Un pianto «controllato» alla notizia della morte della figlia. Chiamate a una babysitter senza nome – «Giovanna o Jasmine» –  che non si trovano sul cellulare. Questi gli elementi che emergono dalle testimonianze sul caso di Alessia Pifferi, la donna accusata di aver abbandonato la figlia Diana di un anno e mezzo e di averla lasciata morire di stenti nella sua culla, nel luglio 2022 a Milano. L’aula è gremita: tra il pubblico anche la farmacista di quartiere e una cassiera del supermercato di zona, colpita dalla storia di Pifferi. Accanto all’avvocato è seduta la sorella dell’imputata, Viviana, che si è costituita parte civile. Al banco dei testimoni sono stati convocati i soccorritori e le vicine di casa.

La reazione – La mattina del 20 luglio 2022, stando alla ricostruzione della donna, Pifferi era rientrata in casa dopo qualche giorno di assenza e aveva trovato la bambina morta in camera da letto. Con l’aiuto della vicina aveva chiamato il 118: tutti i soccorritori hanno concordato nel dire che la reazione di Pifferi era stata composta. Il dottor Filippo Alberghini, il medico che le aveva dato la notizia del decesso, ha parlato di «un pianto controllato». All’arrivo della polizia la donna si era però agitata molto di più, tanto che Alberghini aveva ritenuto di darle qualche goccia di Valium, un ansiolitico. «Non vedeva l’ora di rivedere la bambina, continuava a ripetere di essere una buona madre», ha raccontato una degli operatori del 118. Anche per le vicine di casa «non c’era niente di storto nel rapporto con la figlia». Allo sguardo degli soccorritori, la casa era in ordine. I giochi della bambina ai piedi della culla, la vaschetta per neonati in bagno. Non c’era un lenzuolo sulla culla. In cucina, vicino al microonde, avevano notato una boccetta di En, una benzodiazepina, vuoto per i tre quarti. Pifferi aveva detto di averla utilizzata in poche occasioni e di non averla mai data invece alla piccola.

La baby sitter – Sul momento Pifferi aveva spiegato a tutti di aver affidato la piccola a una baby sitter, conosciuta al parco, e di averla sentita regolarmente durante la propria assenza: sul suo cellulare, non risultava però nessuna di queste telefonate. Alle domande dell’operatrice del 118 che la incalzava per avere il contatto della baby sitter, aveva poi risposto che non aveva il suo numero di telefono.

Il ritrovamento –  La difesa ha chiesto a più riprese ai testimoni quanto Pifferi fosse consapevole della morte della figlia. «Mi ha chiamato e ha detto “Diana non respira più”», ha raccontato Letizia Riccardone, che abita nel palazzo accanto a quello di Alessia Pifferi, in via Parea, e la mattina del 20 luglio 2022 era stata la prima a entrare nella casa, allertata dalla donna. Appena vista la bambina nel lettino, Riccardone ha detto di aver capito subito che era morta: aveva mani e piedi già neri, le palpebre scure. Al telefono con i soccorsi, ha aggiunto Riccardone, la donna continuava a ripetere solo «Non respira più». Era stata la stessa vicina di casa a prendere in mano il cellulare e a specificare al centralino del 118: «Guardate che per la bambina non c’è più nulla da fare».

I soccorsi – La telefonata al 118 era arrivata alle 11:06: le prime indicazioni erano di un codice rosso per una bambina di pochi mesi. I soccorritori avevano pensato si trattasse di un arresto cardiocircolatorio: a destinazione, cinque minuti dopo la chiamata, si erano stupiti di non aver trovato nessuno ad aspettarli sotto la casa. «La bambina era bagnata, ma era pulita. Indossava un vestito giallo e non aveva il pannolino. Non c’erano tracce di sporco in giro», ha raccontato Luca Tanzella, l’autista dell’ambulanza. Sulla schiena della piccola, una macchia ipostatica, segno evidente di decesso. Per Alberghini, questo e la necrosi di mani e piedi indicavano che la morte doveva essere sopraggiunta da diverso tempo: «Non c’erano segni di violenza. Ho pensato subito che era morta perché era stata abbandonata».