UNA STRAORDINARIA ACCOGLIENZA

Per la prima volta dal 2016 mancano i posti nelle strutture per migranti

di Niccolò Palla e Sara Tirrito

Agosto è il mese più denso di sbarchi, quando il cielo limpido si specchia sul mare e la corrente leggera culla le imbarcazioni da Sfax, Tripoli, Bengasi dritte fino a Lampedusa. È nell’agosto scorso che oltre 25mila persone sono arrivate via mare in un mese, un dato che ha innalzato la media del 2023, definito l’anno record degli sbarchi. Al 7 dicembre, sono approdate in Italia oltre 150mila persone in totale, il triplo rispetto al 2021, anche se il dato resta in linea con l’ultimo decennio, che ha visto salpare nel nostro Paese tra le 140 e le 170mila persone. Il picco precedente risale al 2016, quando sono approdati in 181.436. Da allora il sistema di accoglienza nel nostro Paese ha vissuto una grande trasformazione.

Nel 2018, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), che finanziava una rete di enti locali muniti di strutture e di percorsi di integrazione, è stato smantellato dai decreti sicurezza firmati da Matteo Salvini nel primo governo Conte. Secondo quanto riportato da Unhcr, il sistema Sprar era un “fiore all’occhiello dell’accoglienza in Italia”, che al luglio 2018 dava sostegno a quasi 36mila persone in 654 comuni italiani e di avviare 877 progetti di integrazione.

Hotspot, cpa e cas: le fasi dell’accoglienza

Oggi, dopo la riforma Lamorgese (dl 130/2020) e il decreto Cutro (dl 20/2023) il sistema di accoglienza in Italia si divide in tre grandi tipologie di strutture. Le persone straniere che vengono soccorse in mare sono accompagnate in centri di primo soccorso e accoglienza situati nei pressi delle zone di sbarco. Si tratta dei cosiddetti hotspot, regolati dal dl. 13/2017 (lg 46/17), introdotti nel 2015 in risposta alle esigenze dell’Unione europea ma già presenti nell’articolo 10 ter del dl 286/98, che li definisce “punti di crisi”, aree di passaggio per chi arriva. Esistono 4 hotspot riconosciuti come tali in Italia: si trovano a Lampedusa (AG), Pozzallo (RG), Messina e Taranto. Qui i migranti dovrebbero rimanere il più breve tempo possibile, per essere pre-identificati, fotosegnalati e informati sull’iter di regolarizzazione della loro permanenza in Italia.

Il tempo di permanenza medio è di 3 anni. Nessuno di noi resisterebbe alle condizioni in cui si vive nei cas

C.

Ex operatrice nel cas di via Fantoli a Milano

%

Migranti accolti nei cas

Permanenza media in anni

Tuttavia in molti casi negli hotspot avviene soltanto la prima assistenza e chi dichiara l’intenzione di chiedere asilo viene trasferito nelle strutture di accoglienza di primo livello, i Centri di prima accoglienza (Cpa). Nove i cpa presenti in Italia, regolamentati dall’ex art. 9 del dl 142/2015. Si trovano a Bari, Brindisi, Isola di Capo Rizzuto (KR), Gradisca d’Isonzo (GO), Udine, Manfredonia (FG), Caltanissetta, Messina, Treviso. Qui si dovrebbe arrivare quando già le procedure di identificazione e fotosegnalamento sono state fatte. Tuttavia nella maggior parte dei casi così non avviene.
L’accoglienza straordinaria è definita tale perché viene attivata quando gli arrivi non possono essere gestiti dai centri ordinari. Le infografiche nell’articolo forniscono una mappa aggiornata ai dati più recenti. Tuttavia, la quantità di cas presenti sul territorio nazionale varia in base alle necessità del momento, e ne vengono aperti di nuovi ogni volta che ci siano le condizioni per farlo. È il Ministero dell’Interno, per mezzo delle prefetture, a individuare i siti idonei tramite bandi pubblici. Si tratta di 5mila strutture, capaci di ospitare fino a 80mila persone. Non esiste una mappa del Ministero sui cas attivi né una lista delle nuove sedi disponibili. Nell’infografica forniamo i dati più recenti ma essendo straordinari i cas tendono a chiudere e riaprire anche da un mese all’altro.

La vita nei cas tra tempi infiniti e integrazione impossibile 

Nei cas le persone dovrebbero stare il tempo necessario al disbrigo del permesso di soggiorno. Una pratica standard richiederebbe al massimo un anno, ma nella realtà ne passano dai 3 ai 5. L’ingorgo segue tre fasi principali: le questure riescono a identificare e fotosegnalare i migranti dopo mesi che sono nei cas (e non, come dovrebbe essere, quando sono ancora negli hotspot). In seguito, chi è stato identificato viene convocato dalla prefettura di riferimento per compilare il cosiddetto modulo c3, il modello con cui un migrante presenta ufficialmente la domanda di protezione internazionale. Quando il modulo c3 è completo, l’aspirante richiedente riceve un cedolino con una foto, che costituisce il suo permesso di soggiorno temporaneo. Questo foglio consente di lavorare legalmente in Italia e di essere riconosciuti dal sistema sanitario nazionale. Dura sei mesi e deve essere rinnovato fino all’esito della valutazione della domanda. La valutazione non avviene quasi mai prima di un anno. A doversi esprimere sono le commissioni territoriali, presiedute da un funzionario prefettizio e composte da un funzionario della Polizia di Stato, un rappresentante comunale, regionale o provinciale e un esponente dell’Unhcr. 

