Dopo 10 giorni di conflitto, che al 20 maggio ha causato la morte di 227 palestinesi e 12 israeliani, sembra più vicino il cessate il fuoco tra lo Stato Ebraico e Hamas. Il vice-capo di Hamas Moussa Abu Marzouk, che solo pochi giorni fa negava questa possibilità, ha dichiarato di credere che «gli sforzi per un cessate il fuoco avranno successo e che quest’ultimo potrà arrivare entro 1-2 giorni sulla base di un accordo condiviso». Tuttavia ad ora, sia pure con minore intensità rispetto agli ultimi giorni, lo scontro prosegue. Nelle prime ore di oggi, giovedì 20 maggio, ci sono state altre 100 incursioni israeliane nel nord della Striscia di Gaza, seguite da lancio di missili da parte palestinese, che non hanno però fatto danni. Accanto al conflitto che potrebbe avviarsi al termine, si snodano però anche scenari politici, strategici e diplomatici, non solo nelle due parti coinvolte, ma anche negli Stati Uniti.

Ha vinto Hamas? – Secondo Muhammad Shehada, editorialista del quotidiano israeliano Haaretz, il vero vincitore di questo scontro è Hamas. L’organizzazione si è accreditata come l’unica che ha difeso l’onta del blocco della Spianata delle Moschee durante il Ramadan e degli sfratti di alcune famiglie musulmane da Gerusalemme Est. Ha poi surclassato il rivale interno Abu Mazen che nel conflitto è stato sostanzialmente irrilevante, anche se negli ultimi giorni ha alzato i toni contro Tel Aviv («Da Israele c’è stato terrorismo di Stato e crimini di guerra», ha dichiarato). A fine aprile, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese aveva posticipato le elezioni. Ufficialmente per il rifiuto di Israele di far votare gli abitanti di Gerusalemme Est, probabilmente per il timore di una vittoria di Hamas, che ha avuto così buon gioco ad attaccarlo. Militarmente poi, mai erano stati sparati tanti razzi contro lo Stato Ebraico, sia pure quasi tutti intercettati dal sistema di difesa israeliano Iron Dome. La morte di alcuni suoi capi, oltre che di decine di civili palestinesi innocenti, non è mai stata un problema per un’organizzazione di estremisti votata al martirio. Anzi, l’alto numero di vittime civili (in parte causate dalla deliberata scelta di Hamas di mischiare siti militari e civili) è un’arma di immagine importante per accusare Israele di essere uno stato terrorista.

La resurrezione di Netanyahu – Meno convinto di un cessate il fuoco è il primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Nonostante le richieste di de-escalation giunte anche dagli alleati, ha ribadito che «Israele non sta col cronometro in mano. Altre operazioni sono durante un tempo prolungato, necessario per mettere in sicurezza i nostri cittadini». Il premier vive un periodo di difficoltà interna: sotto processo per corruzione, non era riuscito a formare un nuovo governo nonostante il supporto dei partiti della destra ortodossa. Nei giorni immediatamente precedenti all’escalation, era stato affidato l’incarico di tentare di formare il governo a Yair Lapid, leader del partito centrista Yesh Atid. Si era parlato della possibilità che quest’ultimo formasse un governo comprendente il partito arabo Ra’am. Dopo il conflitto, questa via sembra essere impraticabile. Netanyahu sta dunque vivendo la sua ennesima resurrezione politica.

I dilemmi americani – Rispetto agli altri conflitti israelo-palestinesi, in questo caso è stato più defilato il ruolo degli Stati Uniti. In parte ciò è dovuto al fatto che Netanyahu non intende mostrare di prendere ordini da Washington. Ma il presidente Joe Biden vive anche problematiche interne. L’ala sinistra del Partito Democratico ha usato toni particolarmente duri verso Israele, con Alexandria Ocasio-Cortez che ha accusato Tel Aviv di praticare l’apartheid verso i palestinesi e per questo di non essere una democrazia. Toni senza precedenti, ben diversi da quelli usati da Biden. Il presidente ha più volte chiamato Netanyahu (l’ultima mercoledì 19 maggio) chiedendogli una de-escalation, finora senza successo. Tuttavia, gli Stati Uniti non hanno certo abbandonato il loro storico alleato, così come non l’hanno fatto le cancellerie europee, nessuna delle quali ha condannato le azioni di Tel Aviv a Gaza. Al Consiglio di Sicurezza Onu, la Francia ha presentato una mozione non vincolante per chiedere il cessate al fuoco, sulla quale il delegato americano ha posto il veto. Rimane però evidente come Biden sia meno morbido del suo predecessore nei confronti di Netanyahu.

I timori israeliani – Nel corso del conflitto, sono stati sparati alcuni razzi verso Israele anche dal Libano. Nessuno di questi è andato a segno, ma la cosa ha allarmato Tel Aviv. Nel sud del Paese è infatti stanziato Hezbollah, gruppo sciita con una potenza militare ben superiore a quella di Hamas. Hezbollah ha negato responsabilità: è dunque probabile che in questo caso i razzi siano stati lanciati da piccoli gruppi palestinesi. Tuttavia, il timore di un conflitto su due fronti con Hamas e Hezbollah rischierebbe di mettere in crisi Iron Dome, costringendo lo stato Ebraico a onerose missioni di terra, come avvenuto in Libano nel 2006. In quel caso gli israeliani lasciarono sul campo 119 militari e 43 civili furono uccisi dal lancio di razzi nella Galilea. Preoccupa infine Israele l’atteggiamento degli arabo-israeliani nelle proprie città: per la prima volta sono scesi in sciopero contro le azioni del governo e vi sono stati scontri violenti con la popolazione ebraica. Dal momento che gli arabi rappresentano il 20% della popolazione israeliana e sono in crescita demografica, la loro integrazione è probabilmente la principale sfida che Israele dovrà vincere nei prossimi anni per garantire la propria sicurezza.