VUOTI A RENDERE

Milano e il suo patrimonio dismesso
Storie di abbandono e di rinascita

di Jacopo Bernardini e Manuela Gatti

 

Un patrimonio abbandonato. Sembra un controsenso. Un ossimoro. Eppure in Italia, anche nella laboriosa e produttiva Milano, c’è un’enorme ricchezza lasciata all’incuria. È composta da immobili dismessi, edifici incompiuti, altri completati ma travolti da fallimenti e mai abitati, insediamenti “congelati” in attesa di permesso burocratici. Un arcipelago di fabbriche, scuole, cascine, caserme ed ex uffici consegnati al degrado. Una piccola città dentro la città. Quanti sono? Il Comune di Milano ha censito 260 luoghi abbandonati. Secondo le stime della società immobiliare internazionale Cushman&Wakefield è vuoto il 6,8% degli uffici nelle aree centrali, il 16% nelle periferie, il 13% nell’hinterland. Per quanto riguarda il settore residenziale, 30mila sarebbero gli appartamenti sfitti o inutilizzati. Se si parla di edifici pubblici, a livello nazionale gli immobili a disposizione non utilizzati dalla pubblica amministrazione valgono 7 miliardi. Una ricchezza enorme, quanto difficile da calcolare. E che, se abbandonata, diventa un costo per tutti. A partire da manutenzione e sorveglianza. In certi casi si tratta anche di aree contaminate, ma bonificare costa troppo. E così la situazione non fa altro che peggiorare.

Eppure le soluzioni all’abbandono esistono. E Milano, in certi casi, ha saputo metterle in pratica. La prima via è quella di un accordo pubblico-privato, concessioni in cambio di qualcosa indietro. «Un’operazione che presenta dei rischi, perché il pubblico ha interessi diversi dal privato: bisogna capire quando lo scambio è leale», spiega Alessandra Oppio, docente alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Un esempio vincente? Il progetto di Porta Nuova, in cui le torri Unicredit, il Palazzo Lombardia e il Bosco Verticale ruotano attorno ai giardini pubblici. Ma questo non è l’unico modo che hanno le amministrazioni per gestire, senza svendere, le proprie risorse. Come spiega Emanuele Garda, professore di Progettazione urbana al Politecnico. «Fino agli anni Ottanta e Novanta l’approccio era diverso, si preferiva abbattere e ricostruire – racconta Garda – Poi è stata la volta dei mega-progetti. Oggi non c’è più la forza economica, né quella demografica e sociale, per questi due approcci». E così, è giunto il momento del cosiddetto urbanismo austero: progetti leggeri, di riutilizzo di spazi preesistenti, che non stravolgono la città. «Con la crisi vengono tollerati comportamenti che prima non lo erano, come l’esperienza di Macao: un centro culturale che ha occupato un luogo abbandonato e ora in qualche modo è riconosciuto dal Comune», continua l’urbanista. Il tema del riuso, del resto, ha radici antiche. «Basti pensare a Castel Sant’Angelo, la città vaticana costruita sulle ceneri di quella romana – chiosa Garda – Oggi, semplicemente, stiamo vivendo le conseguenza di quella che Calvino definì febbre del cemento».

Istituto Marchiondi – Una gloria in rovina

Se pensiamo ai luoghi abbandonati di una città, pensiamo a vecchie fabbriche, caserme, immobili diroccati di cui non interessa più niente a nessuno. Non a una costruzione che trova spazio nei manuali di architettura e il cui modellino è esposto al MoMa di New York come esempio di Brutalismo. Ma Milano, si sa, stupisce sempre. E pensare che pochi anni fa le sorti dell’Istituto Marchiondi, a Baggio, erano sul punto di cambiare. Con il progetto di riqualificazione del Politecnico di Milano il gioco sembrava fatto. Poi un’occupazione abusiva e l’aumento dei costi di ristrutturazione da 18 a 25 milioni di euro hanno fatto saltare tutto. Ora tutto è bloccato, di nuovo.