Bologna, nella tendopoli senza tempo

A Bologna, l’attesa dell’appuntamento per completare il modulo C3 è superiore ai tre mesi: un limbo temporale in cui le persone non possono fare nulla se non aspettare, senza la possibilità di lavorare né essere regolari. Si tratta del cas più affollato d’Italia. Oltre 700 persone alloggiano in un’area pensata per 250. Vivono nelle tende, disposte in fila su un terreno ghiaioso, all’aperto, rovente durante l’estate e fangoso in inverno o dopo un acquazzone.
Lo si chiama hub anche se è un cas, perché sembra un accampamento, dove si vive all’esterno a zero come a 30 gradi. “Eravamo costretti a dormire ammassati, al gelo, in condizioni igienico sanitarie inaccettabili”, spiega Daniel, un ex residente proveniente dalla Costa d’Avorio. “Dieci letti a castello in uno spazio così piccolo è una condanna. Il tutto senza un’alimentazione adeguata, con cibi precotti di pessima qualità e quantità scarse”.

Impossibile dormire, fa troppo caldo di giorno e troppo freddo di notte

Daniel

Ex ospite del cas Mattei

Tra ottobre e novembre 2023, a seguito delle proteste di alcuni comitati per i diritti umani e degli stessi ospiti del cas, molte persone sono state trasferite in altri centri sul territorio, tra Forlì, Rimini, Modena, Ferrara e Parma. “Dallo spostamento la mia situazione è cambiata completamente, perlomeno ho un tetto sopra la testa”, continua Daniel, che conclude “ora serve un sistema di disbrigo delle pratiche più efficiente, alcuni di noi attendono mesi per una risposta”. A seguito delle proteste di ottobre molti ospiti sono riusciti finalmente a depositare le impronte digitali e a concludere le procedure di riconoscimento, processi fondamentali per fare richiesta di permesso di soggiorno. 

Castione della presolana, cibo scarso e sospetta tubercolosi

La situazione è anche peggiore nei piccoli centri, come Castione della Presolana, aperto dal luglio 2023 per sopperire al sovraffollamento nei cpa. Paese di 3mila abitanti in provincia di Bergamo, si trova a 870 metri sopra il livello del mare, circondato da montagne. Dista circa 42 km dalla prefettura, e per iniziare le pratiche di identificazione è stato necessario dividere gli ospiti in gruppi, organizzare un pulmino e occupare un operatore per accompagnare i migranti alla prefettura. Sono passati mesi prima che tutti avessero portato a termine fotosegnalamento e identificazione, passaggi senza i quali non dovrebbero nemmeno mettere piede dentro i cas.

Senza cibo né termosifoni.
Abbiamo fame e freddo.

A.

Ospite del cas di Castione

La stessa difficoltà si riscontra per la salute. Per raggiungere l’ospedale più vicino serve circa mezz’ora. È lì che S. ha scoperto di avere una sospetta tubercolosi. Avrebbe dovuto rimanere isolato e sottoporsi a ulteriori esami, ma niente di tutto ciò è stato fatto. “Lo hanno tenuto in camera con altre persone e libero di usare gli spazi comuni per tre settimane”, come riferiscono dall’interno. Chi vive nel centro lamenta mancanza di cibo, che finisce puntualmente un pasto prima del dovuto. “Uno di noi esce a comprare delle baguettes spesso perché non riusciamo a garantire tutti i pasti”, spiega M., ex operatore. La grammatura è definita dalle tabelle ministeriali, che stimano un dato quantitativo per ogni uomo adulto, a prescindere dalla sua stazza. Quando anche il pasto è servito, è a malapena commestibile, con sugo che dalle immagini sembra poltiglia. Gli alimenti sono forniti da una fondazione, che li consegna ogni tre giorni. L’ente gestore dovrebbe garantire la corretta conservazione, tuttavia in molti cas il cibo è all’apparenza avariato.

Romano di Lombardia, 60 intossicati in una notte

Non va meglio nel cas dell’ex hotel La Rocca, a Romano di Lombardia. Stesso gestore, stessa fondazione che si occupa del cibo. Qui nella notte tra il 2 e il 3 ottobre 2023 sono finite in ospedale 60 persone. Per i medici era una chiara intossicazione alimentare. Nas, vigili del fuoco e prefettura hanno chiuso la struttura per qualche ora rilevando delle irregolarità. Gran parte dell’edificio era allagato, la moquette che ricopriva il pavimento era nera, le camere sovraffollate a tal punto che il comandante dei carabinieri della compagnia di Treviglio, Antonio Stanizzi, che ha fatto il sopralluogo ha dichiarato: “L’ex albergo era nato per avere camere con due ospiti, ce ne sono alcune con otto letti”. Il cas di Romano di Lombardia è stato aperto nel luglio 2023 nell’ex hotel La Rocca, un albergo in disuso che già nel 2016 aveva ospitato dei migranti. “Allora ne aveva ospitati 60, capienza effettiva di quel posto”, racconta il sindaco Sebastian Nicoli.

Migranti stipati in otto in camere da due

A. Stanizzi

Comandante dei carabinieri di Treviglio

Il cas di Romano sembra un girone dantesco. Andrebbe chiuso

S. Nicoli

Sindaco di Romano di Lombardia

Proprio il primo cittadino ha combattuto per fare chiudere la struttura. “La cosa sorprendente è che un anno prima ne avevo chiesto l’agibilità per ospitare i profughi ucraini ma mi era stata negata perché la struttura non era idonea”, racconta Nicoli. Non si spiega come mai un anno dopo, senza che alcun intervento sia stato fatto, l’ex albergo sia stato ritenuto pronto ad accogliere 160 migranti. “Sono state anche chieste a giugno delle modifiche che avrebbero dovuto vincolare l’apertura, ma nessuna modifica è stata fatta”, spiega. Dopo i casi di intossicazione, l’ente gestore ha iniziato a fare qualche intervento di riparazione, ma nessuno a oggi è entrato nella struttura.