Era previsto ed è successo. Donald Trump ha sbancato alle primarie repubblicane vincendo in tutti gli Stati del Super Tuesday, escluso il Vermont. Nikki Haley, l’ultima rivale dell’ex presidente rimasta in gara fino al più grande appuntamento elettorale prima di novembre, ha deciso di lasciare la corsa per la nomination dopo le ennesime sconfitte. A novembre sarà ancora Biden contro Trump, questa volta però con il primo alla Casa Bianca e il secondo in testa ai sondaggi. In un’indagine del Siena College in collaborazione con il New York Times, il tycoon è avanti di 5 punti rispetto al presidente attuale: il maggior vantaggio rilevato da questo istituto da quando Trump si è candidato per la prima volta nel 2015. In vista delle presidenziali, Biden deve recuperare terreno e gli elettori di Haley potrebbero essere una risorsa.

Addio Haley- L’ex governatrice del South Carolina aveva dichiarato: «Finché sarò competitiva resterò in corsa». E così la sconfitta con distacchi abissali (60 punti in California e Texas) in 14 dei 15 stati del Super Tuesday repubblicano ha causato la sospensione della sua campagna. Sospensione e non ritiro perché potenzialmente Haley potrebbe decidere di tornare in corsa. Una questione di forma più che sostanza dato che sarebbe sempre in forte minoranza in un Gop (Grand old party) dichiaratamente a favore di Trump e del suo MAGA movement (Make America Great Again). Nel discorso d’abbandono, Haley non ha però voluto dare il suo sostegno all’ex presidente avvertendo che: «Si deve guadagnare i miei voti».

L’ora di Biden- Anche la sfida del presidente per ottenere una seconda nomination non ha incontrato veri rivali nel partito. L’unico sfidante in gara fino al Super Tuesday, il deputato del Minnesota Dean Phillips, si è ritirato dando il proprio endorsement a Biden con un lungo post su X. In casa democratica hanno fatto però molto parlare i voti uncommitted (nessuna preferenza) arrivati come protesta nei confronti del Presidente: raggiungendo addirittura il 18,9% in Minnesota. Questo fenomeno però non è nuovo: alle primarie del 2012 con Obama alla Casa Bianca e in corsa per la rielezione, i voti di protesta furono molti. Tanto che in alcuni Stati si erano registrate percentuali ancora più alte: in Massachusetts gli uncommitted furono quasi il 19% contro il 9% di questa tornata. Biden deve dare una scossa alla sua campagna, dato il suo basso indice di popolarità legato anche al fatto che per alcuni sarebbe troppo vecchio per governare la nazione. Un momento di svolta potrebbe arrivare dal discorso sullo stato dell’Unione, il tradizionale appuntamento nel quale il presidente espone al Congresso la situazione del Paese. Per questo, una sua arringa al Campidoglio, suo naturale terreno di caccia (è stato per 36 anni senatore), potrebbe aiutarlo a farsi vedere ancora forte e voglioso di continuare a guidare l’America.

I punti deboli di Trump- Nonostante la vittoria schiacciante alle primarie, qualche campanello d’allarme è suonato per The Donald. Non tanto per la sconfitta in Vermont, uno Stato che vota tradizionalmente democratico, quanto per i suoi risultati in alcune contee chiave. Il primo problema riguarda il voto suburbano, ovvero tutti quegli elettori abbastanza ricchi per poter avere una casa con giardino nei sobborghi di una grande città, ma non abbastanza per averla in città. Questi hanno spesso preferito Haley a Trump: in Virginia l’ex presidente ha vinto di 28 punti, ma ha perso nella contea di Arlington (staccata da Washington dal solo fiume Potomac) dove Haley ha trionfato con addirittura il 71,4%. Una situazione simile c’è stata anche nel North Carolina, roccaforte rossa, ma che potrebbe diventare uno swing state. Qui il tycoon ha distaccato Haley di oltre 50 punti ma ha faticato nei sobborghi: nella contea di Mecklenburg che contiene la città di Charlotte (la più popolosa dello Stato) i due si sono quasi equivalsi. Questi dati suonano preoccupanti per Trump, anche alla luce di un sondaggio CNBC secondo cui solo il 34% di chi ha votato Haley voterà sicuramente repubblicano a novembre.