L’istituto nasce come convitto per ragazzi “difficili”. Il suo primo indirizzo è in zona Porta Romana, ma durante la Seconda guerra mondiale viene bombardato e nel 1952 viene trasferito in via Noale, periferia ovest della città. La struttura la progetta Vittoriano Viganò, che non vuole costruire il classico riformatorio ma una «scuola di vita»: niente sbarre e tanti spazi aperti e verde. Oltre a tanto cemento armato – che ora si sta sgretolando – che lo inserisce di diritto tra i pochi esempi italiani di architettura brutalista e gli fa guadagnare il vincolo della Soprintendenza delle Belle arti. Alla fine degli anni Settanta, però, i ragazzi sono sempre meno, l’ente perde di importanza e alla fine viene chiuso. La proprietà passa al Comune, con un vincolo: la destinazione d’uso deve rimanere socio-educativa. Per qualche anno un’ala viene occupata da una scuola di ottica e poi da un centro per disabili, tuttora attivo. Ma per il resto, viene abbandonato.

Le speranze si riaccendono a metà degli anni 2000, quando il Politecnico insieme ad alcune cooperative presenta un progetto da 18 milioni per trasformare l’ex istituto per metà in un campus universitario e per l’altra metà in uno spazio dedicato al sociale. Ma l’assenza di recinzioni e barriere, che ne avevano fatto un modello all’avanguardia, fà sì che l’edificio venga occupato per circa tre anni. Arriva a ospitare 400 persone, fino allo sgombero nel 2009. Ma ormai le condizioni, già precarie, dell’immobile sono peggiorate e il Politecnico, di fronte al gonfiarsi delle spese di riqualificazione, fa marcia indietro. I vincoli architettonici e quelli sulla destinazione d’uso scoraggiano i potenziali investitori. Intanto, il cemento armato, senza manutenzione, si sgretola. E una vecchia gloria di Milano va in rovina.

Piazza d’armi – Tra abusivi e mire dell’Inter

In teoria, si tratta ancora di zona militare. Invalicabile. Un muro orlato di filo spinato corre tutto intorno al perimetro della Piazza d’armi di via Forze armate. Quarantadue ettari, più grande di parco Sempione. In pratica, tutto è lasciato al degrado. I vecchi magazzini militari, che un tempo ospitavano armamenti e munizioni, sono oggi occupati da famiglie nomadi, in un paradosso evidente con la storia del luogo e con gli stemmi dell’esercito che sopravvivono qua e là. Nel grande spiazzo dove fino agli anni Ottanta facevano le loro manovre i carrarmati, la natura si è ritagliata un raro angolo di biodiversità in una delle città più inquinate d’Europa, tra orti abusivi e qualche baracca. Intorno c’è la vita – i caseggiati popolari, i bar, il traffico – della periferia sud-ovest di Milano.

Nel 2015 l’architetto Leopoldo Freyrie avrebbe voluto trasformare l’area nel più grande quartiere ecologico d’Italia: palazzine e attività commerciali lungo i bordi e verde al centro. Della proposta, però, non se n’è fatto nulla e lo scorso 9 marzo Invimit – la società di gestione del risparmio del ministero dell’Economia proprietaria dell’area e incaricata della sua valorizzazione – ha pubblicato un bando per la cessione dei terreni. Un interessato di alto profilo, secondo le indiscrezioni, ci sarebbe: l’Inter di Suning, che lì ci vedrebbe bene la nuova Pinetina, con campi da calcio per la prima squadra e per la Primavera, un centro specializzato in medicina sportiva, un albergo, negozi. E con San Siro a soli due chilometri di distanza.

