Farewell Tour: il tour di addio. Venne chiamato così il giro dei campi che Kobe Bryant si concesse nel suo ultimo anno di carriera, stagione 2015/2016. Aveva annunciato che avrebbe appeso le scarpe al chiodo il 30 novembre del 2015, con una lettera sul sito The Players Tribune intitolata “Dear Basketball”. Fino al giorno del ritiro, il 13 aprile successivo, con i 60 punti segnati in casa contro gli Utah Jazz, per lui fu un tripudio di applausi, saluti e video commemorativi. Ogni squadra lo omaggiò l’ultima volta che lo incontrò da avversario.

Eppure a più di qualcuno quel commiato non piacque. Troppa retorica, troppa enfasi, quasi fosse una scusa per non soffermarsi sulla realtà: su una squadra, i Los Angeles Lakers, l’unica di tutta la sua carriera, che da anni non era più competitiva (anche) per la sua presenza ormai ingombrante. Un contratto troppo ricco per un giocatore a fine carriera, in parabola decadente, reduce da lunghi infortuni, che bloccava il mercato. Dopotutto, Kobe Bryant non piaceva a tutti, c’era chi lo detestava.

Non è un caso che la Nike, per celebrare il suo addio al basket, realizzò uno straordinario spot, “The Conductor”, in cui Kobe veniva insultato da tifosi di varie squadre che aveva affrontato (e sconfitto). Con Bryant che si beava di quel coro e di quegli insulti, di quel ritornello, “I hate you”. “Ti odieremo”, gli cantavano. E lui dirigeva, come un maestro d’orchestra.

 

Non era una forzatura. Kobe Bryant in campo era arrogante, spigoloso, consapevole del suo talento, della sua forza, tecnica e mentale. Del suo controllo sugli avversari, sui momenti delle partite. La sua era la consapevolezza dei migliori. Che sanno di esserlo, che lavorano ogni giorno per esserlo e che non hanno paura di dimostrarlo, anche con sfacciataggine.

E poi aveva la qualità di tutte le leggende, quella di essere più grande del proprio sport. Di precederlo. Si può non avere mai preso una racchetta in mano, ma sapere chi è Roger Federer. Si può salire su una moto per sentirsi Valentino Rossi, pur non avendo mai visto una sua gara. Per una generazione di ragazzi, fare una pallina di carta per poi tirarla verso il cestino era un tentativo di imitare Kobe Bryant. Ma qualcuno di quei ragazzi non lo aveva mai visto giocare, era anche disinteressato al basket. Lo aveva però sentito nominare nei racconti degli amici, nelle notizie di sottofondo passate su un telegiornale.

Per questo, la notizia della sua morte è stata un continuo rimbalzo di messaggi, di chat esplose, di aggiornamenti compulsivi su siti e social che potessero darne notizia. La trepidante attesa di una smentita, la confidenza nella fake news si sono trasformate in rassegnazione a una verità inaspettata. L’atleta divisivo, in parte odiato per le sconfitte inferte e detestato per il proprio ego, è diventato l’uomo amato da tutti. Un lutto condiviso, in cui nessuno ha voluto far mancare il suo pensiero, il suo ricordo, il suo messaggio. Per chi è abituato a scandire la propria vita attraverso il ritiro dei propri idoli, la morte è un passaggio non considerato. Perché se il ritiro è un’opzione che prima o poi si mette in preventivo, per abituarsi all’idea che il tempo passa e si diventa grandi, anche vecchi, la morte è lo smarrimento di un patrimonio personale e collettivo, è il riferimento che diventa perdita, è qualcosa di concreto, le partite viste, i suoi canestri emulati al campetto, che si trasformano già in ricordo lontano.

Alessandro Mamoli, giornalista di Sky Sport che ha condotto lo speciale andato in onda dopo la notizia della scomparsa di Kobe, aveva gli occhi lucidi durante la diretta, sulla sua faccia si poteva leggere l’incredulità di chi, nonostante gli anni di carriera alle spalle, non riusciva a contenere emotivamente la portata di quanto accaduto. Tanti, a casa, si sono messi nei suoi panni, hanno reagito come lui, con la fortuna di avere la libertà di versare qualche lacrima. I tifosi dei Los Angeles Lakers per i cinque titoli vinti; gli italiani per la sua infanzia vissuta al seguito del padre, giocatore anche lui, tra Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, per il suo amore mai rinnegato per il nostro Paese; gli amanti del basket per essere stato un esempio, un’ispirazione. 

E allora meno male che c’è stato quel farewell tour, meno male che quattro anni fa Bryant ci ha dato la possibilità di salutarlo, di iniziare a prendere in considerazione l’idea di uno sport (e di una vita) senza di lui.
Perché all’addio di ieri non saremmo mai stati preparati a sufficienza.