questi numeri ci sono sia le vittime di ingiusta detenzione, cioè chi è finito in custodia cautelare per poi essere scarcerato, sia di errore giudiziario in senso stretto, cioè coloro che dopo una sentenza definitiva di condanna e un successivo processo di revisione sono stati dichiarati totalmente innocenti. 

In questi trent’anni e poco più ci sono stati 30.556 casi di ingiusta detenzione e 222 errori giudiziari. «Questo significa più o meno una media di mille casi ogni anno, ininterrottamente da trent’anni. Vuol dire che ogni giorno finiscono in carcere tre innocenti, uno ogni otto ore», sottolineano Maimone e Lattanzi. Tutto questo ha un enorme costo per le casse pubbliche, perché nello stesso arco di tempo lo Stato ha sborsato 932 milioni e 937 mila euro, sommando indennizzi e risarcimenti vari: in media spende 29,2 milioni di euro l’anno, 79mila al giorno, 55 euro al minuto.

Dietro ai numeri ci sono le storie. C’è chi è stato arrestato per una consonante sbagliata, chi per una falsa testimonianza, c’è chi è finito in carcere perché un teste voleva spostare l’attenzione su altri. Ci sono intercettazioni trascritte male, ma anche magistrati innamorati dei propri “teoremi”. Quello di Enzo Tortora è stato il caso di ingiusta detenzione più famoso del nostro Paese. Tra i più popolari conduttori televisivi dell’epoca, il 17 giugno del 1983 Tortora viene arrestato e portato via in manette da due carabinieri con le accuse di traffico di stupefacenti e associazione di stampo mafioso. Anche una consonante sbagliata può portare un innocente in cella: i magistrati di Napoli sostenevano di aver trovato il riscontro delle accuse di due pentiti in un’agenda telefonica sequestrata a un altro camorrista, ma al posto di “Enzo Tortora” c’era scritto “Vincenzo Tortona”. Nessuno ha provato mai a verificare se quel numero corrispondesse a quello del presentatore, dato ormai in pasto all’opinione pubblica. Dopo essere stato condannato in primo grado a dieci anni di carcere, Tortora viene riconosciuto innocente in Appello e definitivamente assolto in Cassazione, il 13 giugno del 1987, “per non aver commesso il fatto”. 

Se quello di Tortora è stato il caso di malagiustizia più famoso, quello di Beniamino Zuncheddu è stato il più grave. L’ex pastore sardo ha passato quasi 33 anni (più della metà della sua vita) dietro le sbarre perché condannato all’ergastolo per la strage di Sinnai dell’8 gennaio 1991, nella quale sono state uccise tre persone. Lo scorso 26 gennaio si è concluso il processo di revisione e dopo depistaggi, false testimonianza e ritrattazioni, la Corte d’Appello penale di Roma ha stabilito la sua innocenza. Prima di lui il triste primato apparteneva a Giuseppe Gulotta, che ha scontato in carcere 22 anni accusato dell’omicidio di due carabinieri ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, per cui è stato dimostrato che la confessione era stata estorta con torture e sevizie da parte dei militari dell’Arma durante gli interrogatori. C’è poi Angelo Massaro, che da innocente ha passato 21 anni dietro le sbarre per un omicidio, a causa di un’intercettazione capita male e trascritta peggio: la frase in dialetto tarantino “tengo stu muers”, che voleva indicare un macchinario ingombrante attaccato alla sua autovettura, è stata tradotta come “tengo stu muert” (ho questo morto). Dietro ai 30mila innocenti in manette ci sono storie più o meno note. C’è chi da perfetto sconosciuto, oltre ai mesi passati dietro le sbarre, si è dovuto scontrare con le difficoltà nel rifarsi una vita dopo accuse dure a morire, anche a seguito di sentenze di assoluzione, e chi, come l’ex giocatore della Juventus e della Nazionale Michele Padovano, è passato dalla Champions League al carcere con l’accusa di essere un trafficante di stupefacenti e che è stato assolto dopo 90 giorni dietro le sbarre, 270 di arresti domiciliari e 17 anni di processi.

