Cambiano i colori (e i partiti) ma le parole sono sempre le stesse: «tagliando di governo», «rimpasto», «via i dissidenti» e «meno tasse». Nella politica italiana, in un anno, è cambiato tutto ma non è cambiato niente. A partire da lui, Giuseppe Conte, che come i vecchi notabili democristiani sopravvive incolume al cambio di stagione, alle crisi di governo e alle maggioranze “quadripartito” (Pd, M5S, Leu, Italia Viva). Eppure “Giuseppi”, come l’ha ribattezzato l’amico fraterno Donald Trump, ora non è più «l’avvocato del popolo» che avrebbe difeso l’Italia durante un 2019 «bellissimo». Dopo la crisi di Ferragosto aperta da Matteo Salvini dalle spiagge del Papeete Beach, Conte è rimasto premier ma di un’altra maggioranza: non più gialloverde, ma giallorossa (o giallorosé, a seconda dei punti di vista). E l’unica grossa differenza rispetto alla fine del 2018 è proprio questa: chi sta al governo e chi all’opposizione, chi sta al potere e chi va in piazza. Per il resto, la tradizionale conferenza stampa di fine anno del premier non è stata poi tanto diversa rispetto a quella di un anno fa: i temi dei dibattito politico sono sempre gli stessi, i problemi sul tavolo pure. Vediamoli, anche se per le risposte dobbiamo attendere il 2020.

Il rimpasto di governo – La manovra economica, ogni anno, porta con sé fibrillazioni. Soprattutto se il governo è di coalizione. E così era stato l’anno scorso con la Lega che chiedeva la testa di due ministri di peso del M5S: Danilo Toninelli alle Infrastrutture e Barbara Lezzi al Sud che secondo Matteo Salvini «rallentavano l’azione di governo» sul tema delle Infrastrutture (Toninelli contro il Tav Torino-Lione, Lezzi contro il Tap pugliese). Entrambi i due esponenti pentastellati inoltre avevano messo più volte in imbarazzo il governo con alcune celebri gaffe (la foto con famiglia di Toninelli nel giorno del crollo del ponte Morandi e il Pil del 2017 aumentato per «il caldo», secondo Lezzi). Il M5S li aveva difesi a spada tratta ma, durante la conferenza di fine anno, il premier Conte spiazzò tutti: «Se il rimpasto fosse prospettato lo valuteremo. Spero sia condiviso, che non destabilizzi». Poi, il presidente del Consiglio aveva detto ai cronisti che «il tagliando di governo non è da escludere».
Un anno dopo, il dibattito politico verte ancora sulle caselle dell’esecutivo, non più Lega-M5S ma Pd-M5s. Alla vigilia di Natale ha lasciato il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. Motivo? Nella manovra economica non ci sono quei 3 miliardi da lui richiesti per finanziare la ricerca. Dimissioni annunciate da tempo e, da molti, sottovalutate. Eppure, in pochi giorni, il mini rimpasto si è concretizzato: durante la conferenza stampa di sabato 28 dicembre Conte ha annunciato di aver spacchettato il Miur in due dicasteri che saranno guidati dalla sottosegretaria Lucia Azzolina (Scuola) e dal Presidente della Crui (Conferenza dei Rettori) Gaetano Manfredi (Università). L’anno finisce così ma, dal 7 gennaio, i primi vertici di maggioranza saranno su due temi: il «cronoprogramma» dei prossimi tre anni e, di nuovo, il «tagliando di governo» con Pd, Leu e Italia Viva.

Il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti (Ansa/Fusco)

