Alexei Navalny, uno degli oppositori più noti del presidente russo Vladimir Putin, è stato arrestato lo scorso 17 gennaio dalla polizia all’aeroporto di Sheremetyevo di Mosca. Il rientro in patria da cittadino libero dalla Germania, dove era stato curato nei mesi scorsi in seguito a un avvelenamento, è durato una manciata di minuti. Il tempo esatto che ha impiegato per arrivare al controllo passaporti dell’aeroporto, dove ad aspettarlo, oltre ai giornalisti, c’erano anche gli ufficiali del dipartimento operativo del Servizio penitenziario russo. Alcuni suoi sostenitori, tra cui Leonid Volkov, fanno sapere attraverso Telegram che nella mattinata del 18 gennaio Alexei è stato portato nel secondo dipartimento del ministero dell’Interno a Khimki. In un video che sta girando su internet l’arrestato dice che probabilmente verrà processato là, anche se per il momento è senza il suo avvocato Olga Mikhailova, la quale non ha ancora ottenuto il permesso di entrare.

Le vicende giudiziarie – L’avvocato, blogger e leader di Russia del Futuro (il partito liberale e democratico in forte opposizione al partito di Governo Russia Unita) era stato condannato a tre anni e mezzo di reclusione nel 2014 per frode e riciclaggio di denaro della compagnia di cosmetici francese Yves Rocher. È inoltre accusato dal Comitato di Istruzione di Russia di aver speso 356 milioni di rubli (circa 4,8 milioni di dollari), destinati al finanziamento di diverse organizzazioni come il Fondo della Lotta contro la Corruzione da lui fondato, per fini personali. Nonostante le vicissitudini giudiziarie che lo coinvolgono da anni, Navalny ha comunque deciso di rientrare in Russia. «Io sono qui e vi posso assicurare di essere felice – ha dichiarato ai giornalisti appena dopo l’atterraggio – questa è casa mia». Un gesto che segna un punto importante per l’opposizione russa: processato e accusato, Navalny si dice certo di aver ragione ed esorta i cittadini dissidenti a non aver paura.

Le reazioni della politica internazionale – L’arresto appena dopo l’atterraggio non è passato inosservato nella politica mondiale, come pure la decisione di tornare a Mosca nonostante gli avvenimenti della scorsa estate. Paolo Gentiloni, ex Presidente del Consiglio e ora Commissario europeo per gli Affari economici e monetari, già alle 18:39 del 17 gennaio aveva manifestato il suo apprezzamento per quella decisione tanto difficile sottolineando il coraggio mostrato da Navalny. Tuttavia, è stato proprio l’arresto a scatenare l’ondata di tweet e dichiarazioni più importante. Tra le figure di spicco della politica internazionale si distinguono le parole di Charles Michel, il presidente del Consiglio europeo, e quello del Parlamento europeo David Sassoli che richiedono l’immediato rilascio, oltre alla ferma condanna della presidente della Commissione Europea Ursula von Der Leyen. Scarcerazione richiesta anche dal vincitore delle elezioni americane del 2020 Joe Biden che, attraverso le parole del suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, aggiunge che questi attacchi da parte del Cremlino nei confronti del dissidente Navalny «non sono solo una violazione dei diritti umani, ma anche un affronto al popolo russo che vuole che la propria voce sia ascoltata». Dall’Italia le condanne all’arresto arrivano sia dal ministro degli Affari Esteri Luigi Di Maio, che dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, mentre dai profili social del centrodestra non è ancora apparsa alcuna presa di posizione.

L’avvelenamento del 20 agosto 2020 – La politica russa torna quindi al centro del dibattito mondiale, ancora una volta per le vicende legate ad Alexei Navalny. Sono passati appena cinque mesi da quel 20 agosto 2020 quando il leader di Russia del Futuro collassò durante il volo che da Tomsk (Siberia) lo avrebbe portato a Mosca. Fatto atterrare alla più vicina Omsk, una volta ricoverato in terapia intensiva i medici affermarono di non aver rilevato alcuna traccia d’avvelenamento. Il quadro clinico di Alexei non migliorava, così le autorità russe consentirono un paio di giorno dopo il suo trasferimento all’ospedale Charité di Berlino. Là scoprirono che in effetti era stato proprio un agente nervino a portarlo prima al collasso e poi al coma. Si cominciò così a cercare il responsabile di quello che poteva essere chiamato attentato politico. Il primo indiziato, per ovvie motivazioni politiche, non poteva che essere il Governo russo, il quale però ha sempre negato il proprio coinvolgimento. «I nostri servizi di sicurezza lo tenevano d’occhio – ammetterà poi il Presidente Putin – ma questo non significa altro. Noi non l’abbiamo avvelenato. Se qualcuno avesse voluto avvelenarlo avrebbe probabilmente finito il lavoro».