I residenti, però, non sembrano gradire l’interessamento: a fine 2017 il coordinamento Piazza d’armi – che raccoglie collettivi, associazioni e cittadini – ha cominciato a battere i pugni sul tavolo. «Sarebbe una privatizzazione a vantaggio di pochi e a svantaggio di tutti gli altri. Un’area di così grande valore dovrebbe rimanere pubblica», è la posizione di Massimo Mainardi, referente del coordinamento. Qualche idea su cosa farci? «Si potrebbe avviare una collaborazione con la facoltà di Agraria dell’università Statale di Milano, che negli ex magazzini potrebbe ricavare serre e spazi per fare lezione – spiega Mainardi – mentre l’oasi verde va tutelata: è fondamentale per le specie animali che la abitano e per le ricadute sociali che produce, in termini di qualità della vita e pulizia dell’aria».

L’assessore all’Urbanistica del Comune di Milano, Pierfrancesco Maran, mette le mani avanti: qualunque modifica delle volumetrie edificabili e della destinazione d’uso dell’area deve essere inserita nel Pgt, il Piano di governo del territorio che deve essere approvato dal consiglio comunale. Niente Pinetina, insomma, senza un progetto condiviso. Ma non nega che l’idea di destinare tre quarti dei terreni «a verde e impianti sportivi di natura privata» è al vaglio di Comune e Invimit, e che «l’idea di tutto parco e zero volumetrie cozza con i diritti edificatori già esistenti». La partita resta aperta, mentre il quartiere aspetta il proprio riscatto.

Laboratorio Olivetti – L’eccellenza abbandonata (e sconosciuta)

«Qui stavano i tecnici e i programmatori, mentre là c’erano gli uffici. E girato l’angolo si vedono il laboratorio depolverizzato, dove si facevano le ricerche più sperimentali». A fare strada tra le sterpaglie sono quelli che al polo Olivetti di Pregnana Milanese, una decina di chilometri a nord-ovest di Milano, ci hanno lavorato per tutta la vita. E che oggi vedono quel luogo pieno di ricordi sbiadire poco a poco. A luglio un incendio, le cui cause non sono mai state accertate, ha distrutto uno dei magazzini. Più volte nel corso degli anni sono stati registrati movimenti dentro e fuori il sito, che hanno fatto ipotizzare la presenza di occupanti abusivi. All’interno delle strutture niente è stato toccato da quando l’azienda dichiarò fallimento e gli ultimi operai rimasti occuparono il sito. Era il 2008, e sulla pagina di maggio di quell’anno è fermo il calendario appeso in uno degli uffici, che si intravede attraverso una finestra rotta.

La storia del Laboratorio di ricerca e sviluppo Olivetti – poi passato a General Electric, Honeywell, Bull, Eutelia e infine ad Agile – è una storia di eccellenza, anche se poco conosciuta. Il progetto iniziale era firmato da Le Corbusier, poi si virò su una struttura meno costosa, terminata nel 1961. Da quel momento, in questo angolo di hinterland, per almeno tre decenni si è scritta la storia dell’informatica italiana. «I più non sanno che qui Federico Faggin inventò il primo microprocessore e Pier Giorgio Perotto il primo computer da tavolo», racconta Domenico Maletti, presidente di Pozzo di Miele, l’associazione che riunisce ex colleghi, familiari e simpatizzanti. «In questo laboratorio sono stati progettati prodotti che sono poi finiti in tutto il mondo». Il periodo di massimo splendore è fino agli anni Ottanta, quando 850 esperti informatici erano impiegati nel sito.

Oggi titolare dell’area – 250mila metri quadrati – è il Tribunale, che dopo il fallimento del 2008 dell’ultima proprietà, Agile, l’ha messa sotto sequestro. Periodicamente il complesso viene messo all’asta, ma i prezzi sono ancora troppo alti rispetto a quelli di mercato. Per questo il Comune sta cercando di attirare investitori. «Abbiamo appena incaricato una società specializzata nel riuso delle grandi aree industriali dismesse per creare i presupposti per una futura vendita – spiega il sindaco di Pregnana Milanese, Angelo Bosani – Noi pensiamo a un mix di residenze, attività produttive e terziario, con metà della superficie lasciata a verde». Ma, ammette, ci vorranno almeno altri 10 o 15 anni prima che qualcosa si realizzi.


