Una cella singola, due ore d’aria al giorno e quasi nessuna comunicazione con l’esterno. Questo è il regime di 41-bis a cui – secondo il rapporto redatto dall’Associazione Antigone nel 2022 – sono sottoposti 749 detenuti. Tra di loro, Alfredo Cospito. Condannato per l’attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano nel 2006 e l’uccisione dell’amministratore delegato della Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, l’anarchico è, infatti, sottoposto al carcere duro dall’aprile scorso. La scelta era stata motivata dalla divulgazione di alcuni suoi scritti ai militanti anarchici. Una mossa che aveva convinto i giudici dei suoi continui contatti con l’esterno e la necessità di isolarlo. La decisione avrebbe subito scatenato la reazione dello stesso Cospito, che da oltre 100 giorni si rifiuta di mangiare arrivando a pesare 40 chili in meno. Proteste rivolte alle condizioni di detenzione e che avrebbero portato i suoi sostenitori ad attaccare le ambasciate italiane di Berlino e Barcellona. Vano il tentativo di ricorso al Tribunale di Sorveglianza di Roma dei suoi avvocati. Ora spetta alla Corte di Cassazione decidere sul reclamo, la cui validità sarà decisa il prossimo 7 Marzo. Intanto, numerosi gruppi anarchici, insieme a giuristi, intellettuali e artisti chiedono a gran voce l’intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Origine – Il 41- bis, conosciuto anche come “carcere duro“, fu introdotto per la prima volta nel 1986 dalla legge Gozzini. Il provvedimento riguardava la “necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza” all’interno dei carceri. Solo nel 1992, in seguito alla strage di Capaci, venne aggiunto un secondo comma, secondo cui il ministro della giustizia poteva applicare ulteriori restrizioni ai detenuti condannati per reati di stampo mafioso. La legge sarebbe dovuta rimanere in vigore per un periodo limitato ma durante il governo Berlusconi II venne resa definitiva.
Cosa prevede – A lungo rimasto sotto la lente d’ingrandimento delle istituzioni italiane ed europee, il carcere duro prevede il quasi totale isolamento del detenuto. Attraverso ad esempio il divieto di accesso agli spazi comuni, la costante sorveglianza da parte di agenti della polizia penitenziaria e la restrizione di oggetti e somme di denaro possedute, si tenta di limitare qualunque contatto tra il condannato e il mondo esterno, riducendo al minimo la possibilità di comunicazione con le associazioni criminali a cui è affiliato.
Come uscirne – Ad oggi, il regime di 41-bis può essere revocato solo su ordine del Tribunale di Sorveglianza di Roma o in caso di mancata proroga – prevista dalla legge solo dopo quattro anni dalla prima sentenza di condanna all’isolamento. Finora sono due i casi di revoca registrati. In primis Michele Aiello, condannato per associazione mafiosa e trasferito ai domiciliari in seguito alla sua diagnosi di favismo. Stessa sorte anche per il boss Antonino Troia, ritenuto uno dei colpevoli della strage di Capaci. Per il detenuto non era stato disposta la proroga del provvedimento. Secondo i giudici, infatti, il capomafia non avrebbe avuto più contatti con Cosa Nostra, rendendo l’isolamento “privo di adeguata motivazione”.
Dichiarazioni – Nelle ultime settimane, il caso ha travolto anche la politica, trasformandosi in uno strumento di lotta partitica. «Uno stato forte sa salvare vite» ha scritto sul suo profilo Twitter Cecilia D’Elia, membro della segreteria nazionale del Pd. Di parere opposto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. «Non si arretra sul 41-bis» ha dichiarato l’onorevole, in visita al carcere di Biella. «Sono strumenti speciali per affrontare mafia e terrorismo anarchico».