Dopo il weekend di tensione e scontri a Gerusalemme, Hamas ha incitato ad una “nuova Intifada”. Il termine Intifada, traslitterazione dall’arabo che sta per “sussulto” o “rivoluzione”, viene utilizzato per indicare una rivolta organizzata dalle autorità palestinesi nei confronti dello stato di Israele. Nonostante sia spesso divisivo e continui a far discutere, il vocabolo è entrato nel linguaggio comune per identificare gli scontri che hanno segnato il conflitto israelo-palestinese. Nella storia ne sono state identificate tre: l’intifada delle pietre –  tra il 1987 e il 1993 –  l’intifada di Al Aqsa –  tra il 2000 e il 2005 – e quella detta dei coltelli del 2015.

 

13 settembre 1993 – La storica stretta di mano tra il primo ministro Israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell’OLP Yasser Arafat, alla presenza del presidente USA Bill Clinton, dopo la firma degli accordi di Oslo

Intifada delle pietre – Scoppiata nel dicembre del 1987 nei territori palestinesi occupati da Israele, l’Intifada delle pietre si concluse nel 1993  con la firma degli accordi di Oslo e la successiva creazione dell’Autorità nazionale palestinese, l’organismo di autogoverno della striscia di Gaza e della Cisgiordania. L’8 dicembre 1987 quattro palestinesi del campo profughi di Jabaliya, nella striscia di Gaza, muoiono investiti da un camion israeliano. Interpretata dagli abitanti della striscia di Gaza come una vendetta israeliana per l’uccisione di un cittadino ebreo avvenuta nei giorni precedenti, da lì ebbero inizio le tensioni: la protesta si espanse in vari campi profughi nei Territori occupati da Israele e trasformò le strade in veri e propri campi di battaglia, coinvolgendo tutta la popolazione, soprattutto le fasce più giovani. La protesta raggiunse anche Gerusalemme con il lancio di pietre e molotov durante gli scontri con la poliziada qui il nome Intifada delle pietre. Secondo i dati forniti da fonti di entrambre le parti, i morti furono oltre 1600: circa 1500 palestinesi e 150 israeliani.

Intifada di Al Aqsa –  La seconda Intifada,  che prende il nome dalla moschea che sorge a Gerusalemme, terzo luogo santo dell’Islam, è stata combattuta tra il 2000 e il 2005. Il 28 settembre del 2000 l’ex premier e generale israeliano Ariel Sharon passeggia sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Vista come una provocazione da parte dei palestinesi, inasprì le tensioni già in atto dopo il fallimento dei colloqui di pace tra Israele e Palestina a Camp David (nel luglio del 2000) – nonostante il tentativo di Clinton di arrivare a un accordo finale. La rivolta è segnata da sanguinosi attentati kamikaze in Israele e da azioni di guerriglia armata. Tra le immagini simbolo che hanno raccontato al mondo le violenze che stavano avvenendo, l’uccisione ripresa dai media di un dodicenne palestinese morto tra le braccia di suo padre. Il bilancio finale fu di circa 4.700 morti (più dell’80% palestinesi) e più di 2000 case palestinesi abbattute dall’esercito. Sharon, divenuto primo ministro di Israele, nel 2002 lancia la costruzione di una barriera di sicurezza in Cisgiordania e nel 2004 annuncia il ritiro unilaterale da Gaza. L’8 febbraio 2005 Sharon e il successore di Arafat, Abu Mazen, annunciano la fine delle violenze.

Intifada dei coltelli – Nel 2015, proprio mentre i negoziati di pace tra Israele e Palestina si facevano più complicati, scoppiò una nuova ondata di violenza, che venne poi  rinominata la Intifada dei coltelli. Decine di israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme vennero uccisi da attacchi con coltelli – da cui il nome – o investiti da veicoli guidati da terroristi. Per molti commentatori, non si trattò però di una vera e propria Intifada, non essendoci stato l’appoggio delle organizzazioni ufficiali della resistenza.

Hamas e “la nuova Intifada” – In un’intervista trasmessa da un’emittente gestita da Hamas – il gruppo governa la Striscia di Gaza e che si oppone all’esistenza di Israele –  il leader del gruppo Ismail Haniyeh così ha commentato le tensioni di queste ore: «Quello che sta avvenendo a Gerusalemme è un’Intifada che non si deve fermare». E ha aggiunto, rivolgendosi al premier premier israeliano Benjamin Netanyahu e avvertendolo di «non giocare col fuoco»: «Né tu né il tuo esercito possono vincere questa battaglia».