«Tasse, tasse, tasse…» – La fine del 2018 si era chiusa con una polemica che per giorni aveva occupato tutte le prime pagine dei giornali: la cosiddetta “tassa sulla bontà“. Per fare cassa, infatti, il governo gialloverde aveva deciso di inserire una norma nel maxiemendamento alla legge di bilancio 2019 che avrebbe portato all’abolizione dell’Ires agevolata (portandola così dal 12 al 24%) per istituti di assistenza sociale, fondazioni, enti ospedalieri e istituti di istruzione senza scopo di lucro. Un esborso di circa 120 milioni per il terzo settore. Le proteste del mondo cattolico e delle associazioni furono rumorose e alla fine il governo fu costretto al passo indietro. All’ordine del giorno però c’erano soprattutto due misure introdotte dal governo Lega-M5S: il reddito di cittadinanza (un sussidio variabile per chi si trova al di sotto della soglia di povertà) e la flat tax leghista (15% di Irpef per professionisti, commercianti e artigiani). Nonostante gli annunci, calcolò l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, la pressione fiscale continuava a crescere: in tre anni, le tasse sarebbero salite di 13 miliardi.
Il governo giallorosa sul fronte dei conti pubblici è più mesto. Meno annunci roboanti, più attenzione a non dare grattacapi a Bruxelles. L’obiettivo, d’altronde, era quello di «mettere in sicurezza il Paese» (copyright Roberto Gualtieri) evitando l’aumento dell’Iva. Costo? 23 miliardi. Finanziate in parte in debito grazie alla solita flessibilità concessa dall’Unione Europea, in parte da nuove tasse e balzelli come quella sulla plastica e la stangata sul gioco d’azzardo. Eppure, il rinvio delle clausole Iva e il taglio di 3 miliardi del cuneo fiscale basta per far esultare la maggioranza: «E’ una manovra che abbassa le tasse agli italiani» spiega il ministro dell’Economia Gualtieri. Matteo Renzi e la sua “Italia Viva” non ne sono tanto convinti. Ma intanto la finanziaria 2020 l’hanno votata. Del futuro del governo si riparlerà a gennaio.

Il giuramento del governo Conte II
(Ansa/Di Meo)

Il mercato dei parlamentari – “M5S, al via il processo per i dissidenti” (La Repubblica, 29.12.2018). “Mes, il governo regge. I grillini perdono pezzi: in tre verso la Lega” (La Repubblica, 12.12.2019). Un anno fa i dissidenti, verso sinistra, erano i 5 Stelle Paola Nugnes e Gregorio De Falco, oggi sono tre senatori che decidono di virare a destra, direttamente nelle braccia dell’ex amico Salvini: Stefano Lucidi, Ugo Grassi e Francesco Urraro. Cambiano i casus belli ma non le manovre parlamentari che fanno traballare il Conte I e il Conte II: un anno fa lo scontro si materializzò sul decreto Autonomie e sul primo dei due decreti Sicurezza voluto fortemente dal ministro dell’Interno Salvini, oggi è la risoluzione del fondo salva-Stati che secondo diversi grillini d’antan ci farebbe scivolare «nelle braccia di Angela Merkel e degli euroburocrati di Bruxelles e Francoforte». Al Senato i numeri continuano a essere risicati (5 voti nell’ultimo voto del 2019): basta qualche raffreddore e il governo va sotto. Il «tagliando» di gennaio servirà proprio a questo: a puntellare Conte.

Matteo Renzi e Matteo Salvini a Porta a Porta
(Ansa/Frustaci)

Le novità: Italia Viva e le sardine – Nel panorama politico italiano, oltre all’inedita alleanza giallorosa, le novità che ha portato il 2019 sono due. In primis, a settembre, poco dopo il sostegno al governo Conte II, Matteo Renzi ha deciso di lasciare il Partito Democratico per formare un nuovo movimento, “Italia Viva“, in grado di posizionarsi al centro dello scacchiere politico e diventare determinante sulla tenuta dell’esecutivo. La manovra parlamentare è stata benedetta alla “Leopolda 10” quando è stato presentato il simbolo del nuovo partito. Il debutto? Alle elezioni regionali in Toscana dove Renzi spera di portare a casa almeno il 10%. Le inchieste della magistratura sulla fondazione Open e sull’acquisto della sua villa fiorentina sembrano aver rallentato la corsa dell’ex premier: secondo i sondaggi, “Italia Viva” si attesta intorno al 3-4%.

Le sardine in piazza a Firenze (Ansa/Giovannini)

La seconda, grossa novità, sono le “sardine”, il movimento di piazza nato il 14 novembre in Piazza Maggiore a Bologna per rovinare la festa all’apertura della campagna elettorale in Emilia Romagna (si vota il 26 gennaio) di Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni. In pochi mesi il movimento si estende in tutta la regione – da Modena a Rimini passando per Reggio Emilia – e poi in tutta Italia: Sorrento, Firenze, Torino, Milano e infine Roma dove avviene la nascita ufficiale del marchio “6000 Sardine”. Migliaia di persone che protestano contro il «populismo», «la politica dell’odio» e i «decreti di Sicurezza» di Matteo Salvini. I quattro organizzatori bolognesi guidati dal giovane Mattia Santori hanno raccolto in poche ore 50mila euro per le prossime manifestazioni. Diventeranno partito? Per questo, bisogna aspettare un altro anno.