La sconfitta del Pd si chiude con le dimissioni di Matteo Renzi. Il candidato del centrosinistra lascia la guida del Partito Democratico. L’annuncio dell’ex sindaco di Firenze è arrivato lunedì 5 marzo, il giorno dopo le elezioni, nel corso di una conferenza stampa al Nazareno all’indomani della pesante sconfitta del partito alle Politiche. «Una sconfitta netta e chiara che ci impone di aprire una pagina nuova per il Partito Democratico», ha detto Renzi. Il risultato, inferiore al 20% quando sono 61.275 su 61.401 le sezioni scrutinate per la Camera e 61.347 su 61.401 quelle scrutinate per il Senato, non lascia possibilità di creare un Governo di larghe intese. Il trionfo è tutto del Movimento 5 Stelle, ben oltre il 30%, e della Lega di Matteo Salvini, che è riuscita a staccare di quasi tre punti percentuali Forza Italia (17 a 14).
Resa dei conti nel Pd – Dopo qualche rinvio, Matteo Renzi si è presentato al tavolo della conferenza stampa del Nazareno poco dopo le 18:00 del 5 marzo. Solo, seduto dietro una scrivania piena di microfoni. L’abito scuro come il volto. La voglia di parlare è poca: «Saremo all’opposizione, il Pd non sarà mai il partito-stampella di un governo di forze anti-sistema». La sconfitta con i nemici giurati fa male, per questo ci tiene a precisare: «Con Di Maio e Salvini ci dividono tre elementi chiavi: il loro anti-europeismo, la loro anti-politica e l’odio verbale che hanno avuto contro i militanti democratici», quindi, «il vostro governo lo farete senza di noi». Rivendica i successi del governo: «Siamo orgogliosi dei nostri risultati, ora riconsegnamo le chiavi convinti che di aver contribuito a creare un Paese migliore». Il futuro? «Resto in carica fino alla formazione del nuovo governo», quindi sarà lui a guidare la delegazione del Pd per le consultazioni prima della nascita del nuovo esecutivo. Infine ci tiene a tracciare le linee guida di quello che sarà il prossimo segretario dem: «Non deve essere nominato da caminetti ristretti, ma scelto attraverso le primarie» . «Poi cosa farò io?», si chiede Renzi. «Il senatore semplice».
Gli ultimi dati – In attesa della definitiva assegnazione dei seggi, i risultati a quasi 20 ore dalla chiusura delle urne, indicano che al centrodestra andrebbero 250-260 seggi alla Camera (con la Lega maggioritaria all’interno della coalizione rispetto a Forza Italia) e 130-140 seggi al Senato. Al M5s 230-240 seggi alla Camera e 110-120 seggi al Senato. Staccatissimo il centrosinistra guidato dal Pd con circa 110-120 seggi alla Camera e 45-55 seggi al Senato. Le maggioranza politica necessaria alla camera è 316 seggi, mentre al senato e di 158 seggi. Nessuna forza politica raggiungerebbe dunque il 40%, soglia indispensabile per formare un governo. E le possibili coalizioni sono un rebus che sarà difficile risolvere.
Gli scenari – Partiamo dal Senato, dove per governare servono 158 seggi. Da escludere a prescindere un’alleanza PD-Forza Italia: insieme arriverebbero a 99 seggi. Possibile, invece, almeno numericamente, un’intesa PD-5 stelle: 160 seggi in due, magari con gli 8 di Liberi e uguali a fare da collante. Maggioranza, anche se non ampia. Certo per l’attuale segretario del Pd – che ha trascorso le ultime giornate di campagna elettorale ad attaccare Di Maio dicendo “Non avrete i nostri voti” – sarebbe difficile da accettare, ma con un Pd senza Renzi si potrebbe fare. Ultima opzione, la più temuta, il governo dei populisti. La Lega avrebbe 57 seggi, Fratelli d’Italia 16. Sommati ai 112 dei 5 Stelle il risultato è 185. E alla Camera? Qui la maggioranza assoluta è a quota 316. Niente da fare di nuovo per la coppia PD-Forza Italia, troppo lontano dalla soglia. E l’ipotetica coalizione M5S-sinistra? I pentastellati sono a quota 226, sommati ai 135 del Pd e ai 16 di Leu il risultato è 377. E il numero di seggi dell’alleanza dei populisti? 123 leghisti, sommati ai 28 di Fratelli d’Italia e ai 226 dei pentastellati, fanno 377. La matematica dice che un governo è possibile, peccato che la politica non sia solo numeri.
Duelli elettorali – Tanti nomi di peso della scorsa legislatura sono usciti sconfitti dalle sfide nei collegi. A Pesaro, il ministro degli Interni Marco Minniti è terzo con il 30%. Insegue il 5 Stelle Cecconi, autosospesosi per la vicenda dei bonifici, e la candidata di centrodestra Bezziccheri che per il momento è in testa al duello. Nel collegio di Genova è dietro, per il momento in terza posizione con il 27%, il ministro della Difesa uscente Roberta Pinotti, staccata rispetto a 5 Stelle primo partito e centrodestra. Ma il Pd perde anche nelle sue roccaforti, come in Emilia, dove Dario Franceschini a Ferrara rischia di perdere il collegio. I dem reggono a Bologna con Casini, a Firenze con Renzi (in vantaggio 44 a 25 sul leghista Bagnai) e in Trentino Alto-Adige, nuovo fortino in cui Maria Elena Boschi sembra già sicura del posto. A rischiare una disfatta non sono solo i big del Pd: a fare impressione è anche il 3,9% di D’Alema a Nardò e il misero 6% di Pietro Grasso a Palermo.
Affluenza – Mai così poca gente a votare. Con un’affluenza di poco superiore al 73%, è stato battuto il record negativo del 2013, anno in cui votò il 75,2% degli aventi diritto. Rispetto a cinque anni fa non cambiano le regioni più “assenteiste” che rimangono Calabria e Sicilia, con percentuali di affluenza sotto il 65%. La percentuale si abbassa anche nelle regioni con più votanti nel 2013, cioè Lombardia, Trentino Alto-Adige ed Emilia Romagna che nel 2013 arrivarono oltre l’80%. A questa tornata, nelle tre regioni l’affluenza non supera l’80, con un vero e proprio crollo in Trentino, dove si sono presentati alle urne il 74,13% degli aventi diritto.