Sono più di 30mila, quindi, gli innocenti finiti in manette negli ultimi trent’anni, ma secondo Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi potrebbero essere molti di più. Perché i loro dati non si basano su quanti ingiuste detenzioni o errori giudiziari ci sono stati dal 1991, ma su quanti indennizzi o risarcimenti sono stati erogati da quella data. Molte istanze vengono spesso respinte (per molto tempo la media è stata del 70%, ora è scesa al 50%) e molti, per una serie di ragioni, non fanno domanda. Per questi e altri motivi, ai 30mila andrebbero aggiunti quelli che i due fondatori di errorigiudiziari.com chiamano “innocenti invisibili”. «Abbiamo individuato delle categorie che non rientrano tecnicamente nelle statistiche ufficiali ma che hanno tutto il diritto di essere considerate persone innocenti», sottolineano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi. «Ci sono quelli che chiamiamo i “disgustati dalla giustizia”, cioè coloro che una volta conclusa positivamente la loro vicenda giudiziaria non vogliono più saperne di avvocati e magistrati e di conseguenza rinunciano anche alla possibilità di presentare un’istanza di riparazione. Ci sono i “dissanguati dalla malagiustizia”, chi non ha le risorse necessarie per affrontare le spese legali che servono per la presentazione della domanda. E poi c’è la categoria più numerosa, cioè chi vede respinto il risarcimento per un cavillo e che quindi non rientra nei nostri dati», spiegano i due, che concludono: «Ci sono tante categorie. Abbiamo stimato che tutte insieme potrebbero fare arrivare il numero complessivo degli innocenti intorno ai 100mila».

Qual è la differenza tra errore giudiziario e ingiusta detenzione?

Per “errore giudiziario” si intende la situazione in cui una condanna diventata definitiva viene revocata a seguito di un processo di revisione. Dal 1991 ad oggi le vittime di errore giudiziario sono state 222, mediamente otto ogni anno. L’ingiusta detenzione è quel caso in cui un soggetto è stato assolto dopo essere stato sottoposto a misure cautelari. Negli ultimi 30 anni le ingiuste detenzioni sono state 30.556.

Cosa è e come funziona il processo di revisione?

Il giudizio di revisione può portare all’apertura di un nuovo processo, sebbene in precedenza ci sia stata una
sentenza di condanna definitiva.
La richiesta di revisione spetta:

  • Alla persona condannata o a un suo parente attraverso la difesa;
  • Al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello nella cui area di competenza è stata emessa la
    sentenza di condanna.

Può essere richiesta quando:

  • sono “sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto” ( art. 630 c.p.p.);
  • “se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o
    di un altro fatto previsto dalla legge come reato” ( art. 630 c.p.p).

Questi argomenti devono essere valutati con criteri stringenti dalla Corte d’Appello che ha emesso la sentenza di condanna. Deciderà sull’ammissibilità della richiesta, prima di avviare l’eventuale nuovo processo che si può concludere comunque con una conferma della condanna.

Come si calcola l'indennizzo per ingiusta detenzione?

Chi ha subito un’ingiusta detenzione, in carcere o agli arresti domiciliari, ha diritto a un indennizzo. A differenza del risarcimento per errore giudiziario, l’indennizzo per ingiusta detenzione viene determinato in base a calcoli precisi. È la Corte d’Appello del distretto in cui è stata pronunciata la sentenza a calcolare l’ammontare. Il limite massimo è di 516.450 euro che, diviso per il numero massimo previsto dalla legge per la custodia cautelare (6 anni, 2.186 giorni), corrisponde a 235,82 euro al giorno. L’ammontare di un giorno agli arresti domiciliari, invece, viene fissato solitamente nella metà, cioè in 117,91 euro.