Di fronte agli ex laboratori c’è la stazione ferroviaria: promessa ai tempi d’oro dell’azienda, per uno scherzo del destino è stata inaugurata in concomitanza con il suo fallimento. Due anni fa gli studenti di un liceo artistico l’hanno decorata con una serie di murales che raccontano la storia del polo: ci sono Adriano Olivetti ed Enrico Fermi, l’ingegnere Mario Tchou e l’Azzurra, la barca a vela che negli anni Ottanta affrontò l’America’s Cup grazie alla tecnologia Olivetti. Una sorta di mostra permanente. Come a dire che se i luoghi non si possono salvare, il ricordo, almeno quello, sì.

 

Macao – Proprietari dello spazio occupato

Macao è forse l’esempio meglio riuscito di riqualificazione dal basso di spazi abbandonati. Ma ora il collettivo di artisti vuole andare oltre. Dopo lo sgombero dalla Torre Galfa e da palazzo Citterio, nel giugno 2012 gli attivisti del “Nuovo centro indipendente per le arti, la cultura e la ricerca” di Milano occuparono l’ex Borsa del macello di viale Molise, una palazzina liberty abbandonata in mezzo a un’enorme area altrettanto lasciata a se stessa. Ed è questo spazio, formalmente ancora occupato in modo irregolare, che ora vogliono acquistare. Sull’esempio di colleghi tedeschi e attraverso quello che loro definiscono «un hackeraggio del diritto privato».

L’idea nasce nell’inverno dell’anno scorso, quando Sogemi – la società al 99% posseduta da Palazzo Marino e proprietaria dell’area – decide di vendere la struttura in cui ha trovato casa Macao per riqualificare parte dell’ortomercato adiacente. Ma il collettivo vuole portare avanti la sua attività: concerti, mostre, laboratori, eventi legati a teatro, cinema e letteratura, tutto a ingresso libero e con un palinsesto di iniziative suscettibile alle proposte di ognuno. «Al Comune e a Sogemi abbiamo risposto che eravamo disponibili a comprare noi», spiega Emanuele Braga di Macao. Una proposta azzardata, ma non folle. Tanto che l’amministrazione allora guidata da Giuliano Pisapia la accetta.

 

Ma come fare? Il modello da seguire è quello del Mietshäuser Syndikat, cooperativa di Berlino che negli ultimi trent’anni ha acquistato diversi edifici nelle principali città tedesche per farne housing sociale. Il sistema, continua Braga, è questo: parte del capitale necessario per acquistare la struttura arriverebbe da prestiti diretti di privati, a cui si corrisponderebbe un interesse. L’altra parte dei soldi si troverebbe tramite l’appoggio di una banca. In Germania ne hanno una di fiducia. Come si rientra dall’investimento? Nel caso di Macao tramite i profitti delle attività culturali (con gli affitti, nel caso delle residenze tedesche) e con una forma di azionariato popolare, che funzionerebbe come un abbonamento, un sostegno a questa esperienza. Indispensabile è il rispetto di una clausola contrattuale rivoluzionaria: l’ex macello di viale Molise non si potrà più rivendere, in modo da sottrarlo al mercato immobiliare.

La partita, certo non è semplice. Ma a gennaio Macao ha proposto al Comune un primo piano d’azione. Per l’acquisto il collettivo è disposto a pagare una cifra tra i 5 e i 10 milioni di euro, a cui si aggiungerebbero circa 1,5 milioni per il primo intervento di rinnovamento. L’incognita è la concorrenza: se l’assegnazione dell’immobile avvenisse attraverso un bando pubblico, sarebbe difficile competere con gli altri soggetti interessati. Al momento la situazione è in fase di stallo: l’amministrazione fatica a trovare una via d’uscita che permetterebbe di assegnare la palazzina al collettivo, ma rimane sensibile alla questione. Nei primi mesi del 2018, però, il Comune ha riportato l’ex macello sotto la sua diretta proprietà. Un gesto che fa ben sperare per il futuro di Macao e che aprirebbe la strada ad altre esperienze simili.