Il 9 maggio 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Schuman teneva a Parigi il discorso con cui si gettavano le basi per il processo di integrazione europea. Per superare le rivalità storiche tra Francia e Germania ed evitare lo scoppio di nuove guerre, Schuman proponeva di mettere in comune la produzione di carbone e acciaio dei due Paesi, estendendo la partecipazione a tutti gli Stati europei interessati. La dichiarazione Schuman ispirò la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo passo verso quella che poi è diventata l’Unione europea. Oggi il 9 maggio è celebrato come “Giornata dell’Europa”, data in cui festeggiare la ritrovata pace e cooperazione nel vecchio continente. Per tracciare il bilancio di 73 anni di integrazione europea La Sestina ha parlato con Anna Ferrari, segretaria della sezione di Milano della Gioventù federalista europea (GFE), divisione under 30 del Movimento fondato da Altiero Spinelli nel 1943.
Che Europa ci troviamo davanti oggi?
In 73 anni sono stati compiuti passi importanti: penso all’elezione diretta del Parlamento europeo o all’istituzione della moneta unica. Tuttavia, il processo di integrazione si è un po’ arenato e l’Europa di oggi rimane fondamentalmente intergovernativa: il ruolo del Consiglio, che rappresenta gli Stati, resta preponderante nel processo decisionale. Eppure le sfide che ci troviamo di fronte oggi, dalla guerra in Ucraina al cambiamento climatico, non possono essere fronteggiate dalla politica nazionale: oggi più di settant’anni fa servono risposte a livello europeo.
Dal 9 maggio 2021 al 9 maggio 2022 i cittadini europei si sono riuniti nella Conferenza sul futuro dell’Europa per discutere di economia, welfare, sicurezza, cambiamento climatico. A un anno di distanza, qual è il bilancio di questa iniziativa?
La Conferenza ha prodotto un risultato molto positivo, con l’avanzamento di 49 proposte per cambiare l’Unione europea. Alcune riguardano competenze già in capo alle istituzioni europee, mentre altre toccano tematiche su cui servirebbe una riforma dei trattati, perché i cittadini chiedono che l’Unione abbia una competenza superiore a quella attuale. Per farlo, il Parlamento si è già mobilitato e sta producendo una proposta per una Convenzione: si tratta di una sorta di Assemblea costituente, che per essere convocata avrebbe bisogno del via libera del Consiglio europeo. Parlamento e Commissione sono favorevoli a questo processo, mentre gli Stati stanno temporeggiando.
Eppure la scorsa settimana 9 Paesi, tra cui l’Italia, hanno dato vita a un “gruppo di amici” per modificare il sistema di voto in materia di politica estera, passando dall’unanimità alla maggioranza qualificata. Potrebbe essere il segnale di un cambio di passo?
Premetto che il nome non è bellissimo, ma la richiesta di superamento dell’unanimità potrebbe essere un segnale di apertura verso il processo della Convenzione. Anche i governi si stanno rendendo conto della necessità di questo cambiamento per procedere nelle decisioni. Tuttavia, superare l’unanimità non basta: senza una riforma complessiva, le competenze in materia di politica estera e difesa resterebbero in capo all’istituzione intergovernativa, mentre il Parlamento europeo manterrebbe ancora poteri limitati.
Tra un anno i cittadini europei eleggeranno un nuovo Parlamento, ma le sue competenze limitate rispetto alle istituzioni intergovernative fanno parlare ancora di deficit democratico. Quali sono le principali criticità?
A differenza degli altri parlamenti, il Parlamento europeo non ha funzione di iniziativa legislativa e decide su un budget estremamente ridotto. Inoltre, il deficit democratico si verrebbe ad accentuare se attribuissimo nuove competenze al livello europeo senza riformare le istituzioni, perché a quel punto sarebbero gli organi intergovernativi a mantenere il potere decisionale.
Il Next Generation EU ha rappresentato una svolta nel percorso di integrazione: per la prima volta i 27 Stati membri hanno emesso debito comune. Quali dovrebbero essere i prossimi passi nella direzione dell’unione economica?
Il tema fondamentale è la creazione di una competenza fiscale europea, cioè disporre di una capacità di spesa indipendente dagli Stati sovrani. Questo passaggio dovrebbe precedere tutti gli altri, perché per esercitare qualsiasi nuova competenza serve un bilancio adeguato. Con il Next Generation EU abbiamo visto che quando l’Unione europea si presenta sul mercato per fare debito, il tasso d’interesse che paga è ridicolo rispetto a quello dei singoli Stati membri. Se in media le condizioni sono vantaggiose per tutti, lo sono soprattutto per l’Italia.
Nell’ultimo anno le istituzioni europee hanno riconosciuto a Ucraina, Moldavia e Bosnia-Erzegovina lo status di candidati all’Unione europea. I Paesi attualmente candidati sono 8, a cui si aggiungono i “potenziali candidati” Kosovo e Georgia. Eppure è dal 2013, con la Croazia, che l’Unione non espande i suoi confini. Il futuro dell’Europa passa da un nuovo allargamento?
Allargare l’Unione europea così com’è oggi, con i meccanismi di veto, significherebbe rendere ancora più difficile il processo decisionale. La situazione si complicherebbe con l’eventuale ingresso dell’Ucraina che, provenendo da una guerra, nei prossimi anni sarà sicuramente mossa da un sentimento nazionalista. Per questo crediamo che in questa fase sia urgente un approfondimento dell’integrazione europea, prima di un nuovo allargamento. Probabilmente non tutti gli Stati sono pronti a questo passo, ma qui subentra la teoria dell’Europa a due velocità, o a cerchi concentrici: chi ha la volontà politica può mettere in comune più competenze e cedere più sovranità al livello europeo, mentre all’esterno resterebbe un gruppo di Paesi che partecipano al mercato unico senza condividere altre competenze. Del resto, è quello che abbiamo già fatto con l’euro.