In Myanmar ad Aung San Suu Kyi non mancano soprannomi di un certo peso. Da “Orchidea di ferro”, quello più noto anche fuori dal Paese del Sud-Est asiatico, a “Maa Suu”, Mamma Suu in birmano. Dell’amore del suo popolo ha avuto una prova alle ultime elezioni lo scorso 8 novembre, nelle stesse ore in cui Joe Biden diventava presidente degli Stati Uniti. Il suo partito, la National League for Democracy (Nld), ha vinto in modo ben più schiacciante dell’avversario di Donald Trump: 396 seggi parlamentari su 476, superando il record di 390 del 2015. Nell’opposizione i più votati sono stati i militari, la Union solidarity and development party, con appena 24 seggi. Immediata denuncia di brogli da parte dei generali, gli autori del colpo di stato, che parlano di almeno un milione di casi di frode. I partiti avversari hanno poi avuto un accesso limitato ai mezzi di comunicazione e diverse censure, secondo Tom Andrews, esperto in diritti umani per le Nazioni Unite. Infine nell’app mVoter2020, che dovrebbe servire a informare la popolazione, i candidati di etnia Rohingya, minoranza musulmana perseguitata che conta in Myanmar un milione di abitanti, vengono definiti “bengalesi”, il che impedisce che vengano votati. L’arresto di Aung San Suu Kyi ha colpito il simbolo di un’ondata democratica non ancora compiuta per il Paese e un personaggio immacolato per il suo popolo, ma a cui non mancano le zone d’ombra.
#Myanmar: “This is not only wrong, it is dangerous,” says UNSR @RapporteurUn on mVoter2020 identifying #Rohingya as “Bengali.”
What do you think @SabatucciEU? Will EU publicly call out the app?
Read the full statement: https://t.co/l01kMZ2Ggo pic.twitter.com/4bBdC8RAxH
— John Quinley III (@john_hq3) November 3, 2020
L’eroina della democrazia – Il consenso quasi unanime di cui gode è anche dovuto al nome che porta: il padre è il generale Aung San, colui che negoziò l’indipendenza della Birmania dal Regno Unito nel 1947, venendo subito dopo ucciso da avversari politici. La figlia Suu Kyi aveva due anni. Trascorre l’infanzia al fianco della madre Khin Kyi, che segue in India nel 1960 durante il suo incarico di ambasciatrice birmana a Delhi. Divide i suoi studi tra Oxford e New York, dove conosce il futuro marito Michael Aris, da cui avrà i suoi due figli. Torna in Myanmar nel 1988, per stare vicina alla madre malata; in quello stesso momento il Paese è percorso dalle proteste di studenti, lavoratori e monaci che reclamano la democrazia contro il regime dittatoriale del generale Ne Win. Aung San Suu Kyi prende presto la guida della rivolta, fondando la Nld: «Non posso restare indifferente, in quanto figlia di mio padre». A ispirarla è la non-violenza del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King, ma ciò non le risparmia l’arresto e la brutale repressione dei militari nei confronti deu suoi seguaci. Maa Suu viene relegata agli arresti domiciliari, dove trascorrerà 15 dei successivi 22 anni. Il suo ruolo di baluardo democratico del popolo birmano rimane comunque intatto e lei rinuncia persino a lasciare il Paese nel 1999 mentre il marito sta morendo di cancro. Otto anni prima aveva ricevuto il Premio Nobel per la Pace, a suggellare il riconoscimento del suo lavoro anche da parte della comunità internazionale. La svolta arriva nel 2010, quando torna in libertà e viene riammessa nel processo politico. Si inizia a costruire il sogno di un Myanmar democratico e il culmine arriva con le elezioni del novembre 2015, le prime libere dal 1962. Il suo partito trionfa. La carica di Presidente non va a lei comunque, perché la Costituzione lo impedisce a chi ha figli stranieri. Si accontenta di essere Consigliere di Stato, ma il comando è di fatto suo.
Una transizione controversa – Proprio quando può iniziare la transizione democratica del Myanmar, arrivano i primi scricchiolii intorno alla figura de “L’Orchidea di Ferro”. Il nodo maggiore è la sua gestione del caso Rohingya, la minoranza musulmana stanziata nella regione del Rakhine. Da anni contro di loro vengono perpetrate atrocità di ogni tipo, stupri a massacri da parte dei militari, tanto che in migliaia nel 2017 hanno tentato la fuga in Bangladesh. Le persecuzioni arrivano dalla maggioranza dei nazionalisti buddhisti, a cui Aung San Suu Kyi è sempre stata fedele, dato che da loro arriva gran parte del consenso. La Corte di Giustizia Internazionale parla di un vero e proprio genocidio, ma lei ha risposto minimizzando: «La situazione è stata descritta in modo impreciso e ingannevole». Maa Suu non ha mai condannato l’esercito, lo stesso che, prima degli ultimi eventi, controllava un quarto del Parlamento e deteneva i ministeri dell’Interno, degli Esteri e della Difesa. Anche giornalisti e attivisti sono stati spesso vittime del potere di un Paese ancora lontano dal potersi definire pienamente democratico. Tutto questo ha danneggiato e non poco la reputazione di Maa Suu all’interno della comunità internazionale.
L’amore dei birmani – Il Myanmar ha sofferto la pandemia da Covid-19 più degli altri Paesi del Sud-Est asiatico, ma la popolarità di Aung Sun Suu Kyi non ha vacillato: l’indice di gradimento è del 79%, secondo la People’s Alliance for Credible Elections, un ente non governativo locale. Il nuovo arresto, come riporta il Guardian, verrebbe visto come un ritorno dei tempi bui dell’oppressione militare. La figura dell’Orchidea di Ferro rende però la situazione più complessa di quanto sembra. Lo aveva già detto alla BBC Derek Mitchell, ex ambasciatore americano in Myanmar, dopo le ultime elezioni: «Dobbiamo tenere a mente che c’è un’immagine iconica che diamo a certe persone, e al di là di questa c’è un essere umano. Forse non abbiamo capito la piena complessità di Aung San Suu Kyi».