Nel caso di errore giudiziario in senso stretto non c’è un tetto massimo di risarcimento. L’art. 643 del codice penale, alla “riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena” aggiunge “le conseguenze patrimoniali e familiari derivanti dalla condanna”. E la Cassazione specifica che, oltre al danno patrimoniale, va considerato anche il “danno biologico, quello morale e quello esistenziale”. Per questi e altri motivi, il risarcimento per chi è stato condannato in via definitiva per poi scoprirsi innocente dopo un processo di revisione non ha parametri aritmetici e non ha un tetto massimo.

Ci sono responsabilità per i magistrati che sbagliano?
  • Responsabilità penale: i magistrati sono sottoposti alla responsabilità penale come tutti gli altri
    cittadini, qualora commettano reati. Inoltre, sono previste specifiche figure di reato (ad es. la
    corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter c.p.), collegate specificamente all’esercizio della
    funzione giurisdizionale.
  • Responsabilità civile: è stata introdotta con una legge del 1988 a seguito di un referendum
    abrogativo. I magistrati rispondono dei danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni, sia se
    hanno agito con dolo o colpa grave sia se con un diniego di giustizia hanno rifiutato di compiere un
    atto dovuto. La legge in questi casi prevede che il danneggiato chieda il risarcimento del danno
    subito allo Stato e che lo Stato possa poi “rivalersi” sul magistrato responsabile.

TRA ERRORI GIUDIZIARI E CERTEZZA DELLA PENA: L’EQUILIBRIO DEL SISTEMA PENALE

Ci sono vicende giudiziarie che è difficile trattare con distacco. È stato così per Francesca Nanni, Procuratrice Generale di Milano, quando la Corte di Appello di Roma ha assolto Beniamino Zuncheddu per “non aver commesso il fatto”. Era stata proprio la magistrata, quando era a capo della Procura di Cagliari, a chiedere la revisione del processo perché nutriva dubbi sulla colpevolezza del pastore sardo. 

I primi sospetti sono iniziati quando Zuncheddu, nonostante avesse scontato oltre metà della sua pena, continuava a ritenersi innocente. Il fatto che l’uomo per questo motivo avesse rinunciato anche alla liberazione condizionale, beneficio che è possibile ottenere dopo anni di detenzione e una prova di ravvedimento, è stato un campanello di allarme per la Procuratrice. Così nel 2019 Nanni, sulla base degli elementi raccolti dal legale di Zuncheddu, Mauro Trogu, e delle nuove prove emerse, ha chiesto la revisione del processo. Dopo anni si è concluso il giudizio di revisione. «Il giorno della decisione, quel 26 gennaio, eravamo commossi, sia io sia l’avvocato. Credo che questa emozione derivasse dal fatto che sapessimo quanto fosse stato difficile». Così la Procuratrice descrive la riapertura del processo che avrebbe poi portato all’assoluzione. E sottolinea: «La revisione è un mezzo eccezionale a cui si ricorre, per questo è difficile. Ma è giusto che sia difficile». Il nostro ordinamento prevede strumenti a garanzia dell’indagato, dell’imputato e del condannato, come le impugnazioni ordinarie e straordinarie. La Giustizia ha la capacità di mettersi in discussione attraverso questi mezzi.

«Il nostro è un sistema equilibrato.  Bisogna evitare l’errore giudiziario, ma al contempo garantire una corretta applicazione della legge penale». Perché non si verifichino altre vicende come quella di Zuncheddu serve, però, che «tutti gli operatori pensino a far bene» e, secondo la Procuratrice, questo può avvenire evitando la spettacolarizzazione del processo. «Non vuol dire che il lavoro dei pm e dei giudici non debba essere trasparente. Ma ci sono momenti che devono essere riservati. I processi mediatici possono condizionare nella decisione. L’opinione pubblica deve essere istruita sul fatto che in Tribunale si formano le prove, in Tribunale si discutono le cose. Dividersi tra innocentisti e colpevolisti nuoce al processo stesso».