Sono passati due lunghi e travagliati mesi prima che l’Italia avesse un nuovo governo. Una dilatazione cronologica segnata dalla ricerca della soluzione che soddisfacesse buona parte del panorama politico. Ne è nato uno sfogliare infinito di margherita: questo sì, questo no, questo forse. Alla fine, il petalo vincente della margherita si è rivelato un ex Margherita (il soggetto politico, stavolta): Enrico Letta è il presidente del Consiglio del nuovo governo, che si è formato con il benestare di Pd, Pdl e Scelta Civica. Un’alleanza ricalcata su quella del precedente esecutivo, presieduto da Mario Monti, resasi necessaria in virtù dello stallo politico creatosi all’indomani delle elezioni politiche.

Prima che il governo Letta prendesse forma, sul piatto della bilancia sono state messe diverse ipotesi. Tra queste, a spiccare per la sua particolarità (e per la scarsa applicazione in Italia) c’è il governo di minoranza. Cosa si intende con questa espressione? Ci riferiamo a un governo formato da una coalizione che in Parlamento conta solo su una maggioranza relativa. In altre parole, una coalizione priva di maggioranza assoluta in Parlamento (cioè la metà dei seggi più uno) governa con l’appoggio esterno di altre liste (che votano i provvedimenti del governo ma non ne fanno parte).

Sembrerebbe una soluzione di emergenza, da applicare in extrema ratio, e invece è più diffuso di quanto si creda. Uno studio di Kaare Strom, professore di scienze politiche all’Università di San Diego, ha certificato che dal dopoguerra al 2000 un terzo di tutti i governi in Europa occidentale sono governi di minoranza, con un’incidenza di gran lunga maggiore nei Paesi nordici: in Danimarca l’82% dei governi sono di minoranza, in Svezia l’81%, in Norvegia il 65%.

Tornando alla situazione italiana, lo scenario creatosi all’indomani delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio scorsi ha posto le premesse per un possibile varo di un governo di minoranza. I numeri consegnati dalle urne non hanno assicurato una solida maggioranza in Senato a nessuna delle forze politiche in campo. Se alla Camera la coalizione di centrosinistra ha la maggioranza, in virtù della legge elettorale che destina alla coalizione arrivata per prima il 55% dei seggi, in Senato nessuno ha raggiunto la soglia dei 158 seggi, necessaria per avere la maggioranza assoluta. A Palazzo Madama il mosaico è così strutturato: “Italia bene comune” (coalizione di Pd, Sel, Svp, Lista Crocetta) ha 123 seggi (con il 31,63% delle preferenze), la coalizione di centrodestra con Pdl, Lega Nord e Grande Sud conta su 117 seggi (30,72%), il Movimento 5 Stelle ne ha 54 (23,79%) e Scelta Civica ne ha 19 (9,13%).

Il quadro è evidente: nessuna delle formazioni politiche può, da sola, raggiungere la soglia dei 158 seggi, che vuol dire maggioranza assoluta. Una quota inavvicinabile anche in caso di accordo tra Pd e Scelta Civica, il più praticabile tra quelli possibili.

Ma la soluzione del governo di minoranza non è andata in porto. Perché in Italia questa strada è così poco battuta rispetto agli altri Paesi? La risposta potrebbe annidarsi nel terzo comma dell’art. 94 della nostra Costituzione: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia”. Una procedura standard in Italia, che non trova eguali riscontri in altri Stati. In Francia, ad esempio, basta la nomina presidenziale. In Svezia si conteggiano i voti contrari al candidato premier e il governo non ottiene il nullaosta solo nel caso che i no ottengano la maggioranza assoluta (i voti contrari possono anche superare i voti favorevoli). In Italia, invece, è obbligatorio che i sì alla fiducia siano espressi dalla metà dei componenti più uno, sia alla Camera sia al Senato (in quest’ultimo caso gli astenuti si sommano ai no).

È questo il nodo della faccenda: il fatto che, per poter prendere il largo, il nuovo governo deve ottenere la fiducia dalla maggioranza dei parlamentari. Politicamente, per un partito d’opposizione è più semplice non chiedere la sfiducia che votare la fiducia. Così come un voto a favore pesa decisamente di più rispetto ad un’astensione. Sono “messaggi” politici che condizionano enormemente lo scacchiere parlamentare.

Per questo, è necessario un accordo preventivo con le altre forze politiche. Non a caso Bersani, nel tentativo di spingere alla formazione di un governo di minoranza, ha ricordato la stagione del cosiddetto “compromesso storico”. Ad Agorà, programma della Rai, diceva così il 9 aprile: “Vorrei far notare che nel famoso 1976 c’era uno che governava e gli altri che consentivano. Era una singolare forma di governo di minoranza, la forma consentita dal nostro meccanismo costituzionale”. Ma cos’era avvenuto nel 1976? Anche allora, come oggi, nessuna delle forze politiche aveva da parte i numeri per la maggioranza assoluta. Alla Camera la Dc aveva 262 seggi, il Pci 228, il Psi 57, mentre al Senato la Dc contava su 135 seggi, il Pci su 116, il Psi su 29. Il clima di allora, con il Paese che attraversava la drammatica stagione del terrorismo e con tensioni sociali a rischio esplosione, consigliò ai partiti di cercare una convergenza. In forza dell’accordo tra democristiani e comunisti, nel luglio 1976 Giulio Andreotti formò un governo di minoranza targato Dc. Una legislatura che poteva contare sull’appoggio esterno delle opposizioni o, come si diceva ai tempi, sulla loro “non sfiducia”.

Ma Bersani è rimasto isolato. Ha cercato, invano, una sponda nel Movimento 5 stelle. Molti osservatori hanno subito pensato alla possibilità di un governo ricalcato sul modello siciliano, dove il presidente della Regione, Rosario Crocetta (centrosinistra), si è appoggiato spesso ai voti dei grillini. Ma questo è stato possibile perché l’insediamento di Crocetta non è passato da un voto di fiducia: i presidenti della Regione sono eletti direttamente dai cittadini e non devono chiedere nessuna fiducia in aula. Bersani non era in una posizione di forza come Crocetta e non ha avuto quello che sperava: la battaglia politica portata avanti dai 5 Stelle mal si conciliava con un voto di fiducia a un esecutivo che non fosse guidato da un loro esponente. Anche il Pdl, che da subito ha caldeggiato un accordo di governo con il Pd, ha subito rifiutato l’ipotesi del governo di minoranza, che l’avrebbe visto fuori da cariche di governo. Appoggiare un governo con esponenti appartenenti unicamente al centrosinistra sarebbe stato uno scenario controproducente per il centrodestra, data la distanza politica esistente tra le due coalizioni. E così il governo di minoranza si è rivelato un piatto indigesto.

Francesco Paolo Giordano