«Siamo stati attenti per mesi. Quando hanno arrestato Eva Kaili abbiamo capito che l’inchiesta era enorme». A parlare è Joël Matriche, giornalista di Le Soir, che insieme al collega Louis Colart e a Kristof Clerix, della rivista fiamminga Knack, ha rivelato al mondo il giro di mazzette che dal Qatar finiva nelle aule del Parlamento europeo. Il giornale belga Le Soir ha tenuto segreta per mesi l’indagine giudiziaria prima di pubblicarla in accordo con Knack e la Repubblica. Matriche, che nel 2017 ha ricevuto il premio Pulitzer per aver contribuito alla diffusione dei Panama Papers, ha accettato di raccontare a La Sestina (intervista realizzata il 20 dicembre, ndr) come il Qatargate è finito sui giornali.
Le Soir ha documentato in esclusiva mondiale lo scandalo di corruzione che ha travolto l’Europa. Com’è nata l’inchiesta?
All’inizio abbiamo ricevuto delle voci. Le nostre fonti ci hanno informato che stava per succedere qualcosa di molto grosso e molto segreto che riguardava la giustizia, ma sapevamo solo questo. Non posso dare troppi dettagli, ma da settembre abbiamo capito che l’inchiesta ruotava intorno al Parlamento europeo. A poco a poco abbiamo realizzato che degli assistenti, e senza dubbio anche dei parlamentari, erano sospettati. Il nove dicembre, quando sono iniziate le perquisizioni, abbiamo compreso fino in fondo quanto era grande l’inchiesta. Quell’operazione ci ha sorpresi, e a fine giornata, quando abbiamo visto che Kaili veniva accompagnata dalla polizia per essere ascoltata, abbiamo realizzato che la cosa diventava enorme.
Dopo l’audizione di Kaili, Le soir ha parlato di «confessioni parziali». Perché?
Perché non ha detto, o almeno non penso, agli inquirenti: «Sì, ho approfittato della mia posizione per favorire il Qatar» o cose del genere. Non ha detto niente di tutto questo. Eppure, dal mandato d’arresto che ha deciso il giudice e che abbiamo potuto consultare è indicato che lei confessa delle cose.
Quali saranno i prossimi sviluppi del Qatargate?
Non lo so. Non sono un poliziotto, ma hanno fatto circa venti perquisizioni finora. Stando alla logica, hanno messo insieme una gigantesca quantità di telefoni e materiale informatico. È solo la mia opinione, ma credo che il prossimo sviluppo non sarà immediato. Se mai dovessero perquisire ancora un eurodeputato, per esempio, ci vorrà del tempo. Per superare l’immunità parlamentare serve un dossier più che completo e sospetti solidi. Ci sono migliaia e migliaia di dati da analizzare. Bisogna che digeriamo tutto questo.
La giustizia belga era preparata a un’operazione così imponente?
Come in molti Paesi, la polizia ha pochi mezzi, specie in termini di lotta alla criminalità finanziaria: denaro sporco, riciclaggio, corruzione. Oltre che con grande riserbo, la sicurezza belga ha lavorato visibilmente bene a questo dossier. Ha avuto le risorse necessarie e collaborato con i servizi segreti stranieri. Per analizzare le migliaia e migliaia di dati di cui abbiamo parlato occorrono grandi mezzi e non sono certo che questo duri.
Cosa l’ha colpita di più di questa vicenda?
È importante ricordare, e non è una formula di rito, che vale la presunzione di innocenza. Quello che temo, e spero non sia questo il caso, è che si possa deviare il ruolo del Parlamento e modificarne l’agenda per soddisfare interessi stranieri. Il Parlamento europeo è un’istituzione democratica con molta burocrazia. È lontano dalle persone, eppure è il cuore dell’Europa. Se fosse stato sviato il suo funzionamento, sarebbe antidemocratico e mi fa paura.
Molti italiani hanno osservato la differenza del Belgio nell’approccio giornalistico all’inchiesta giudiziaria. Come avete gestito le informazioni?
Ci ha richiesto molto tempo. Siamo usciti solo quando abbiamo avuto un’immagine abbastanza nitida, anche se non completa, di quello che era successo. Il modo di lavorare, ma anche la concezione di segreto sono diversi tra Belgio e Italia. In Belgio è molto molto raro che un giornalista ottenga in fretta tutti i documenti che vedo passare un po’ dappertutto nella stampa italiana. Da noi c’è un segreto istruttorio più forte. I giudici in generale non parlano. Anche quelli che vanno in tv, come Michel Claise (il magistrato che ha condotto l’inchiesta sul Qatargate, ndr), non entrano nel merito dei dossier. Non dico che quella italiana sia una cattiva prassi, ma in Belgio è davvero difficile che qualcosa esca mentre l’istruttoria è in corso.
Cos’ha significato questa inchiesta per Le Soir?
Siamo contenti. Una buona ricompensa sarebbe ricevere più informazioni. Quando sei preso maggiormente sul serio, è possibile che le persone condividano più volentieri le informazioni con te piuttosto che con un altro giornale. Questo non riguarda soltanto Le Soir. L’inchiesta sul Qatargate ha dato fiducia sul ruolo che gioca la stampa. Che sia in Belgio, in Italia o comunque in Europa, se ci sono dei comportamenti anomali, il lettore sa che la stampa li verifica e può rivelarli.