Non si ferma l’esodo dei cittadini stranieri presenti in Sudan. L’ultimo Paese a muoversi è stata la Cina, principale partner commerciale di Khartoum, che ha deciso di impiegare le propria marina per portare via il personale delle ambasciate e i propri connazionali. Il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti è stato rispettato solo in alcune aree del Sudan. Continuano infatti gli scontri tra le Forze di sostegno rapido (Rsf), un gruppo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdane Daglo e l’esercito guidato da Abdel-Fattah Burhan. Anche nella capitale si combatte strada per strada. Intanto le organizzazioni internazionali lanciano l’allarme sullo stato delle strutture sanitarie del Paese.

Ospedali al collasso – La situazione sanitaria in Sudan è grave. «Gli ospedali sono sopraffatti dall’enorme afflusso di feriti, migliaia di persone sono in fuga alla ricerca di un luogo sicuro», riportano i team di Medici Senza Frontiere che continuano a lavorare senza sosta nel Paese. La Sestina ha parlato con Michele Usuelli, medico di Emergency che si trovava in Sudan quando sono scoppiati gli sconti: «Nel Paese abbiamo 3 progetti ancora attivi: a Nyala e a Port Sudan due reparti di pediatria, mentre a Khartoum una cardiochirurgia con 7 medici italiani che hanno deciso di restare. C’era anche un quarto progetto, dove lavoravo io, in un campo profughi nella periferia di Khartoum ma è stato chiuso appena sono iniziati i combattimenti perché non c’erano le condizioni minime di sicurezza per poter operare.» La situazione nel Paese nord africano è particolarmente difficile, ha spiegato Usuelli: «Negli ospedali mancano medicinali ma soprattutto scarseggiano le sacche di sangue, che sono fondamentali per salvare la vita delle persone durante una guerra. Il tutto è reso ancor più complicato dai bombardamenti che colpiscono anche gli ospedali». Ci sono però anche ragioni endemiche: «La crisi politica e economica degli ultimi anni ha fatto sì che moltissimi medici sudanesi emigrassero».

La fuga dal Paese – Chi può scappare dal Sudan lo fa. Non solo i singoli cittadini occidentali: tutte le ambasciate presenti nello stato africano hanno chiuso i propri uffici e organizzato il rimpatrio dei connazionali. Usuelli ha raccontato com’è avvenuto il suo rientro in Italia: «Avevamo il punto di rendez-vous nel nord di Khartoum e dovevamo arrivarci con i nostri mezzi. Il percorso fino al luogo d’incontro è stato molto pericoloso e abbiamo dovuto attraversare vari checkpoint di entrambe le fazioni. Viaggiavamo su dei pulmini di Emergency e siamo stati protetti dalla reputazione del logo Emergency, che è in Sudan da più di 20 anni. Una volta raggiunto il punto d’incontro è partita la carovana, gestita dall’ambasciata italiana, fino all’aeroporto designato dove c’era un C-130 dell’aviazione ad aspettarci. Siamo atterrati prima alla base italiana a Gibuti e poi siamo arrivati a Roma». Per i sudanesi scappare è più complicato e l’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, teme l’esodo di massa: «Se la violenza in Sudan non si ferma, il rischio di una grave crisi di rifugiati è molto alto. Migliaia sono già in movimento in cerca di sicurezza.» Ad affermarlo Filippo Grandi, Alto commissario Onu per i rifugiati, che ha anche fatto un appello agli stati confinanti affinché «mantengano aperti i propri confini alle persone che scappano dalla guerra in cerca di protezione».